A cinque anni dallo scoppio della crisi il bilancio sull'efficacia delle
contromisure che sono state adottate appare completamente negativo. C'è
però una ragione di ottimismo: il dibattito tra gli economisti si è
riaperto. Anticipiamo l'intervento che terrà Roberto Petrini al convegno
“La crisi finanziaria e i suoi sviluppi: gli insegnamenti di Hyman Minsky”
organizzato dalla Fondazione A.J. Zaninoni e da “Economia Civile” (10
settembre, ore 16.00 Sala delle Colonne, Camera dei Deputati piazza Poli
19, Roma)
di Roberto Petrini da Micromega
Pochi
giorni fa, la più grande crisi economica dopo il 1929, ha compiuto
cinque anni. Sono passati esattamente cinque anni infatti da quel 31
luglio del 2007 quando due hedge fund di Bear Stearns dichiararono
bancarotta: pochi giorni dopo, il 9 agosto, ci fu il primo crollo di
Wall Street. Il resto è storia nota: una enorme crisi, misurabile in una
straordinaria contrazione del prodotto e una gigantesca perdita di
posti di lavoro, che si è ribaltata dagli Stati Uniti all’Europa.
Si
può tentare un bilancio sulle cause, sugli effetti, sull’efficacia
delle contromisure, sulle implicazioni per la teoria economica. Il
bilancio appare naturalmente negativo su tutti i fronti. Tranne uno: il
dibattito tra gli economisti si è riaperto, il conformismo si è spezzato
e si cerca un nuovo paradigma.
E’ evidente come la crisi abbia
avuto come causa scatenante aspetti reali dell’economia: negli Usa la
polarizzazione dei redditi ha reso necessario un sostegno della domanda
basato sui debiti (mutui subprime, carte di debito e crediti al
consumo). In Europa la polarizzazione dei redditi tra Stati più
competitivi con bilance commerciali in surplus e stati poco competitivi e
in perenne deficit, ha gonfiato i debiti dei paesi mediterranei
detenuti all’estero provocando il “botto” del 2009-2010.
Qual è
stato il segno comune delle due crisi? La risposta è: la finanza.
L’economia di carta è plasticamente rappresentata dai 600 trilioni di
titoli derivati che galleggiano sul pianeta e dai 52 mila miliardi di
dollari di titoli di Stato emessi nel mondo (8.000 solo in Europa).
Ma veniamo agli aspetti teorici.
La
matrice teorica nell’ambito della quale la crisi si è potuta incubare,
sviluppare ed esplodere, in assenza di sensibili allarmi preventivi, è
stata – come ha spiegato Alessandro Roncaglia nel libro “Economisti che
sbagliano. Le radici culturali della crisi” – quella del liberismo.
Nella prima metà degli Anni Duemila i maggiori economisti mainstream
americani da Robert Lucas al banchiere centrale Alan Greenspan
descrivevano una economia destinata ad un futuro stabile e di “grande
moderazione”. L’Europa pensava di aver raggiunto la stabilità con il
rigore di Maastricht, con la presunta convergenza di tassi d’interesse e
inflazione e con la prospettiva di un salvifico mercato unico che
avrebbe evitato gli shocks asimmetrici. Tutti avevano una sconfinata
fiducia nelle capacità del mercato di autoregolarsi, senza necessità di
interventi esterni.
Malafede? Ideologia? Errori da matita blu? Si può
dar credito alla felice osservazione di Minsky – riabilitato da Martin
Wolf sul Financial Times già dal novembre del 2008 – contenuta in “Keynes e l’instabilità del capitalismo”:
“Se
per trent’anni la storia non genera fenomeni che pur vagamente
somiglino a una crisi finanziaria o a una profonda depressione, può
facilmente farsi strada l’ipotesi che, in realtà, crisi e depressioni
siano solo miti, anomalie del passato”.
Invece la crisi c’è stata e
sulla sbarra oggi ci sono le disuguaglianze economiche, la chimera del
Dio Mercato in grado di consegnarci il migliore dei mondi possibili e il
sistema della turbofinanza radicale in grado di spalmare il rischio per
il pianeta e assicurarlo contro ogni instabilità o fallimento.
Negli
ultimi tempi, a far data dalla supremazia del pensiero liberista in
economia cominciata negli Anni Ottanta, l’egemonia è stata completa:
basti pensare, come esempio, all’aggregato di potere culturale e
finanziario rappresentato, fino a qualche tempo fa, da Standard and
Poor’s, McGraw-Hill e Business Week, agenzia di rating, casa editrice di testi universitari di economia e periodico di informazione economica.
Oggi il vento è cambiato – e forse è questo è l’unico aspetto positivo di questa crisi.
Negli
Stati Uniti, sebbene non manchino le critiche, Obama ha rimesso lo
Stato al centro dell’azione politica. Si elencano: l’intervento di
salvataggio del sistema finanziario e industriale, gli stimoli
all’economia, la riforma sanitaria, il blocco della riduzione delle
tasse, l’aumento del tetto al debito pubblico, il ruolo determinate
della Fed come prestatore di ultima istanza. Negli Usa la crisi è nata
ma si può dire che è stata combattuta in modo appropriato: basta
guardare i dati del Pil.
Sul piano dei valori che sottendono all’economia non si può evitare di ricordare la suggestiva enciclica di Benedetto XVI, Caritas in veritate,
uscita poco dopo lo scoppio della crisi, che invita a mitigare il
profitto con il concetto di bene comune e scaglia anatemi contro la
finanza predatoria.
La crisi europea ha provocato un profondo ripensamento nel linguaggio e nel pubblico dibattito. Solo un paio di anni fa il Sole 24 Ore,
ospitava in prima pagina un editoriale di Luigi Zingales che si
intitolava “Speculatori, vil razza dannata (ma utile)”. Un altro
articolo di un altro editorialista recitava: “Come molti economisti,
anch’io credo nel ruolo positivo della speculazione in mercati
concorrenziali e trasparenti”.
Oggi la stessa Europa sembra aver
cambiato paradigma: lo spread non è più il termometro dello stato
canaglia, ma frutto evidente della speculazione. Tant’è che lo si vuole
raffreddare attraverso interventi della Bce e si è creato – con la
modifica dell’articolo 136 del Trattato – un fondo per la “stabilità
della zona euro” che per statuto può intervenire sul secondario e sul
primario dei titoli di Stato. Evidentemente non si considera più sacro
il verdetto dei mercati che il governatore della Bce Draghi ha definito
“irrazionali” e che il premier Mario Monti ha così descritto: “I mercati
non vanno demonizzati ma neanche ‘angelizzati’ perché non esprimono
sempre la reale situazione dei paesi”. Accantonato il mito
dell’efficienza assoluta dei mercati oggi anche la cancelliera Merkel
non usa mezzi termini e li ha bollati come “nemici del popolo”. C’è
addirittura il rischio che il vento cambi in modo troppo violento o
scomposto?
lunedì 10 settembre 2012
Crisi e teorie economiche, cambia il vento?
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Franco Cilli Hanno ucciso il mio paese. Quando percorro la riviera adriatica in macchina o col treno posso vedere chiarament...
Nessun commento:
Posta un commento