martedì 30 settembre 2008

Se questo è un romanzo



Non volevo farlo.
Sono stati i farmaci che prendo.
No, è stato il Dottore a costringermi.
Perché la colpa, sin dall'inizio, è stata sua. Figuriamoci se mi mettevo a scrivere un romanzo, io!
E invece, sempre per colpa del Dottore (che mi perseguitava e mi frustava se appena appena provavo a fare il lavativo), alla fine è venuto fuori l'oggetto, l'opera, la cosa.
Insomma, questo.
 
Razza Impura
 
Sì, lo percepisco: no, pietà, gli ennesimi scrittori della domenica (addirittura ci si sono messi in due!) che affardellano un malloppone con il distillato delle loro esperienze di fracasados.
In realtà si tratta di un thriller, dico sul serio. È un romanzo di fantascienza. È un pamphlet politicamente estremo. È un romance fiabesco, e pure epico (Wu Ming, perdonaci: non sapevamo quello che facevamo... E ultimamente i neuroni mi scappano dalle orecchie come il percolato da un monte di monnezza).
E adesso, sempre per colpa del Dottore, mi tocca pure parlare di Razza Impura, di promuoverlo!
Meglio cominciare con un estratto (e perdonate gli spazi dopo ogni a capo, ma non so come metter mano a certi aspetti della formattazione di Splinder).
 
«Non so da dove cominciare... Voi cosa sapete?»
 
 
 
«Non mi sembra il momento di mercanteggiare sulle informazioni.»
 
«Siete voi che siete venuti da me.»
«Non c'è nessun problema» intervenne il Dottore. «Sappiamo che lavoravi in un centro di ricerche in Arkansas, insieme a un tuo amico coreano, Jae-young Kwak. Sappiamo che molti, forse tutti quelli che operavano lì con te sono stati uccisi. Sappiamo dell'esistenza del Progetto Rattus. Sono cose che ci hai confermato appena adesso. Quanto al Progetto, si tratta di un'ibridazione uomo-ratto, o qualcosa del genere, e servirebbe a generare una stirpe di bestiame umanoide. Servi, assassini, sudditi, seguaci, diccelo tu...»
Gunnar scosse la testa.
«A quanto pare non sapete molto.»
«Allora» disse Estela, «gli uomini topo non esistono?» Si sentiva quasi offesa al pensiero che la morte della madre fosse dovuta a un semplice essere umano.
«Certo che esistono. Ma la loro creazione è solo una parte, anzi, direi che è solo un effetto secondario del Progetto...»
«Oddio» ruppe il suo silenzio Marina, che non riusciva a immaginare cosa ci potesse essere di peggio di un mostro mezzo uomo mezzo ratto di chiavica.
«E di che si tratta?» chiese il Dottore, che di colpo si domandò se questo ragazzone dalla faccia infelice fosse davvero chi credevano che fosse. Dopotutto, le informazioni di Andreas erano frammentarie, di terza mano. Ed era stato il loro misterioso insider ad averli indirizzati in mezzo ai sami. Anche a volersi fidare, niente obbligava Gunnar a essere sincero con loro.
«Per farvi capire devo parlarvi del lavoro di Molnar Dezsiderius...» Gunnar non sembrava disposto alla concisione.
Domenico sembrava sul punto di interromperlo per invitarlo a tagliare corto, ma il Dottore gli fece un piccolissimo cenno cogli occhi. Visto che lo svedese aveva tanta venerazione per Molnar, sarebbe stato meglio non contrariarlo.
«Immagino che sappiate cos'è il DNA mitocondriale» disse Gunnar.
 
 
 
 
 
E già, ecco la fantascienza. O almeno, una delle sue evenienze.
 
 
 
 
«Smettila, Esder» soffiò fuori dai denti. «Non siamo difettosi. Qualcosa vi sta sfuggendo di mano, questo è evidente. Non ti chiedi perché il raccolto sia diminuito quasi della metà, quest'anno? Perché i Fedeli che dichiarate difettosi o mettete in quarantena sono sempre più numerosi? Non siamo noi, siete voi a essere difettosi. È la nostra Fede a essere difettosa! E non parlare di pensionamento! Dì pure che quando non serviamo più veniamo buttati nel cesso!»
Luthar parlò facendo fluire liberamente le emozioni e quando terminò la frase fu sorpreso delle sue stesse parole. Un Supervisore ascoltava in silenzio da dietro la parete a specchio.
Già, qualcosa non stava funzionando e lui sapeva cosa, lo aveva sempre saputo. C'è un elemento che sfugge sempre anche alla più accurata selezione e programmazione: l'imponderabile, la mutazione casuale, il fato, Dio, gli si può dare il nome che si vuole.
E non c'è rimedio
Giotiana si alzò e guardò fuori della finestra. Il cielo nero aveva nascosto le stelle. Disattivò tutte le emozioni, escludendo la parte destra del cervello. Sfilò lo spillone che reggeva la sua acconciatura e si piantò lo spillone in gola, trapassando entrambe le carotidi, da destra a sinistra.
Quando Luthar arrivò, Giotiana era immersa nel sangue. La baciò, leccò le sue ferite, e dopo aver guardato in alto per un minuto si lacerò la gola con un gesto rapido delle mani. La cartilagine tiroidea andò in frantumi, la trachea apparve come il tubo strappato di un elettrodomestico in disuso.
Soffocò senza avvertire emozioni. Era la cosa logica da fare.
 
 
E naturalmente L'AZIONE!
 
 
 
«E se si aziona il sistema antincendio?» chiese il Dottore guardando in alto.
Domenico fece una smorfia, levandosi il berretto di lana per grattarsi la pelata.
«Questi stronzi non hanno nessuna coscienza ecologica» disse. «Usano un impianto a gas halon...»
«E come mai non abbiamo dei respiratori?»
«Ehm... C'è stato un contrattempo, sai com'è. Ma tanto dopo quella svolta c'è la centralina di controllo. La sistemiamo, e poi possiamo appicciare tutti i focherelli che ci pare!»
L'interruzione delle comunicazioni e le detonazioni avevano fatto serrare automaticamente tutte le porte blindate, per cui la via più rapida per raggiungere l'obbiettivo (il gruppo di ricercatori che a quest'ora si ritrovava isolato negli ambienti centrali) era quella del corridoio esagonale che circoscriveva il laboratorio. Dopo aver distrutto il sistema antincendio, arrivarono alla paratia che li separava dal secondo quarto di corridoio.
«Tenete pronte le pistole» disse Domenico, mentre piazzava le cariche. «Non avendo informazioni sulla natura dell'attacco, gli altri uomini si saranno piazzati a difesa del laboratorio principale, dove dovrebbero essere i nostri bersagli... Ma non si può mai sapere, magari qualcuno si sta facendo una passeggiata.»
Ma una volta fatta saltare la paratia, non trovarono nessuno ad aspettarli. Percorso quasi tutto il secondo quarto di corridoio, il percorso faceva una breve curva ad angolo, proprio in direzione dell'interno dell'impianto. Erano tutti zuppi di sudore, i giubbotti sembravano di piombo e puzzavano come un letto di malattia.
«Questa è l'ultima» disse Domenico, dopo aver minato la porta.
La procedura si ripetè: detonazione, lancio di granate, irruzione. I colpi dei fucili a pompa russi sembravano colpi di mazza su una pietra.
«Ciao, ragazzi, siamo a casa» gracidò, agghiacciante, Domenico.
Al di là del caos di suppellettili polverizzate e di cadaveri letteralmente spaccati in due, i pannelli corazzati del laboratorio principale mostravano i volti pallidi di Thorton, Blunt e Koukopulos, rimasti bloccati in quella sezione dalla chiusura automatica delle porte blindate. Maria era appena visibile, accovacciata in un angolo, il volto tra le ginocchia.
 
Non vogliamo mica farci mancare un po' (anzi, un bel po') di politica, eh?
 
 
Due ore dopo, del tutto mutati d'aspetto, i quattro stavano per salire sul treno per Pescara, quando videro i primi giornali del mattino. Ne comprarono un paio.
 
 
 
 
 
ORRORE IN CITTÀ
L'onorevole Panetta e il professor Massimo Amodio, l’Assessore alle politiche sociali del Comune di Milano Tiziana Mariolo e la ex presidentessa alla Provincia di Milano Orietta De Collibus brutalmente assassinati in casa del leader radicaliberale. Si segue la pista islamica.
 
Il Professor Amodio, politologo vicino ai radicaliberali, era famoso per il suo libro Benedetti Americani, in cui tentava di ribaltare il clichè del malvagio e insaziabile imperialismo statunitense, attribuendo allo zio Sam il merito di essere stato un argine contro la barbarie e il terrorismo. I due uomini e le due donne erano stati colti di sorpresa da individui penetrati furtivamente in casa, ed erano stati uccisi con quattro precisi colpi di pistola alla fronte. Il leader radicaliberale giaceva riverso sul tavolo del soggiorno in una pozza di sangue, mentre il professore era seduto in poltrona con la testa reclinata all’indietro e lo sguardo attonito. Le due donne erano sedute sul divano e sembravano quasi stringersi in un ultimo abbraccio. Un lavoro pulito, da professionisti, niente tracce, nessun apparente movente. La pista araba era solo una vaga ipotesi originata da una recente polemica scatenata dai quattro nei confronti del leader libico Gheddafi e dal plauso dato a un'iniziativa di Oriana Fallaci, nota scrittrice ferocemente antislamica, che aveva provocatoriamente pubblicato vignette ritenute offensive per l’Islam.
«Ma pensa» commentò Domenico. «Allora noi eravamo solo la seconda portata, per il sestetto di ottoni. Mi sa tanto che il dossier Mithrokin 2 resterà solo una delle tante chiacchiere cospirazioniste che girano per la rete, e chiunque abbia ancora qualcosa in mano, se non ha già capito il messaggio, farà la fine di Panetta...»
«Vedremo cosa ci dira il commissario» disse il Dottore. «Ma mi domando una cosa.»
«E sarebbe?» chiese Estela.
«Perché il leader del centrosinistra, l'onorevole Dalmanera, ci vuole morti.»
 
 
Non so se lo avete capito, ma i protagonisti del romanzo siamo noi. Cioè Franco Cilli e Domenico D'Amico. No, non si tratta di una narrazione autobiografica (e non sarebbe educato tirare in ballo concetti come megalomania e mitomania): i personaggi di Razza Impura sono fittizi, pur conservando alcuni tratti dei loro omonimi terreni...
 
 
 
Infatti, il dottor Cilli (nella storia citato più che altro col sintetico appellativo di Dottore) è davvero uno psichiatra, e a me, Domenico D'Amico (svariatamente indicato come Orco o Cara de Lobo), piace davvero da matti abbuffarmi.
 
 
 
La Sosta era un locale accogliente, dall'atmosfera familiare, e il proprietario, tanto gentile quanto in carne, accolse Domenico e il Dottore come due ospiti d'onore, lanciando un'occhiata ammirata in direzione di Marina. I tre si persero in chiacchiere senza costrutto e ipotesi fantasiose, mangiando pasta alla chitarra con polpettine e stinco di vitello al forno con patate. Marina, dopo il primo bicchiere nel covo di Domenico, stava diventando sempre più socievole, e manifestò sghignazzando la sua meraviglia di fronte alla rabelaisiana voracità di Faccia di Lupo (così aveva cominciato a chiamarlo). In effetti Domenico sembrava preda di una fame multigenerazionale. Non solo azzannava enormi porzioni di cibo, ma sembrava assaporarle e fagocitarle come se fossero inestimabile ambrosia. Assumeva dosi di peperoncino al limite della letalità, e sembrava che la sua sopravvivenza dipendesse da quante patate al forno riuscisse a trangugiare. Quanto al vino, estinse da solo due bottiglie di Barone Cornacchia. E mentre mangiava, parlava. Con voce a volte sibilante a volte stentorea, lardellava lo scibile umano con osservazioni sia profonde sia oltraggiose, rimbalzando da un improperio contro Moby Dick (un romanzo, a quanto pare, che non aveva apprezzato più per motivi etici che stilistici) a un bislacco peana narratologico in onore del telefilm Buffy.
 
 
 
 
 
 
Ma di che accidenti tratta questo romanzo?
Essenzialmente vede il Dottore, che all'inizio conduce una vita relativamente normale, coinvolto e fagocitato in un groviglio di cospirazioni, complotti politici, trame terroristiche, apocalittiche rivelazioni riguardanti la biologia molecolare e sconvolgenti dissidi spirituali. Tutto questo gliommero lo porta in giro per il mondo, aiutato da una scombiccherata compagnia di fenomeni (tra cui il mio doppio narrativo, che non è solo appassionato di cibo, ma anche di armi ed esplosivi): Spagna, Svezia, Cuba, Stati Uniti.
Ci sono scene caratterizzate da violenza e oscenità, ma, insomma, non si può fare una frittata senza rompere qualche cranio.
In attesa di una migliore collocazione, il libro ce lo siamo autoprodotto, utilizzando una di quelle copisterie-editrici online (cliccate sul topo in cima o qua sotto).
 
 
Per finire, un ultimo spizzico.
 
 
 
 
Il Presidente del Consiglio era rinculato fuori del bar, respirando con difficoltà, il corpo oscillante, semicurvo. Brandiva per il collo una bottiglia di Blue Curaçao. Il Dottore rimase dov'era.
 
«La prego di non rendersi ulteriormente ridicolo, presidente» disse. «Siamo qui per avere qualche chiarimento, non per farle del male. Per quel che riguarda gli attentati del (...), non si dia pena di negare o inventarsi storie alternative...»
«È così che si chiamano le stronzate, adesso?» commentò Domenico, ingollando la seconda vodka.
«...dato che conosciamo già i particolari della sua complicità. No, siamo qui per sapere qual è il suo referente nella faccenda. Chi le ha dato l'imbeccata?»
 
Per non parlare del [nostro] faccia a faccia con Fidel Castro!
Dulcis in fundo, una breve carrellata delle copertine scartate prima di arrivare a quella definitiva.
 
Domenico D'Amico
 
razza impura
 
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razza impura
 
razza impura
 
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