di Fabrizio Galimberti, (da Il Sole 24 ore via Micromega)
«Le
idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son
giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In
verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si
credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di
qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell'aria,
distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno
fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che
tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell'austerità
e i sostenitori della crescita.
Il problema è questo. Quando una
crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre.
Si tratta di una sofferenza "voluta", dato che con la crisi si riducono
le entrate da una parte, e dall'altra aumentano le spese di sostegno al
reddito. Il bilancio pubblico vira così "automaticamente" verso il
deficit, e fa da baluardo all'involuzione del ciclo: una tendenza,
questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa
virata verso l'inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi
anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il
supporto all'economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi
hanno preso anche misure discrezionali di supporto.
Ne sono
risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell'attuale
«crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le
economie sono ancora deboli, e le misure ovvie - aumentare le entrate e
diminuire le spese - rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi.
O no?
A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto
cascare le braccia a Keynes. C'è - o, per fortuna, c'era - una scuola di
pensiero dell'«austerità espansionista» che suona così: riducete il
deficit e l'economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da
queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere:
la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e
l'economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita.
Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi
l'economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario
Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona
condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle
resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d'Azeglio, «neppure si
fa girare la macina d'un mulino».
Le cose, come sappiamo, non
stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l'austerità
imposta da quella improbabile scuola di pensiero l'economia sta
soffrendo di più. La polemica sull'eccesso di austerità si è riaccesa a
causa di un capitoletto nell'ultimo World Economic Outlook del Fondo
monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi,
Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati
sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure
restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che
l'economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E
questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5:
cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un
sacrificio, dicevano i fan dell'austerità, accettabile se vale a
riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il
moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il
Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil
minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le
conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col
senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli
fra 0,9 e 1,7!
Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione
delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge
per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i
Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di
bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative
razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli
idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande
recessione - la crisi da debiti sovrani - il fallimento dell'austerità
fine a se stessa è andato suonando come un'altra affermazione delle
teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita
l'economia, non la rafforza.
Ma anche questa affermazione è vera
sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell'austerità espansionista
hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno
che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e
l'economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far
funzionare l'austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di
contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e
determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere
incertezza... Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non
comunicano, sappiamo perché l'austerità non funziona.
martedì 16 ottobre 2012
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