lunedì 9 luglio 2012

Statali, ovvero la cattiveria dei poveri


Il lavoro, aldilà della sua funzione di riproduzione delle dinamiche del capitale, e della sua rappresentazione più diretta dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, può essere considerato una categoria etica indipendente dalle dinamiche sociali. L'attaccamento al lavoro insomma è la manifestazione di una moralità intrinseca, che prescinde dalla valenza sociale e politica del lavoro stesso. 
Quelli della generazione di mio padre, come ho avuto di dire in altre occasioni, consideravano il lavoro come una benedizione e come un dovere imprescindibile. Mio padre bancario non ha mai saltato un giorno di lavoro se non quando si è ammalato seriamente e non ha mai pensato che lavorare in banca significasse essere un servo del capitale. Il lavoro era lavoro e basta. 
L'esempio estremo di questa concezione dell'etica del lavoro ce lo offre il servo fedele di Fëdor Pavlovič, il vecchio Karamazov, Grigorij, che considera la fedeltà al padrone, malgrado le sue nefandezze, come un valore assoluto, e allo stesso tempo considera un'ignominia il venir meno al proprio dovere di servitore. Un po' come un samurai che fa del servire un padrone lo scopo della sua esistenza e della sua realizzazione umana, proprio in forza della purezza assoluta del gesto, indipendente dalle qualità morali del padrone che si è trovato a servire e sufficiente a se stesso. Il dovere per il dovere.
Cosa c'entra tutto ciò con gli statali è presto detto. La maggioranza degli statali lavora sodo e con il suo lavoro fa muovere la macchina dello stato. Senza gli statali sarebbe la paralisi di qualsiasi attività amministrativa. La paralisi totale dello stato insomma, e se consideriamo il welfare nel suo complesso, la morte di qualsiasi garanzia di sicurezza. Oggi però, diversamente da ieri, una parte degli statali e dei lavoratori in generale ha smarrito il senso di un'etica del lavoro, vuoi per l'indebolirsi in sé della fibra morale della società, vuoi per il rifiuto ideologico del lavoro stesso, rifiuto spesso usato goffamente come alibi, senza distinzione fra il lavoro come sfruttamento e il lavoro come auto-realizzazione. A tutto ciò va aggiunto che la forte spinta al consumo, indotta dalla pervasività di modelli di comportamento sociali veicolati dai media e la gratificazione personale ridotta alla pura fruizione di merci, pone il lavoro come un fastidio necessario e mal tollerato, una pausa greve, che si frappone fra la tua brama di consumo e la merce. 
E' vero alcuni comportamenti degli statali, come di tutta la classe lavoratrice sono sgradevoli: timbrare il cartellino e poi darsi alla macchia, fare straordinari fasulli per raggranellare qualche lira, mettersi in malattia in giorni strategici per andare in vacanza, fare male il prorpio lavoro scaricandone il peso su altri, timbrare al posto del collega assente ecc. ecc. sono cose irritanti per chi possiede un minimo di etica. Potrei andare avanti a lungo, ma non servirebbe a nulla. Sappiamo tutti di cosa stiamo parlando. Stiamo parlando unicamente delle cattiverie dei poveri. Granelli di polvere in un mare di sabbia. Al confronto delle cattiverie dei ricchi queste cattiverie fanno persino sorridere. Il fatto è che i ricchi odiano i poveri, li hanno sempre odiati, li considerano una massa di fannulloni oziosi, ignoranti e neghittosi, che trascorrono il proprio tempo a bearsi nell'inedia o a trastullarsi con le proprie bassezze. Gentaglia che ti striscia ai piedi giurandoti amore e rispetto, ma pronta a pugnalarti alle spalle se poco poco cadi in disgrazia. Questa feccia tecnocratica che ci governa è l'esempio lampante di quest'odio. Sono sempre gli stessi, anche se cambiano le facce e le epoche. Sono i ricchi liberali, gli stessi che hanno considerato e considerano tuttora un dovere colonizzare i selvaggi, specie se hanno la faccia nera, così come considerano un dovere educare i poveri ad una sana moralità, moralità dalla quale ovviamente essi sono esentati.
“Se dessimo un reddito di cittadinanza agli italiani se lo spenderebbero in pastasciutta”. Queste parole descrivono l'odio e il disprezzo dei ricchi verso i poveri meglio di qualsiasi trattato. Ed è così che gente malvagia, che considera la libertà di arricchire come il bene supremo e incondizionato e la proprietà come un legittimo trofeo di chi è più forte e si crede più intelligente, è così che questa gente si attacca alla cattiveria dei poveri come pretesto per smantellare tutte le conquiste che gli stessi poveri hanno ottenuto in secoli di lotte sanguinose, e per rintuzzare il loro potere, sempre eccessivo a parere dei ricchi. Che si credono questi, che il lavoro è un diritto, mangiare, avere una casa, divertirsi, amare è un diritto? No, tutto costa e quindi tutto va guadagnato, eppoi ognuno a casa sua senza disturbare, che la feccia non imbratti il paesaggio. 
I ricchi fanno schifo e non ho ritegno a dirlo, né ho il timore di essere ritenuto una sorta di giapponese imprigionato nel novecento. Mi duole soltanto sentire i lavoratori del settore privato compiacersi se gli statali vengono bastonati, facendo il gioco di questi governanti infidi: "perché dobbiamo togliere garanzie e diritti solo ai lavoratori del privato? Non è equo, giusto?", disse la strega cattiva, e i poveri si fecero la guerra.
E' per questo motivo che difendo la cattiveria dei poveri, anche se non mi piace. (F.C.) 


2 commenti:

  1. Apprezzo molto questo post.
    L'etica del lavoro e la cattiveria dei poveri, sono due riflessioni estremamente importanti per questa nostre società che sembra avere smarrito il senno. Quel senno necessario a una società civile.
    Per cui, è diventato più facile sbranarci fra di noi, anziché rivolgere la rabbia contro chi ci manipola.
    Buona giornata!
    Lara

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  2. Grazie per le tue parole. Buona giornata anche a te

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