Una decisione che avrà conseguenze non da poco sui rapporti
diplomatici (e non solo) tra le grandi potenze. Un nuovo passaggio verso
un mondo sempre più multi-polare.
di Tommaso De Berlanga (il Manifesto)
La
«guerra delle monete», denunciata dal ministro delle finanze
brasiliano, Diego Mantega, una settimana fa, dopo i quantitative easing
decisi quasi in contemporanea dalle principali banche centrali del
pianeta (Europa, Usa, Giappone, Inghilterra) si arricchisce di una
battaglia potenzialmente decisiva. La Cina ha reso noto che dal 6
settembre sta pagando in yuan il petrolio che compra da Iran e Russia.
Che
c’è di male? Nulla. Solo che la moneta regina degli scambi nel mercato
delle materie prime è da oltre 60 anni il dollaro. Non basta. La
materia prima più scambiata a mondo è ovviamente il petrolio.
Conseguenza logica (storica, politica, geostrategica): del dollaro si
può fare a meno, se c’è un’alternativa. Che non è l’euro, ed anche
questo ha la sua sporca importanza.
I dirigenti del Pcc cinese sono
proverbiali per la loro prudenza. Non solo perché non è loro
intenzione irritare oltre misura gli Stati uniti, notoriamente
fumantini quando si mette in discussione con i fatti il loro dominio
globale. C’è la ragione molto più prosaica che la Cina è anche il primo
creditore degli Usa, e non le conviene affatto far «deprezzare»
violentemente la moneta di cui detiene quantità immense nei propri
forzieri. Eppure, hanno messo in essere il primo gesto esplicito che
conduce dritto al taglio di una delle gambe su cui si fonda il potere
globale Usa: il dollaro. L’altra è la potenza militare, con tanto di
supremazia tecnologica. La prudenza, perciò, è un obbligo.
Cos’ha
di particolare il dollaro? È l’unica moneta al mondo che può essere
stampata in quantità arbitrarie senza intaccare più di tanto il suo
valore. È così dall’estate del 1971, quando Richard Nixon «il bugiardo»
revocò la convertibilità tra dollaro e oro su cui si reggevano gli
accordi di Bretton Woods, del ’44. Da allora l’America scarica sul
resto del mondo tutti i propri problemi: stampa dollari e gli altri
paesi se li prendono come se fossero una «moneta rifugio». Un surrogato
dell’oro, ma «creabile» in tipografia, senza i fastidiosi limiti della
natura fisica.
Sull’isola di Kish, nel Golfo Persico, a pochi
chilometri dalla costa iraniana, gli ayatollah hanno creato oltre un
anno fa la prima borsa petrolifera con le quotazioni non espresse in
dollari, Chi ha sottovalutato la portata del gesto ha fatto male i
conti. Che il mercato delle materie prime diventi un luogo in cui «più
monete gareggiano» – ci scusi Mao Zedong per la parafrasi – è qualcosa
di più di un gesto simbolico. È la creazione di una circolazione
alternativa, di una «via di fuga» per monete nazionali – o continentali
– che rischiano sempre di essere strozzate dalle oscillazioni
«politiche» del dollaro.
Non è difficile immaginare che molto
presto – questione di settimane, non di mesi – per altre materie prime
minerali, estratte da altri paesi in altri continenti, si potrà fare
una scelta simile. Vale per l’America Latina che da tempo ha scelto di
«autonomizzarsi» dall’invadente e invasore vicino del Nord. Vale per
l’Africa, che da altrettanto tempo si vede attraversare da guerre per
delega, in territori ricchi nel sottosuolo, senza mai vedersi
restituire alcunché in termini di infrastrutture stabili. Quelle
infrastrutture che i cinesi costruiscono oggi quasi come un omaggio,
che diventerà un vincolo nel prossimo futuro.
Qualcosa si sta
rompendo nell’ordine globale. E non era previsto, quando la
globalizzazione era ancora saldamente nelle mani dell’Occidente.
mercoledì 26 settembre 2012
Mosca e Tehran rompono il monopolio Usa negli scambi sulle materie prime
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