di Giorgio Gattei da Carmilla on line
[Giorgio Gattei è docente di Storia del pensiero economico presso la Facoltà di Economia di Bologna.]
1. Se la Grande Germania ritorna.
Quando i giornali raccontano la speculazione finanziaria in atto come un
attacco dei “mercati” contro l’Europa, non la dicono giusta. Innanzi
tutto, cosa sono mai questi “mercati”? «Hanno fisionomia giuridica, un
portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche nome e
cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai
votato per loro? Se sbagliano, si dimettono? Quando e dove è stato
deciso che il loro giudizio (il famoso “giudizio dei mercati”) conta di
più dell’intera classe politica mondiale?» (M. Serra, “La Repubblica”,
19.6.2012). E poi, siamo proprio sicuri che essi si muovano contro
l’Europa od il suo omologo monetario, l’euro, e non piuttosto contro
qualcosa di ben più specifico e nazionale come la Germania? Per capirlo,
bisogna partire da lontano.
Si è ormai costituito da tempo a livello planetario un vero e proprio partito della finanza
che comprende tutti coloro che guadagnano dai movimenti dl capitale
speculativo. Stimabile attorno ai 90 milioni di persone, questo vero e
proprio “blocco sociale” opera sui mercati di Borsa «come un partito
informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento
dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica» (A.
Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Milano 2012, p. 43). È
questo “partito della finanza” che agita i “mercati”, i quali però vanno
declinati al plurale perché non hanno un comportamento univoco secondo a
come si muovono nei confronti delle due valute monetarie che si
contendono gli scambi internazionali: il dollaro e l’euro.
Conseguentemente due sono i suoi poli geografici di riferimento: da un
lato gli Stati Uniti e dall’altro la Germania, che è la vera custode
della solidità di quella moneta unica europea decisa a fare concorrenza
al dollaro.
È questa una contrapposizione recente. Gli accordi di Bretton Woods
del 1944 avevano consegnato agli Stati Uniti il monopolio della
emissione della moneta mondiale e nemmeno la fine della convertibilità
del dollaro in oro nel 1971 era riuscita a scalfirne la supremazia
valutaria. È solo con la ricomposizione delle due Germanie nel 1990 che
le cose sono cambiate. La divisione della Germania in due unità separate
e contrapposte era stata la conseguenza/punizione per i due disastrosi
“assalti al potere mondiale” che aveva tentato manu militari nel
1914-1918 e nel 1939-1945. Per evitarne un terzo gli alleati vincitori
l’avevano smilitarizzata e tagliata in due come una sogliola. Ma con la
riunificazione successiva alla implosione dell’URSS, il problema
geopolitico si è ripresentato: quale collocazione internazionale,
adeguata alla sua potenza non più militare bensì economica, dare alla
rinata Grande Germania?
2. Due visioni geopolitiche.
Secondo la dottrina geopolitica anglosassone, come è stata elaborata da
Halford Mackinder e Nicholas Spykman, ci sarebbe nel mondo un luogo
privilegiato, detto il “Cuore della terra” (Heartland), il cui
controllo politico assicurerebbe il governo del pianeta. Questo centro
strategico della storia è posizionato nelle grande steppe euroasiatiche,
così che soltanto la Russia può impadronirsene. Con una limitazione,
però: che per esercitare nei fatti la supremazia geopolitica, essa deve
traboccare su qualcuna delle “Terre di contorno” (Rimlands) che
la circondano e che si affacciano sui mari caldi degli oceani Atlantico,
Indiano e Pacifico. Da qui l’obiettivo permanente della Russia
(zarista, sovietica o quant’altro) di muoversi verso l’Europa, il Medio
Oriente, l’Afghanistan o la Corea, ma con la Gran Bretagna prima e gli
Stati Uniti poi a contrapporle una accorta ed efficace (finora) azione
di “contenimento-respingimento”.
Però la Germania ha dato alla geopolitica un proprio ed originale
contributo per opera di Karl Haushofer (1869-1946). Secondo questa
diversa “visione” del mondo non è più questione di “Cuore della terra” e
“Terre di contorno” ad esso concentriche, bensì di Pan-Regioni
che si estendono nel senso dei meridiani, da polo a polo, avendo
ciascuna uno stato-guida dominante. Esse sono quattro, e quindi Pan-America con a capo gli Stati Uniti, Pan-Asia guidata dal Giappone (ma oggi si dovrebbe dire meglio la Cina), Pan-Eurasia dominata dalla Russia e Pan-Europa
a direzione tedesca. E siccome ogni Pan-Regione dovrebbe godere del
proprio “spazio vitale geopolitico” in reciproco rispetto con quello di
ogni altra, alla Germania, in rapporti di buon vicinato con la Russia
(il capolavoro di Haushofer è stato il patto Ribbentrop-Molotov del
1939), il Giappone e pure gli Stati Uniti, avrebbe dovuto spettare la
guida delle penisole mediterranee che allora era facilitata dalla
somiglianza di regime fascista presente in Portogallo (Salazar), Italia
(Mussolini), Grecia (Metaxas) e Spagna (Franco): quattro paesi che
nell’insieme già facevano in sigla PIGS = “maiali”.
Restavano estranee a questo Nuovo Ordine Europeo con mire
espansionistiche sul Medio Oriente ed il continente africano soltanto le
democrazie di Francia e Gran Bretagna, che comunque sarebbero state
ridotte all’obbedienza con la forza. Si sa però che, se con la Francia
la sottomissione riuscì, non altrettanto avvenne con la più ostica Gran
Bretagna, nonostante il volo conciliatore tentato nel 1941 da Rudolph
Hess (il vice di Hitler che era anche il migliore allievo di Haushofer)
per trovare un accomodamento spartitorio col governo britannico. Ma
proprio in quello stesso anno Hitler, smentendo le buone regole della
geopolitica tedesca, dichiarava guerra all’Unione Sovietica ed agli
Stati Uniti (fu solo allora che la guerra “europea” divenne “mondiale”),
votandosi a quella clamorosa sconfitta da cui dovevano nascere le due
Germanie separate da una “cortina di ferro”, poi materializzatasi
fisicamente nel Muro di Berlino, che doveva sancire la fine di una
Pan-Europa autonoma dalle altre Pan-Regioni.
3. “Framania” e i suoi “maiali”.
Con la riunificazione del 1990 il gioco geopolitico tedesco si è però
riaperto e ha trovato una esplicita manifestazione di volontà nel
documento elaborato nel 1994 per conto della CDU/CSU da Wolfgang
Schäuble (cfr. Bonn va avanti con pochi sponsor, “Il Sole-24
Ore”, 12.9.1994). Vi si teorizzava che senza un consolidamento interno
l’Unione Europea avrebbe rischiato «di crollare per tornare ad essere un
debole raggruppamento di Stati incapaci di soddisfare il bisogno di
stabilità della Germania,... che è in linea di principio identico a
quello dell’Europa considerata nel suo insieme,… in quanto gli USA non
possono più svolgere il loro ruolo tradizionale ora che il conflitto
Est-Ovest è un ricordo del passato». Però questa volta a «nocciolo duro»
della rinascente Pan-Europa doveva essere posta una alleanza organica
con la Francia, che da De Gaulle in poi si era mostrata insofferente
della stretta tutela americana sulle cose europee. Attorno a questa Framania
avrebbero ovviamente gravitato nazioni “satelliti” come l’Olanda,
mentre i paesi “maiali” del Mediterraneo, ad esempio Spagna ed Italia, e
perfino la Gran Bretagna avrebbero dovuto essere «convinti» ad aderire
al Nuovo-Nuovo Ordine Europeo non appena avessero «risolto alcuni dei loro attuali problemi». Ma quali?
Se nella sua nuova offensiva geopolitica la Grande Germania non avrebbe
fatto questione di supremazia militare (lasciando alla Francia il
compito di assicurare all’Europa unita la deterrenza nucleare) bensì
soltanto di egemonia finanziaria, ad essa i paesi mediterranei e la Gran
Bretagna si sottraevano, come doveva vedersi negli anni successivi, per
ragioni differenti. Intanto la Gran Bretagna, che batteva una moneta
propria come la sterlina, ad essa non avrebbe rinunciato quando è nato
l’euro, la moneta unica europea esemplata sul marco tedesco. A loro
volta i paesi “maiali” vi hanno aderito gravati da debiti sovrani
esagerati che i c.d. “parametri di Maastricht” non sono arrivati nel
tempo a ridimensionare.
C’è però da dire che questo indebitamento sovrano non è tanto
l’effetto di governi eccessivamente spendaccioni (come di solito si
giudica), bensì del mal riuscito amalgama, all’interno dell’Unione
Monetaria Europea, di economie nazionali organicamente difformi per
capacità di produzione e, soprattutto, di esportazione – e questo
proprio quando la moneta unica toglieva ai paesi in deficit commerciale
la possibilità di adottare “svalutazioni competitive” della propria
moneta per pareggiare i conti con l’estero, come era stato il caso della
svalutazione della lira nel 1992. All’ombra dell’euro si è così
“cronicizzato” lo squilibrio tra i paesi esportatori netti di merci (il
“nocciolo duro” con esportazioni maggiori delle importazioni) e quelli
che invece importano più di quanto esportano (che è la vera causa del
loro essere “maiali”). Ma ciò nemmeno basta perché, se lo scompenso
della bilancia commerciale è stato pagato dai “maiali” in moneta comune,
essi se la sono vista restituire dal “nocciolo duro” in cambio di
titoli dei loro debiti sovrani così da lucrare interessi fino al loro
rimborso. Se quindi il “nocciolo duro” ha finito per risultare esportatore netto di merci e creditore di capitali ed i paesi “maiali” importatori netti e debitori,
tuttavia si riteneva che l’asimmetria si sarebbe sanata quando quei
capitali ricevuti in prestito si fossero indirizzati alla produzione di
merci per l’estero, riportando progressivamente la bilancia commerciale
in pareggio. Nell’attesa di tanto risultato in Europa si pazientava,
finché a mezzo 2011 non è successo qualcosa che ha fatto precipitare la
situazione.
4. I “mercati” tra dollaro ed euro.
Nel pieno dell’estate del 2011, quale conseguenza del duro braccio di
ferro dei “mercati” contro il governo di Washington che era necessitato a
violare il limite di legge posto all’indebitamento pubblico, quel
limite è stato sforato ma le agenzie di rating (longa manus dei “mercati”) hanno punito il debito sovrano americano togliendogli la valutazione massima di tripla A (cfr. G. Gattei, La grande guerra dei rating (2011-2011),
Bologna, 2012). Siccome però il debito sovrano tedesco manteneva la
valutazione AAA, si è creata una fastidiosa disparità di rating che
avrebbe potuto portare i risparmiatori internazionali, nelle proprie
scelte d’investimento, a preferire i Bund di Berlino ai Bond di
Washington. Che i “mercati” avessero finito per fare gli interessi della
Germania? A ciò bisognava porre urgentemente rimedio, ma senza
rinnegare la punizione inflitta al governo di Obama.
I titoli pubblici tedeschi a tripla A sono espressi in euro. Ed è un
paradosso che in euro siano espressi anche i debiti sovrani dei paesi
“maiali” che costituiscono l’anello debole della Unione Monetaria
Europea e che godono (si fa per dire...) di rating di bassa, se non di
pessima qualità. Perché allora non approfittare del difficile momento
congiunturale per deprezzare ulteriormente i loro rating, così da
allontanare i risparmiatori dall’acquisto di titoli sempre più “maiali”
ma più di tutto svalutando il portafoglio di quanti (siano Stati, banche
o imprese) li detengono? È stata così innescata l’arma micidiale dello spread
che paragona il prezzo d’acquisto dei titoli in euro dei paesi “maiali”
con i migliori sul mercato quali sono, per l’appunto, i Bund tedeschi.
Se i risparmiatori, a fronte di rating peggiorati, si fanno riluttanti
ad acquistarli, per indurli a sottoscrivere bisognerà offrire loro
migliori condizioni di rendimento, da cui consegue l’aumento dello spread.
Ma a tassi d’interesse più alti peggiorano i bilanci pubblici dei paesi
“maiali” che potrebbero finire per trovarsi addirittura costretti a
ripudiare quei debiti diventati troppo onerosi per le loro finanze
(qualcosa di simile non è forse successo in Argentina qualche tempo fa e
non si è ripetuto in Islanda nel 2010?). In caso di default di
Grecia, Portogallo, Spagna o Italia i possessori dei loro titoli si
troverebbero con quella loro parte di portafoglio inesigibile e le
agenzie di rating avrebbero tutte le buone ragioni per abbassare i
rating delle imprese private e degli Stati “incagliati” in quei crediti a
rischio. Sia uno di questi Stati la Germania: non si meriterebbe allora
di perdere la tripla A equiparandosi al rating americano?
5. “Fiscal compact”.
Di fonte al la minaccia la Germania è corsa subito ai ripari. Ma come
difendere la massima valutazione del proprio debito sovrano? Imponendo
ai paesi “maiali” di non far scherzi e di obbligarsi a ripagare i loro
creditori “senza se e senza ma”. Lo strumento è stato l’accordo di fiscal compact
sottoscritto dai governi europei nel marzo 2012 (solo Gran Bretagna e
Repubblica Ceca non hanno firmato) poi passato alla ratifica dei
parlamenti nazionali. La “filosofia” del fiscal compact è presto detta: se lo spread peggiora la situazione finanziaria dei bilanci pubblici dei paesi “maiali” minacciandone il default,
il rimedio sta nel rimborsare la più parte del debito sovrano esistente
vincolandosi contemporaneamente a non accenderne più altro. È per
questo che due sono i termini del patto a cui i governi si sono
impegnati a dare esecuzione a partire dal 2013.
Il primo vincolo è l’obbligo del bilancio statale in pareggio,
così che le spese pubbliche vengano interamente coperte dal gettito
fiscale. Ma siccome tra le spese sono compresi pure gli interessi da
pagare sul debito esistente, i governi firmatari si obbligano in verità a
realizzare un avanzo di bilancio primario, che è il saldo positivo
d’imposte e tasse sulle spese statali. Se così non verrebbero più
contratti nuovi debiti, per quelli vecchi che fare? Qui interviene il
secondo vincolo che prevede il rientro in vent’anni della parte di debito eccedente il 60% del PIL,
che è la percentuale originariamente prevista dagli accordi di
Maastricht. Allo scopo di capire l’entità dello sforzo finanziario
richiesto ai paesi “maiali”, si consideri il caso dell’Italia: a fronte
di un debito pubblico che sfiora i 2000 miliardi di euro (120% del PIL),
in vent’anni lo si dovrebbe ridurre della metà a colpi di 50 miliardi
all’anno (50x20 = 1000). Ma considerando che ci sono anche gli interessi
dai pagare sul debito esistente (sebbene in diminuzione per la
riduzione progressiva del suo ammontare), si stima la necessità di un
avanzo primario di 65 miliardi di euro all’anno da coprirsi con
l’imposizione fiscale anche in assenza di qualsiasi spesa pubblica!
Comunque tanta severità di manovra era giustificata dall’idea della c.d. austerità espansionistica:
se gli investimenti privati oggi difettano perché il risparmio viene
“spiazzato” dallo Stato che lo sequestra per i propri fini improduttivi,
con il bilancio in pareggio ed il rientro (almeno parziale) del debito
sovrano si rimetterebbero in circolo capitali che affluirebbero
spontaneamente verso i migliori impieghi occupazionali. Per questo (come
spiegato da Wolfgang Schäuble, l’autore del programma geopolitico del
1994 che adesso è ministro delle finanze) «i piani di austerità non
creano recessione» (“La Repubblica”, 1.3.2012), bensì sviluppo. Ma chi
garantisce che, restituito dallo Stato ai creditori il “maltolto”, essi
lo rivolgano ad investimenti produttivi e non invece a speculazioni
finanziarie senza ricaduta in termini di produzione e occupazione? E poi
nello specifico dei paesi “maiali”, essendo buona parte dei creditori
straniera (quasi il 50% per l’Italia), a rimborsarla il risparmio
nazionale non andrebbe a finire all’estero rilanciando altrove, ad
esempio in Germania, la produzione per l’esportazione? Ma per esportare
dove (si replica) se non proprio verso quei paesi “maiali” penalizzati
dalla fuoriuscita dei propri capitali? Non ci sarebbe quindi convenienza
per la Germania ad un programma di austerità, a meno che non si
trovassero altri mercati di sbocco al posto di quelli, ormai avviati ad
estinzione, dell’Europa mediterranea. E’ giusto, ma non è un caso che la
Cancelliera Merkel sia corsa più volte a Pechino per concordare
contratti d’esportazione con la Cina, ferrovia transiberiana
coadiuvando.
6. I “mercati” contro la Germania.
La prospettiva di un’alleanza, anche solo logistica, della Germania con
la Russia (che nella geopolitica anglosassone resta pur sempre il “Cuore
della Terra”) preoccupa il governo di Washington, educato alla visione
di Spykman-Mackinder. Per questo oltre Atlantico si giudica pericolosa
una repressione finanziaria che finisca per marginalizzare il
Mediterraneo spostando gli interessi commerciali della Germania verso
l’Eurasia. Da qui nasce il sostegno ad un diverso trattamento dei debiti
sovrani “maiali” che non passi attraverso quel loro rimborso coatto
imposto dalle regole del fiscal compact.
Il soggetto dell’alternativa dovrebbe essere la Banca Centrale Europea
che, rinunciando al proprio “principio di nascita” di sola difesa della
stabilità dei prezzi, dovrebbe stabilire un livello tollerabile dello spread
e, qualora i “mercati” lo superassero, intervenire acquistando i titoli
sovrani dei paesi in sofferenza, così da riportarlo a quel giusto
livello. Con peso finanziario ridotto i paesi “maiali” non dovrebbero
più ricercare avanzi primari di bilancio esagerati e potrebbero dedicare
le maggiori risorse a disposizione se non proprio ad aumenti della
spesa pubblica (sempre malvista di questi tempi), almeno a riduzioni
della pressione fiscale ormai a livelli insopportabili. Con più denaro
in tasca, i cittadini potrebbero aumentare la domanda trascinando nella
sua scia la produzione e l’occupazione. E quindi sarebbe crescita invece di austerità.
Ma come dovrebbe finanziarsi la BCE? Anche con la stampa di più moneta,
così che i prezzi interni della zona-euro in aumento incentivassero le
imprese alla produzione. Ma su quali sbocchi piazzare le maggiori merci
prodotte? Intanto sul mercato europeo dove la domanda sarebbe in aumento
anche per la sola crescita dell’occupazione; ma poi sui mercati esteri
perché la maggior moneta circolante porterebbe ad una svalutazione dell’euro
sul mercato dei cambi favorendo le esportazioni, anche dei paesi
“maiali”, fuori dalla zona-euro. E qualcuno ha provato a quantificare la
svalutazione che sarebbe necessaria per far riprendere a correre
l’Europa: secondo Nouriel Roubini la BCE dovrebbe «mettere in
circolazione più moneta e abbassare ancora i tassi, se non altro per far
svalutare l’euro fino alla parità col dollaro» (“La Repubblica”, 2.4.2012).
Ma accetterebbe mai spontaneamente la Germania che la BCE si facesse artefice di una inflazione
che nell’immaginario tedesco è parola (e cosa) tabù? La Germania non si
è mai ripresa dallo shock della Grande Inflazione degli anni 1919-1923,
a cui si addebita la responsabilità della salita al potere di Hitler.
Così ragionando essa però rimuove il fatto inequivocabile che da quella
iperinflazione si è usciti con la stabilizzazione del marco della
socialdemocratica Repubblica di Weimar (1923-1932) e che la catastrofe
elettorale del 1933 è stata piuttosto provocata dalla sciagurata
politica di austerità deflattiva adottata dal governo Brüning (è
ricorrenza storica che le dittature escano politicamente dalle
deflazioni monetarie, mentre l’inflazione sposta l’elettorato a
sinistra!). Ma tant’è. E allora, per superare la resistenza tedesca non
resta che far agire i “mercati” che dovrebbero porre l’aut-aut a
Berlino: o impegnare la BCE al salvataggio dei paesi “maiali”
caricandosi in parte di quei debiti sovrani anche al prezzo d’indebolire
l’euro, oppure spingere i “maiali” verso il default, così che le
agenzie di rating siano giustificate ad abbassare le valutazioni di
tutte le istituzioni (statali e non) che ne posseggono i titoli.
Insomma, delle due l’una: o l’euro si svaluta rispetto al dollaro oppure
la Germania perderà la tripla A.
7. “La finanza è un’arma e la politica è sapere quando tirare il grilletto” (F. F. Coppola, Il padrino, parte III).
A mezzo del 2011 l’asse “framanico” tra Angela Merkel e Nicholas Sarkozy
sembra veramente inossidabile. Ne fa le spese Silvio Berlusconi, vaso
di coccio tra due vasi di ferro, che quando si vede intimare ai primi di
agosto dalla BCE di Jean Claude Trichet e del suo successore
subentrante Mario Draghi di «rafforzare la reputazione della sua firma
sovrana» adottando misure d’austerità estrema (leggere per credere!) da
prendersi «il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica
parlamentare entro la fine di settembre 2011» (cfr. “Corriere della
Sera”, 29.9.2011), tergiversa e lascia passare la scadenza di settembre.
Ma ci si può fidare di un governo così “maiale”? Secondo i retroscena
giornalistici è stata la Cancelliera tedesca, il 20 ottobre, a chiedere
la testa di Berlusconi (cfr. “La Repubblica, 31.12.2011), eppure
occorrono ancora tre settimane di pressioni concentriche perché quelle
«dimissioni volontarie» giungano finalmente il 12 novembre, lasciando il
posto ad un più malleabile (così si spera) Mario Monti, appena nominato
senatore a vita perchè la sostituzione non sembri extra-parlamentare.
E Monti, sebbene in precedenza “uomo Goldman Sachs”, sul momento viene
incontro ai suoi sponsor europei facendo approvare da una alleanza
parlamentare tripartisan (PD-UDC-PdL) l’anticipo del pareggio di
bilancio al 2013 e quindi una manovra Salva-Italia d’inusitata durezza: i
partiti, commenta, «non avrebbero potuto permettersi di correre il
rischio di diventare così impopolari. Noi non abbiamo questo problema,
non dobbiamo presentarci alle prossime elezioni» (cit. in C. Bastasin, Tra Atene e Berlino,
Milano, 2012, p. 45). Però Monti è come Badoglio: proclama che la
guerra continua, mentre già tratta l’armistizio con gli alleati. Infatti
gli basta appena un viaggio a Washington nel febbraio 2012 per
rivelarsi il migliore “amico americano”, come dimostra il 20 febbraio
firmando, insieme ad altri 11 capi di governo europei (quello inglese in
testa), una lettera di «misure coraggiose» per ripensare alla «crescita
oltre l’austerità». Ma è fatica sprecata perché Merkel e Sarkozy non
recepiscono. Comunque ad aprile lui ci riprova, in compagnia del
presidente della Commissione Europea, per chiedere almeno un
ripensamento delle regole del fiscal compact, ma la Merkel gli risponde che «il fiscal compact non si tocca» (“La Repubblica”, 28.4.2012).
Siamo quindi allo stallo e solo le elezioni francesi, che sostituiscono
Sarkozy con il “socialista” Hollande, possono venire a fare la
differenza. Lo si capisce il 30 maggio quando, in una teleconferenza,
Obama e Monti ed Hollande vanno per tre volte alla carica del rigore di
Berlino e «per tre volte Angela Merkel dice di no. In inglese e, per non
sbagliare, anche in tedesco» (“La Repubblica”, 1.6.2012). Ma la resa
dei conti non può tardare perchè, come Obama ha suggerito a Monti, «se
la Merkel non cede va messa spalle al muro» (“La Repubblica”, 7.6.2012).
E’il 28 giugno, al summit europeo di Bruxelles, quando va in scena lo
psico-dramma: alle 19,30, in coincidenza con la partita di calcio
Italia-Germania, Monti pone il veto dell’Italia su qualsiasi decisione
comunitaria se prima non si costituisce un Fondo salva-Stati “maiali”.
Lo spalleggia subito il presidente spagnolo Rajoy e «nella sala scende
il gelo». Per il momento si sospende la seduta e si va a cena, così da
vedersi anche la partita che finisce con l’Italia che batte la Germania e
passa alla finale... con la Spagna! «Congratulations, Italy played very
well», ammette alle 22,30 Angela Merkel, ma ben più esplicito è il
commento del premier irlandese Enda Kenny perché (dice) adesso il veto
di Italia e Spagna è diventato «di tutto rispetto perché è stato posto
dalle due finaliste». Eppure esso potrebbe ancora non bastare se non vi
si aggiungesse a sorpresa quello ben più pesante della Francia. La
Germania è isolata e «alle 4,20 del mattino, dopo 15 ore di negoziati,
la Merkel capitola» (“La Repubblica”, 30.6.2012). Lo scudo anti-spread
si farà e «Vaffanmerkel» è il titolo liberatorio, ma poco elegante, di
un giornale italiano di quel dì (però l’Italia dovrà pagare lo scotto di
perdere la finale di calcio a ringraziamento di quell’aiuto spagnolo
ricevuto a Bruxelles...).
8. Tempi supplementari.
Alla sconfitta la risposta di Berlino è rabbiosa. Il giorno dopo parte
un ricorso alla Corte Costituzionale per verificare se possa la Germania
firmare una partecipazione al Fondo salva-Stati senza preventiva
autorizzazione del Parlamento nazionale. Contemporaneamente un altro
ricorso arriva sul tavolo della Corte. In simultanea con il summit di
Bruxelles è stato approvato dal Parlamento tedesco, con voto bipartisan
CDU/CSU e SPD, l’accordo di fiscal compact. Questa volta è die Linke
a non starci, promuovendo il giudizio di costituzionalità su di una
misura che dall’estero condizionerebbe la libertà di decidere la
politica di bilancio nazionale. Però la Corte prende tempo, annunciando
il 17 luglio che darà il proprio parere solo il 12 settembre e che nel
frattempo ci si affidi alla buona sorte. Subito, il 24 luglio, l’agenzia
Moody’s ammonisce che la Germania mantiene ancora la tripla A, ma che
il suo outlook (la previsione) da positivo passa a negativo dipendendo dall’esito della sentenza che sarà emessa su fiscal compact e scudo anti-spread.
Per più di un mese Borsa e spread vanno sulle montagne russe e
solo il 6 settembre il presidente della BCE Mario Draghi riesce a
mettere le mani avanti strappando al suo Consiglio Direttivo, col solo
voto contrario della Bundesbank, l’autorizzazione di principio ad
acquistare quantità «illimitate» di titoli dei paesi aggrediti dalla
speculazione, qualora questi ne facciano esplicita richiesta. Ma c’è un
codicillo. L’intervento della BCE non dovrà essere inflazionistico
perchè per l’ammontare dl suo intervento dovranno essere ritirati
altrettanti titoli dal mercato. Tecnicamente funzionerebbe così: la BCE
immette moneta per acquistare i titoli “maiali” con vita residua da 1 a 3
anni (l’autorizzazione concessa consente solo questo), ma in
contropartita venderà titoli che già possiede, non necessariamente
“maiali” ed anche con scadenze superiori, per recuperare la maggior
liquidità che ha messo in circolazione. Insomma, non ci sarà nessun
aumento dei prezzi, men che meno svalutazione dell’euro e solo la BCE
pagherebbe il proprio intervento peggiorando la qualità e la scadenza
del proprio portafoglio titoli.
Poi finalmente arriva, il 12 settembre, la sentenza della Corte
Costituzionale tedesca. Il Fondo salva-Stati è dichiarato legittimo (e
quindi il presidente della BCE potrà dare esecuzione effettiva alla
decisione di principio del 6 settembre), ma la Germania vi parteciperà
solo fino al massimo di 190 miliardi di euro, così che quell’intervento
“illimitato” diventa, almeno per i tedeschi, limitato. Ma pure il fiscal compact
è dichiarato costituzionale, così che la sua approvazione da parte di
Berlino può far legge per tutti i Parlamenti degli altri governi
firmatari (in Italia si è già provveduto approvandolo ai primi di
luglio). Come già spiegato, gli Stati aderenti si impegnano a rientrare
del proprio debito sovrano fino al limite del 60% del PIL. Ma
naturalmente non saranno i governi a rimborsarne i creditori, bensì i
cittadini tutti a colpi di avanzi primari di bilancio che siano
l’effetto di meno spese pubbliche e più tasse.
Così per il prossimo ventennio, che è il tempo stabilito per il rientro
dell’eccedenza di debito sovrano, non ci potrà essere denaro per la
crescita in Europa. E’ come nel Nuovo Ordine Europeo di nazista memoria:
allora il Terzo Reich aveva risucchiato, come una enorme idrovora,
nelle proprie fabbriche (anche di morte) la manodopera dei paesi vicini,
alleati o sottomessi; adesso, nel Nuovo-Nuovo Ordine Europeo la Grande
Germania ci riprova, ma questa volta più pacificamente risucchiando il denaro degli altri.
giovedì 20 settembre 2012
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