Non
mi sono chiesto perché Toni Negri si sia interessato a Giobbe
(Antonio Negri, Il
Lavoro di Giobbe,
SugarCo 1990), dato che tutti
si sono interessati a Giobbe e, vuoi o non vuoi, nel campo
intellettuale Negri è un soggetto di vaglia: niente di strano che
voglia dire la sua. Più interessanti le motivazioni che espone,
inusualmente terra terra: le cose vanno malissimo, la vita fa schifo,
interroghiamoci insieme a Giobbe sull'insensatezza del cosmo, hai
visto mai che venga fuori qualcosa di inedito... Toh, il lavoro! La
creazione! Il Messia! Cthulhu fhtagn!
Ora,
il presupposto di Negri, che Giobbe deprivi la razionalità del suo
potere operativo, in quanto il giusto si ritrova immerso in una
situazione totalmente priva di senso (di senso categorizzabile,
descrivibile), data l'impossibilità di individuare una dialettica
tra termini ultimativamente sproporzionati (Giobbe e Dio), questo
presupposto, a mio avviso, è totalmente errato.
È
vero che Giobbe descrive in lungo e in largo una realtà che non solo
è in contrasto con la teodicea “ortodossa” dei suoi amici (Dio
premia i giusti e castiga gli empi, e se il giusto soffre è solo una
cosa temporanea, egli si pentirà dei propri peccati e Dio lo colmerà
di ogni bene, spirituale e materiale), ma la vanifica totalmente: non
è che Dio sia cattivo, e si sia messo a premiare i malvagi e a
vessare i giusti, no, le cose stanno peggio ancora, empi e pii
ricevono grazie e disgrazie in maniera totalmente casuale, in assenza
di un sistema sanzionatorio riconoscibile. È come se Dio non
esistesse.
Ma
Giobbe grida al non senso del mondo non per descriverlo, ma per
contestarlo. Non abbandona la ragione (etica) in quanto resa obsoleta
da un cosmo insensato e a-dialettico, al contrario, egli invoca un
ristabilimento di una legalità “razionale”, vedendola come unica
sua possibilità di salvezza: smettila di punirmi preventivamente
(illegalità), smettila di nascondere gli eventuali indizi a mio
carico (illegalità), non impedirmi di starti davanti come querelante
di diritto (illegalità), insomma, rendi “ragionevole” (legale,
rispondente cioè a norme condivise e comprensibili) questo
procedimento contro di me, e io confido di poter dimostrare la mia
innocenza. È vero che Giobbe dispera di poter ottenere giustizia,
dato che nessun terzo può fare da arbitro tra lui e Dio, perché Dio
è legislatore, giudice, testimone e carnefice, e non lo si può
costringere a essere “giusto”, perché è lui a stabilire quello
che è giusto, ma questa consapevolezza non lo fa desistere:
schiacciato, come un Joseph K, da una giustizia insensata e senza
forma, continua a chiedere che gli sia concesso di difendersi in un
regolare processo (habeas corpus: Giobbe è un liberale ante
litteram?).
Del
resto, anche l'affermazione secondo cui una dialettica Giobbe-Dio sia
fondamentalmente impossibile anzi, vista l'incommensurabilità dei
due termini, insensata, anche questa osservazione di Negri è, di
nuovo a mio avviso, totalmente errata. Dice Negri che una dialettica
che può avere come esito non il superamento della contraddizione ma
la distruzione di uno dei termini (in questo caso Giobbe, umano
infinitamente piccolo di fronte all'infinitamente grande), si
consegna all'insensato. Ma è lui stesso a osservare come Dio non
abbia senso senza coorti di angeli che gli sfilano davanti, senza un
satana che gli propone scommesse, e, soprattutto, senza esseri umani
che lo adorino. E sottolinea anche (Negri) che Dio insiste più di
una volta sulla necessità che Giobbe rimanga in vita, e si capisce:
se Giobbe muore la scommessa con il satana non ha più senso, ma
soprattutto non ci sarebbe più nessuno ad assistere all'epifania di
Dio. Se non c'è l'essere umano a contemplare e a meravigliarsi delle
sue opere, Dio perde la sua identità, magari anche la propria
esistenza.
Quindi
la dialettica Dio-Giobbe sussiste, eccome, proprio perché l'opzione
di annichilimento di uno dei termini (Giobbe) non si pone.
E
qui Negri introduce la parola “lavoro”, che sembrerebbe
avere qualcosa a che fare con il “valore”, in qualche modo
collegato alla teodicea retributiva (Dio premia i virtuosi e castiga
i peccatori) degli amici di Giobbe, ed essendo quest'ultima falsa ne
consegue anche che il “lavoro” è una cosa brutta. Ma, e ce lo
aspettavamo, questo termine assume la solita, postmoderna,
polimorficità. È il lavoro maledizione inflitta ad Adamo, una
metafora della condizione umana (“i suoi giorni si snodano come
quelli di un cottimista”), ma anche “avventura prometeica
dell'uomo” (pag.106).
Negri
si chiede, a questo punto, come liberare il lavoro (qualsiasi cosa
ciò significhi), e indica la soluzione in un Messia della carne,
della creaturalità, invocato dalle tante interiezioni “viscerali”
di Giobbe.
Ora,
il fatto che questi richiami al Messia-Incarnazione abbiano un
pedigree autorevole non ne sminuisce l'abusività.
L'invocazione per un giudice terzo, un Vendicatore, scusate se mi
ripeto, sono la forma con cui Giobbe esige un ordine etico
razionale che redima il difetto dell'attuale ordine retributivo
(sballato e insensato). Se il continuo richiamo alla fisicità
carnale di Giobbe ha un senso, è proprio questo: se non c'è
giustizia per me, per questo corpo devastato ed esausto, per le
sofferenze inflitte ai lavoratori, alla vedova e all'orfano, allora
non c'è senso, Dio non ha senso (o, si potrebbe dire, esistenza). Di
nuovo, Negri sbaglia nel voler vedere in tutto questo un approdo
“altro” che lascia dietro di sé la ragione, uno schema
retributivo e quant'altro. Se fosse così, andrebbe bene la soluzione
prospettata in qualche punto dagli amici di Giobbe (soprattutto
Elihu): vabbè, sembrerebbe che Dio non sia molto conseguente
(eticamente razionale) nel premiare i giusti e punire gli empi, ma
insomma, lui sa quello che fa, tu invece a che titolo vuoi contendere
con lui, hai messo tu limiti agli oceani eccetera? È un espediente
della teodicea che a tutt'oggi, nonostante le randellate ricevute,
non si decide a emettere l'ultimo respiro. Il male? È un mistero,
va' a sapere come ragiona Dio!
Negri
non vede questa esigenza di razionalità etica (banalmente, di
giustizia) perché è un postmoderno (anche se lui lo negherebbe), e
quindi, deleuzianamente, qualsiasi cosa possa interpretare come un
superamento-dismissione-allontanamento dalla ragione (o da qualcosa
che gli somigli, anche solo vagamente) gli sembra positivo. Se fosse
coerente con la premessa, la parabola di Giobbe dovrebbe approdare
all'accettazione del totale non senso: non c'è giustizia, la
sofferenza dei giusti è casuale e insensata, nessuno comanda,
decide, retribuisce, non c'è dio. E non sarebbe una conclusione
ingiustificata (non più dei richiami messianici di tanti interpreti
del testo): in fondo Giobbe pencola molto verso il Qohelet, i suoi
accenni a una nuova vita, a una resurrezione della carne, sono
protocollari, è evidente che la sua concezione dello sheol è quella
dell'ebraismo primitivo, una specie di aldilà appena abbozzato, un
buco di cui si sa poco e niente. Questa posizione non ha nulla di
religioso, tanto meno di mistico o di messianico. È una posizione
pragmatica: Dio ti dice di fare certe cose (fare sacrifici a lui,
aiutare i poveri eccetera), se lo fai prospererai, se no languirai e
morirai. Tu scopri che le cose non vanno affatto così, e così ti
ribelli, chiedi conto a Dio del suo comportamento. È impossibile,
assurdo? Non ha importanza, perché non hai scelta. Lo schema
retributivo razionale (eticamente) deve esistere, altrimenti...
Altrimenti cosa? In realtà tutti i dettagli che affascinano Negri
(la vacuità della retribuzione, Dio che ride delle sfortune degli
uomini, l'impossibilità di un giudice terzo, eccetera) sono evocati
da Giobbe solo come contrasto alla sua sicurezza di potersi
dimostrare innocente. Giobbe non si distacca, non emigra, non va
oltre la ragione distributiva, dice anzi: o la giustizia (razionale,
comprensibile, condivisibile) o il nulla. Il richiamo messianico è
solo retorica: ah, magari ci fosse un giudice terzo! Ah, magari
potessi un giorno vivere di nuovo! Ah, magari ci fosse per me un
vendicatore!
Ma
siccome siamo “destrutturalisti” dobbiamo per forza superare la
banalissima ragione, anche se non con la dialettica meschina “degli
Hegel o degli Schelling” (pag.108), che è comunque paccottiglia
razionalistica!
A
questo punto un Messia è d'obbligo, ma di che si tratti non possiamo
dire, perché Negri è Negri, e i concetti linguistici e metafisici
si fanno fluidi e rizomatici, tutto è niente e niente è tutto. Non
sorprende che il libro si concluda con un elogio degli apici
dell'affabulazione post-strutturalista:
“Deleuze-Guattari,
nel loro formidabile «Mille Plateaux», descrivono esattamente le
dinamiche che seguono la crisi metafisica (di superamento, della
dialettica) nella modernità. Il limite superiore del mondo,
l'assunta impossibilità di trascendimento, aprono orizzonti
indefiniti, canali di scorrimento massicci. Il metodo e il processo,
il rizoma e il flusso divengono le chiavi di un discorso sulla
modernità. Nessuna presunzione di cogliere immanenti costituzioni
della soggettività: ma, d'altra parte, il sempre nuovo riproporsi di
insiemi, di limiti, di ritornelli dell'essere, di nodi di
cooperazione e di espressione, che – disincarnati – sul limite,
sull'incrocio, nella costellazione ritrovano carne – oggettivati,
nella tragedia ritrovano determinazione soggettiva.” (pag.157)
Come
si vede, lo spostamento e il superamento sono valori in sé: un po'
come i personaggi di Kerouac, il filosofo sente l'impulso di
spostarsi, di stare sul margine, di cavalcare il flusso, proiettato
verso un “it” totalmente privo di connotati, probabilmente solo
sognato (o allucinato).
Come
dicevo all'inizio, non mi sono chiesto come mai Toni Negri si
interessasse a Giobbe, ma piuttosto (cedendo alle mie idiosincrasie,
lo ammetto): perché Giobbe e non Ivan Karamazov?
L'interrogativo
può sembrare pretestuoso: non lo è.
Tra
le tante cose che il discorso di Ivan (contenuto nei capitoli III e IV
del Libro Quinto dei Fratelli Karamazov) è e può essere, c'è
anche il suo aspetto di “risposta a Giobbe”. Ivan fa
letteralmente tabula rasa di qualsiasi teodicea, razionalistica o
misticheggiante che sia, non confutandola ma rendendola umanamente
indecente. Non a caso, nessuno è riuscito a dare una “risposta a
Ivan”, se non rifugiandosi nel Mistero o aggrappandosi di nuovo a
qualche brandello di teodicea, o semplicemente fraintendendo il suo
discorso (di solito ricorrendo al trucco di concentrarsi sulla
Leggenda del Grande Inquisitore, facendo finta che il resto
non esista).
Il
fatto è che il discorso di Ivan riesce davvero a sfondare i limiti
del linguaggio e della razionalità, non virtualmente come nel
chiacchiericcio post-strutturalista, e quindi ci sarebbe ben poco
carburante per una macchina desiderante (con alla guida un corpo
senza organi), qui Dostoevskij va oltre Giobbe, e oltre c'è solo il
nulla.
Non
sorprende, perciò, che si discuta di Giobbe e non di Ivan. Il dolore
di Giobbe, essendo “socializzabile” (pag.132), offre una via di
redenzione agli esseri umani, preconizza un Messia che può essere
anche marxiano, mentre la ribellione di Ivan non apre a nessuna forma
di riscatto.
“La
potenza è istaurata nel dolore, è potenza del non essere, è
potenza della comunità – un'essenza inconclusa entro un processo
indefinitivamente creativo.” (pag.133)
Cos'è
questa, se non l'ennesima teodicea che vuole rendere la sofferenza
“comprensibile”? Negri cavalca l'onda che porta lontano dalla
ragione e dal senso, solo per imboccare, attraverso la porta del
messianismo, la strada della vecchia sofferenza “istruttiva”,
anche se con termini più barocchi. Bel paradosso.
Inoltre,
Negri non accenna minimamente all'osservazione che farebbe Ivan: ah,
certo, Giobbe viene restituito alla sua antica prosperità, tante
greggi, tanti figli, tre figlie (naturalmente bellissime), e un pacco
di soldi... E quelli di prima, i guardiani, i dipendenti di Giobbe
massacrati nelle razzie? I poveri armenti periti in disastri mirati
(dal satana scommettitore)? Tutta la prole sterminata (ah, queste
case fatte col cemento della mafia!)? Quelle tre figlie, altrettanto
belle, altrettanto virtuose, sono morte ingiustamente o no?
Sono
domande ingenue e anacronistiche, certo, e allora? Ivan direbbe che
nessuna ricchezza, nessuna figliolanza, nessun nuovo bestiame
potranno mai compensare gli operai, i figli, le bestie sterminate
ingiustamente. La redenzione è impossibile, anzi peggio,
inaccettabile. Negri ha sacrosantamente ragione a sottolineare il
carattere decisivo della visione diretta di Dio da parte di Giobbe.
Questo cambia tutto, certo.
In
peggio.
Giobbe
conosce Dio faccia a faccia, e nell'interpretazione di Negri arriva a
essere tutt'uno con la stessa Creazione (una conoscenza assoluta che
significa diventare la cosa conosciuta). Ma questo non cancella
l'ingiustizia. Quei morti, quel dolore restano irriscattabili.
Al
posto di Giobbe, Ivan avrebbe detto:
“Ti
ho conosciuto faccia a faccia,
e
ora taccio, mi copro di cenere e mi pento delle mie parole,
riconosco
la tua gloria e la tua grandezza,
ma
lasciami nella mia miseria, alle mie piaghe,
all'irrisione
dei monelli,
non
voglio armenti, non voglio pezzi d'oro, non voglio altri figli e
figlie.
E
ti volgo le spalle.
Ti
ho visto, e ora distolgo da te il mio sguardo.”
Perché,
come dice Lear:
“Perché
deve
Aver
vita un cavallo, un cane, un topo,
E
tu neanche un respiro? Tu non ritornerai,
Mai
più, mai più, mai più, mai più, mai più.”
Annotazione
poco seria:
Dio
si manifesta direttamente a Giobbe, e tra le sue sublimi creazioni
gli indica il Leviatano, mostro marino di proporzioni enormi, e dice,
sarcasticamente (40, 30-31):
Lo
metteranno in vendita le compagnie di pesca,
se lo divideranno i
commercianti?
Crivellerai di dardi la sua pelle
e con la
fiocina la sua testa?
Insomma,
Yahweh non ha letto Moby Dick.
Annotazione
più che seria:
Giobbe,
di solito, viene considerato un giusto per default, infatti tutte le
speculazioni e discussioni e interpretazioni partono dal dato di
fatto che Giobbe sia un virtuoso che soffre ingiustamente e che per
questo chiede ragione a Dio. Elifaz insinua che Giobbe si meriti le
sue sventure per atti malvagi commessi in prima persona, e non come
uomo genericamente peccatore al cospetto di Dio (22, 6-9), ma si
presume che lo dica per eccesso di zelo teologico.
E
tuttavia, c'è un momento in cui Giobbe (che aiuta i poveri, le
vedove, che si comporta con equità perfino coi suoi schiavi) nomina
una categoria di persone che sembra escludere dalla sua pietà (30,
1-10):
Ora
invece si ridono di me
i più giovani di me in età,
i cui
padri non avrei degnato
di mettere tra i cani del mio
gregge.
Anche la forza delle loro mani a che mi giova?
Hanno
perduto ogni vigore;
disfatti dalla indigenza e dalla
fame,
brucano per l'arido deserto,
da lungo tempo regione
desolata,
raccogliendo l'erba salsa accanto ai cespugli
e
radici di ginestra per loro cibo.
Cacciati via dal consorzio
umano,
a loro si grida dietro come al ladro;
sì che dimorano
in valli orrende,
nelle caverne della terra e nelle rupi.
In
mezzo alle macchie urlano
e sotto i roveti si adunano;
razza
ignobile, anzi razza senza nome,
sono calpestati più della
terra.
Ora io sono la loro canzone,
sono diventato la loro
favola!
Hanno orrore di me e mi schivano
e non si astengono
dallo sputarmi in faccia!
Chi
sono questi reietti? Sono contadini e allevatori che si sono
indebitati e si sono “dati alla macchia” per evitare il peggio.
Come dice David Graeber nel suo Debito, I Primi 5000 Anni
(pag.92):
Sembra
che l’economia dei regni ebraici, al tempo dei profeti, cominciasse
a sviluppare le stesse crisi del debito, da tempo frequenti in
Mesopotamia: specialmente negli anni del cattivo raccolto, il povero
si indebitava con il ricco o con i ricchi prestatori di denaro della
città, che iniziavano a togliere loro il titolo di proprietà sulla
terra, divenendone proprietari, mentre i loro figli e figlie venivano
portati via a integrare la servitù nelle abitazioni dei creditori, o
per essere addirittura venduti come schiavi.
Da
queste situazioni insanabili (come il debito greco) derivò l'idea
del Giubileo.
Quello
che è curioso, però, è che Giobbe, che altrove nel testo deplora
la situazione dei lavoratori sfruttati, dei poveri, degli orfani,
delle vedove, non abbia che parole di disgusto verso questi paria
fiscali (magari lui era uno dei suddetti prestatori), ma ancora di
più stupisce che i post-strutturalisti di sinistra (foucaultiani o
meno), con le loro simpatie metafisiche per il marginale, l'outcast,
il delinquente, abbiano ignorato questo lumpenproletariat
biblico.
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