Pubblichiamo l'intervento di Alessandro Roncaglia al convegno su “La
crisi finanziaria e i suoi sviluppi: gli insegnamenti di Hyman Minsky”,
Roma, 10 settembre 2012.
di Alessandro Roncaglia da Micromega
L’argomento
del convegno, il pensiero di Hyman Minsky e gli insegnamenti che ne
possiamo trarre per la crisi attuale, è in forte corrispondenza con gli
obiettivi dell'associazione Economia civile, che ha organizzato questo
incontro. I nostri riferimenti culturali indicano infatti chiaramente
che per economia civile non intendiamo il settore non profit considerato
come un terzo settore dell’economia in opposizione a Stato e mercato,
come fa una vasta letteratura cattolica, ma una concezione dell’economia
e della società tutta, che pur all’interno di un’economia
sostanzialmente di mercato (per quanto coesistente con un ruolo
rilevante del settore pubblico) pone a obiettivo centrale lo sviluppo
civile della società nel suo complesso, tramite un insieme di regole e
interventi pubblici ma anche tramite lo sviluppo e la difesa di una
cultura civica, che nel nostro paese è ancora troppo poco diffusa. Credo
di poter dire che Hyman sarebbe stato d’accordo con questa
impostazione. Ad essa infatti ha fornito un importante contributo
scientifico analizzando il modo di funzionare dell’economia
capitalistica e mettendone in luce l’intrinseca instabilità e la
propensione a cadere ripetutamente in situazioni di crisi. In questo
modo Hyman poteva indicare a quali politiche ricorrere per rendere meno
fragile l’economia e per sostenere l’occupazione, che costituiva per lui
un obiettivo centrale. Anzi, proprio alla piena occupazione erano
dirette le sue proposte di considerare il governo come datore di lavoro
di ultima istanza, che affiancasse il ruolo comunemente attribuito alla
banca centrale di prestatore di ultima istanza.
Provo a sintetizzare in tre punti il contributo di Hyman: incertezza, fragilità finanziaria, money manager capitalism. Nel suo primo importante libro, John Maynard Keynes,
del 1975, Hyman propone una interpretazione di Keynes diversa da quella
dominante della cosiddetta sintesi neoclassica di Hicks e Samuelson, ma
anche da quella prevalente tra i post-keynesiani allievi diretti di
Keynes a Cambridge, come Kahn e Joan Robinson. Minsky infatti nella sua
interpretazione attribuisce un ruolo importante all’incertezza, discussa
da Keynes nel suo Treatise on probability del 1921.
L’incertezza non è considerata una caratteristica indefinita,
contrapposta al rischio probabilistico; ma il caso generale di un
continuum che ha ai suoi estremi la certezza assoluta e l’incertezza
totale. Nella realtà ci troviamo comunemente in situazioni intermedie.
Così Keynes, quando parla di grado di confidenza nell’argomento,
sottolinea le differenze esistenti tra situazioni in cui l’incertezza è
più o meno grande: ad esempio le decisioni d’investimento che riguardano
un orizzonte temporale lungo vanno distinte da quelle sui livelli di
produzione che riguardano un orizzonte temporale decisamente più breve.
Questa
nozione di incertezza è alla base della teoria della liquidità di
Keynes, cioè la spinta a detenere attività liquide per fare fronte a
cambiamenti imprevisti nella situazione, ed è alla base della
descrizione dei mercati finanziari come fondati su convenzioni adottate
dagli operatori, cui ci si riferisce come al clima delle opinioni che
possono cambiare anche bruscamente di fronte a modifiche della
situazione.
Su questa base, e utilizzando in modo innovativo
l’analisi dei flussi di fondi della tradizione di Irving Fisher, Minsky
costruisce la sua teoria della fragilità finanziaria endogena: una
teoria che avrebbe dovuto fruttargli il Nobel, se il comitato di
Stoccolma fosse stato meno conservatore, meno orientato verso le teorie
liberiste, che sostengono il mito della mano invisibile del mercato
basandosi su assunti barocchi come quello di una economia a un solo bene
o dalla quale l’incertezza sia completamente assente. Per questa teoria
possiamo fare riferimento ai saggi raccolti nel libro Can “It” happen again? Essays on instability and finance,
del 1982; il riferimento del titolo è alla Grande Crisi del 1929; la
profezia di Hyman è appunto che una crisi di quelle dimensioni può
ripresentarsi, come appunto è avvenuto.
Minsky descrive
l’economia come un sistema di flussi di attività e passività; in questo
schema d’analisi introduce la distinzione tra i) situazioni coperte, in
cui i flussi di entrata previsti più che coprono per tutti i periodi a
venire gli esborsi per gli interessi e gli ammortamenti sui debiti, ii)
situazioni speculative, in cui la copertura è assicurata per gli
interessi che man mano maturano ma non per l’intero ammontare delle rate
di ammortamento del debito, per cui l’agente economico sa già in
partenza che sarà costretto a ricorrere al mercato finanziario per
finanziare la propria posizione, e infine iii) le situazioni di Ponzi
finance, in cui il debito cresce nel tempo per l’impossibilità di fare
fronte agli oneri per interessi e ammortamenti, come avviene ad esempio
quando si specula sull’aumento di prezzo di un immobile ricorrendo a
sempre nuovi prestiti per pagare le rate del mutuo.
All’interno
di questo schema appare chiaro come per la stabilità dell’economia sia
decisiva la correttezza delle valutazioni degli operatori economici
sull’andamento futuro dei flussi di attività e passività, che sono
ovviamente incerti. Minsky richiama al riguardo la nozione keynesiana di
grado di fiducia, che è soggettiva: è l’operatore che si sente più o
meno sicuro delle sue valutazioni, nel nostro caso delle sue valutazioni
sull’andamento dei flussi di attività e passività e quindi sulla
solvibilità futura delle sue posizioni. Sulla base del proprio grado di
fiducia, l’operatore determina i margini di sicurezza da mantenere per
fare fronte a cambiamenti nella situazione e assicurare la solvibilità
delle proprie posizioni, che si tratti di posizioni coperte o
speculative o Ponzi.
Minsky rileva che quando l’economia va bene e
il clima delle opinioni migliora la quota delle operazioni speculative e
Ponzi tende a crescere, rendendo più fragile la situazione finanziaria
dell’economia. Inoltre in una fase di tranquillità il grado di fiducia
degli operatori nelle proprie valutazioni tende a crescere e i margini
di sicurezza vengono corrispondentemente ridotti. Gli stessi regolatori –
sempre sotto pressione da parte degli operatori del settore – tendono a
lasciare briglie sempre più sciolte al mercato. Ma se i tassi
d’interesse crescono e/o l’economia inizia ad andare meno bene, le
operazioni coperte possono diventare speculative e quelle speculative
operazioni Ponzi. Specie nel caso delle operazioni Ponzi, quando la
tendenza apparentemente inarrestabile all’aumento dei prezzi delle
attività si esaurisce – si pensi a quanto è accaduto nel mercato
immobiliare statunitense –, il clima delle opinioni muta bruscamente e
gli operatori non riescono più a finanziare le proprie posizioni
scoperte, portando a una liquidazione delle attività, quindi a un crollo
ulteriore dei prezzi, con una crisi di liquidità che si trasforma
rapidamente in una crisi di solvibilità, giungendo quindi a una crisi
che è assieme finanziaria ed economica.
Nella crisi in atto, i
riferimenti alla teoria di Minsky si sono moltiplicati. Si può discutere
se la crisi abbia seguito esattamente il percorso indicato da tale
teoria – Minsky concentrava l’attenzione su una catena di nessi di causa
ed effetto che collega il settore finanziario a quello industriale – ma
quel che è certo è che la teoria di Minsky fornisce elementi
fondamentali per comprendere la situazione e intervenire su di essa:
l’idea di una fragilità finanziaria che tende a crescere nei periodi
“normali” e che esplode in crisi sempre più violente man mano che in
base all’esperienza precedente gli operatori si persuadono che lo Stato
interverrà a salvare la situazione; l’idea, quindi, della necessità di
una regolamentazione dei mercati finanziari per impedire la crescita
continua della fragilità finanziaria; l’idea che la politica economica
debba prestare molta attenzione non solo all’andamento del reddito e
dell’inflazione ma anche ai prezzi degli asset, come tra gli altri ha
sostenuto negli anni precedente la crisi Kindleberger, che ha utilizzato
la teoria di Minsky per la sua celebre storia delle crisi.
Per
comprendere la situazione in cui ci troviamo dobbiamo tenere conto anche
dell’evolversi nel tempo della natura stessa del capitalismo. Al
riguardo possiamo fare riferimento a un altro scritto di Minsky,
pubblicato nel 1990 nella raccolta di saggi in onore di Paolo Sylos
Labini, intitolato “Schumpeter e la finanza” (Minsky, come Sylos, era
stato allievo di Schumpeter). In questo lavoro, e prima ancora in alcune
conferenze che ho avuto il privilegio di ascoltare negli anni ’80 alla
International Summer School for Advanced Economic Studies di Trieste,
Hyman ha sottolineato che alle fasi storiche del capitalismo
commerciale, di quello finanziario e di quello manageriale è seguita,
negli ultimi decenni, quella che ha battezzato la fase del capitalismo
dei gestori di fondi finanziari (money manager capitalism). Si tratta di
una fase in cui i mercati finanziari dominano l’economia reale: i
manager finanziari, che gestiscono stock di ricchezza enormi comprando e
vendendo continuamente attività per guadagnare su variazioni di prezzo
anche minime, hanno un orizzonte temporale brevissimo.
L’economia
manageriale è superata in quanto i manager delle grandi corporations
non possono più contare su un potere sostanziale di fronte a una platea
di piccoli azionisti, ma debbono fronteggiare operatori finanziari che
possono creare (o cedere) pacchetti azionari di dimensioni
significative, sufficienti a scalare i consigli di amministrazione.
Diversamente dagli imprenditori che guidano un’impresa cercando di fare
profitti sulla differenza tra ricavi e costi lungo l’intero arco di vita
di un impianto industriale, i manager finanziari puntano a trarre
profitti dalla differenza di prezzo di un asset ora e domani, o tra
un’ora, o tra pochi minuti. Questo rende l’economia meno efficace sul
piano della crescita della produttività o in relazione a problemi di
sostenibilità ecologica e sociale data la minore attenzione prestata ai
problemi di lungo periodo, più instabile di fronte ai cambiamenti del
clima delle opinioni, più difficile da controllare con gli strumenti
tradizionali di politica economica. Keynes diceva, nella Teoria generale,
che sarebbe stata una situazione ben difficile quella in cui fosse
stata la coda della finanza a muovere il cane dell’economia reale; ed è
proprio quanto avviene non occasionalmente, ma sistematicamente, nel
money manager capitalism descritto da Minsky. Un aspetto del money
manager capitalism sottolineato da Minsky concerne le elevate
retribuzioni dei manager, che vengono comunemente assimilate a salari
mentre dovrebbero essere assimilate ai profitti: non solo per
comprendere il tipo di incentivi cui queste retribuzioni danno luogo, ma
anche e soprattutto per comprendere meglio l’evoluzione in atto
nell’economia, per quanto riguarda l’andamento della distribuzione del
reddito ma soprattutto l’evoluzione dei rapporti di potere e della
struttura sociale.
Vi sono molti altri elementi utili nella
teoria di Minsky sui quali ora non mi è possibile ora soffermarmi, come
ad esempio l’importanza che viene attribuita alla distribuzione del
reddito, in particolare all’andamento dei profitti e quindi agli
elementi che li determinano. Per quest’aspetto Minsky richiama Kalecki,
di cui invece critica la teoria monetaria troppo rudimentale. Se teniamo
conto di questi elementi, possiamo vedere che quella di Minsky non è
una teoria della finanza, ma una concezione generale del funzionamento
dell’economia, che include aspetti finanziari e reali nel gioco delle
loro interrelazioni. Inoltre possiamo sottolineare che la teoria di
Minsky è articolata in modo non rigido, secondo il metodo delle catene
causali brevi che Keynes riteneva il più adatto per un mondo in cui a
ogni nesso di causa ed effetto non possiamo attribuire il carattere di
necessità assoluta.
Di qui la mia convinzione, discussa a lungo
con Hyman, che si potesse trovare un ponte tra Keynes e Sraffa – o, più
precisamente, tra il Keynes come lo interpretava lui e lo Sraffa come lo
interpretavo io, certo non tra il Keynes racchiuso nel breve periodo di
Marshall o meglio di Richard Kahn o esteso al lungo periodo alla
maniera della scuola di Cambridge di Kaldor, Joan Robinson o Pasinetti e
lo Sraffa interpretato alla Garegnani come analisi delle posizioni di
lungo periodo. Su questo tema abbiamo discusso parecchio durante le
successive riunioni della scuola estiva di Trieste, organizzata da
Parrinello con Garegnani e Kregel per raccogliere assieme i
rappresentanti dei vari filoni di ricerca non neoclassici. Con Hyman
avevamo anche pensato alla possibilità di scrivere un Manifesto
keynesian-sraffiano sulle linee che ho appena accennato, ma purtroppo
poi non se ne è fatto nulla. I temi aperti riguardavano, per quanto
posso ricostruire ora, non la teoria dei mercati finanziari o la teoria
del valore, ma la teoria del pricing e della distribuzione del reddito, a
partire dal ruolo della nozione di saggio uniforme del profitto al
quale Hyman obiettava e dalla nozione di nessi non soltanto ex post ma
anche ex ante tra investimenti, profitti, saldo del bilancio pubblico e
della bilancia dei pagamenti che a me sembrava e sembra difficile da
sostenere.
Quali insegnamenti possiamo trarre dalla teoria di Minsky per la situazione di oggi?
L’insegnamento
principale, credo, è che i problemi che abbiamo di fronte non
riguardano semplicemente qualche errore nella conduzione della politica
economica e la necessità di qualche modifica regolamentare relativamente
modesta nel settore delle attività finanziarie. La crisi che abbiamo di
fronte non è una semplice crisi da scoppio di una bolla immobiliare,
seguita da una seconda crisi dei debiti sovrani e aperta al rischio di
successive crisi che potrebbero riguardare le carte di credito o qualche
mercato dei derivati e quindi qualche grande banca internazionale. La
crisi che abbiamo di fronte ha caratteristiche di base comuni, pur
assumendo connotati diversi nelle sue fasi successive: riguarda
innanzitutto la fragilità dell’economia finanziarizzata, o come diceva
Hyman la fragilità del money manager capitalism. I rimedi dobbiamo
trovarli in questo contesto, in riforme istituzionali che ridimensionino
il ruolo della finanza a quello di una coda che non sia in grado di far
ballare il cane dell’insieme delle attività reali. Non si tratta, certo
non solo, di far aumentare la capitalizzazione delle banche sulla base
di valutazioni dei rischi condotte utilizzando modelli sofisticati ma
con fondamenta assai dubbie, come è nella tradizione delle regole di
Basilea. Si tratta piuttosto di riportare sotto controllo tutti i
settori della finanza, limitandone le dimensioni e il potere di ricatto
insito nel too big to fail.
Varie misure utili a
muoversi in questa direzione sono già in discussione, come la Tobin tax
sulle transazioni finanziarie, limiti alla dimensione delle istituzioni
finanziarie per assicurare che un loro eventuale fallimento non crei
problemi sistemici, vincoli ai tipi di operazioni permesse alle
istituzioni finanziarie che raccolgono depositi dal pubblico, limiti
drastici alla leva finanziaria per tutti gli operatori finanziari.
Rinvio al riguardo a un recente lavoro di Elisabetta Montanaro e Mario
Tonveronachi, presentato due giorni fa a un convegno organizzato dalla
Ford Foundation. Queste misure vanno realizzate in tempi rapidi, se non
vogliamo essere travolti da una successione di emergenze.
Hyman,
come Sylos Labini, considerava come un impegno civile l’attività di
ricerca nel campo dell’economia: un’attività di ricerca che va quindi
condotta in modo aperto, tramite la discussione e il confronto, e non
cercando di imporre la propria posizione sulle altre tramite la forza
del potere politico, come invece purtroppo sta accadendo in questo
periodo tramite meccanismi di valutazione della ricerca decisamente non
neutrali tra i diversi orientamenti e le diverse aree della ricerca
economica.
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