Fulvio Grimaldi da Informare per Resistere
Nella nostra condizione di schiavi coloniali non riuscivamo a vedere che la “Civiltà Occidentale” nasconde dietro alla sua scintillante facciata una muta di jene e sciacalli. E’ l’unico termine da applicare a chi si aggira per realizzare “compiti umanitari”. Una belva carnivora che si nutre di genti disarmate. Ecco cosa fa all’umanità l’imperialismo. (Che Guevara, all’Assemblea Generale dell’ONU, 1964)
Per quante critiche possano essere la situazione e le
circostanze in cui vi trovate, non disperate; è proprio nelle occasioni
in cui c’è tutto da temere che non bisogna temere niente; è quando siamo
circondati da pericoli di ogni tipo che non dobbiamo averne paura; è
quando siamo senza risorse che dobbiamo contare su tutte; è quando siamo
sorpresi che dobbiamo sorprendere il nemico. (Sun Tzu, L’arte della guerra)
Ci siamo seduti dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano occupati. (Bertold Brecht)
Fra poche ore, con le elezioni presidenziali in Venezuela, dove
Hugo Chavez si candida al terzo mandato, scocca un’ora decisiva per
l’intero continente e, come succede col sasso gettato in acqua,
l’increspatura delle onde arriverà ai lidi più lontani. In che contesto
si inserisce questo avvenimento epocale? Scendiamo per l’America Latina,
dall’alto in basso. Con l’eccezione del Nicaragua dei sandinisti (che
ieri ha annunciato di aver creato più posti di lavoro a tempo
indeterminato di tutto il Mesoamerica), dal Rio Bravo al confine
colombiano, imperversa la militarizzazione neoliberista e
narcotrafficante imposta dagli Usa con colpi di Stato, elezioni
truccate, finti socialdemocratici ed effettivi fantocci. Il Messico di
Neto, ladro delle vittoria di Lopez Obrador, insanguinato
dall’incessante carneficina di cartelli e militari, entrambi controllati
dagli “specialisti” Usa, e l’Honduras della decimazione degli
oppositori al post-golpista Lobo e dei contadini nelle aree sequestrate
dai latifondisti delle monoculture, sono i modelli di una riconquista
strisciante del “cortile di casa” yankee. Con quelle basi militari che
Zelaya, presidente liberal honduregno rovesciato dal
golpe di Obama, voleva chiudere, l’intervento diretto di militari Usa
contro i settori sociali in lotta (Misquitos), la DEA nuovamente
regolatrice dei percorsi ed equilibri del narcotraffico, il corridoio,
che deve assicurare il transito della droga dalla Colombia al famelico
mercato Usa e alle sue banche, è stato consolidato e blindato.
Il Centroamerica normalizzato, mannaia sul Venezuela
La regione tra Caraibi e Pacifico torna ai nefasti Usa degli anni
’70-’80, quando marines, squadroni della morte e gorilla locali la
chiusero in una morsa che costò centinaia di migliaia di vittime civili.
Strumenti aggiornati sono, oltre a quelli praticati allora, i cartelli
della droga e la bande criminali giovanili, pandillas, frutto
dell’emarginazione e della fame, e una militarizzazione gestita da
specialisti Usa, finalizzata a reprimere ogni accenno di protesta
sociale. Tra Guatemala, Salvador e Honduras, triangolo Nord della fascia
centrale, gli indici di violenza sono i più alti del mondo e
l’Honduras, tornato amerikano, ha ora superato il Messico come numero di
omicidi, anche di giornalisti. A che tutto si svolga secondo i piani
sinergici Pentagono-Cia-DEA , ai termini dei nuovi trattati di
sottomissione conclusi tra Usa e questi paesi (“Associazione di
Sicurezza Civile dell’America Centrale” e “Iniziativa Rergionale di
Sicurezza per l’America Centrale”, creature di Obama che estendono i
precedenti Plan Colombia e Plan Merida) ci pensano le forniture
militari, quadruplicate rispetto a dieci anni fa, l’incremento degli
effettivi militari nel ruolo di poliziotti, la militarizzazione della
polizia, la corruzione colossale di tutti i gangli dello Stato, così
resi ricattabili, e, last but not least, l’ultimo ritrovato
delle guerre e repressioni imperiali, i droni, Già volteggiano su tutto
il Centroamerica, come su Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, gli
stessi Usa, capaci di tutto vedere e di tutto colpire, secondo le liste
di assassinandi “su sospetto” compilate da Obama.
La Colombia, costellata di 7 basi nordamericane, ha sostituito al
brutale narcofascista Uribe il “moderato” Santos, arresosi alla forza di
un movimento di massa , la Marcha Patriotica, che ha imposto
il negoziato tra regime e l’invincibile guerriglia delle FARC, ma
mantiene il ruolo di eventuale strumento bellico contro il Venezuela.
Con l’eccezione dell’Ecuador di Correa, la costa del Pacifico che va
dalla Colombia attraverso il Perù fino al Cile, è in mano a vassalli
mascherati (Ollanta Humala), o dichiarati (Sebastian Pinera), che si
vedono però affrontati da indomabili movimenti di contestazione, di
studenti e masse popolari in Cile e di comunità indigene e campesine nel
Perù. Paraguay e Uruguay sono finiti sotto le grinfie Usa, il primo con
il colpo di Stato che ha defenestrato Fernando Lugo, il secondo
condotto dall’ex-tupamaro Mujica dalla speranza del riscatto, dopo
decenni di dittatura, alla desolazione del rientro negli schemi
repressivi del neoliberismo.
Brasile e Argentina hanno in comune la difesa della sovranità e
dell’autonoma politica estera dalle incursioni Usa e UE, il primo con
aspirazioni subimperialiste e dominio del mercato e la seconda impegnata
con Cristina Kirchner in un difficile, ma progressivo spostamento verso
un’autentica socialdemocrazia. Le varie alleanze di carattere
politico-economico, Mercosur, Unasur, Alba, Celac, hanno però tutte un
segno di integrazione continentale, indipendenza economica, riscatto
sociale e rifiuto delle interferenze esterne al continente, al punto che
perfino regimi di destra, succubi degli Usa nei trattati di libero
scambio, come il Cile e la Colombia, non hanno potuto che schierarsi con
il resto del continente contro il golpe in Paraguay. Con
l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), che in passato determinava
esiti di conflitti favorevoli agli Usa, fortemente indebolita da questi
organismi interstatuali da cui Washington è esclusa, l’egemonia
imperialista sull’America Latina è ridotta ai brandelli delle roccaforti
militari sparse sul continente e delle operazioni di destabilizzazione
affidate a movimenti separatisti, spesso indigeni con la copertura di
più o meno fondati integralismi ecologici. Questi, finalizzati anche a
suscitare nelle sinistre mondiali critiche e opposizione ai paesi della
svolta progressista o radicale.
Il motore dei cambiamenti verificatisi in America Latina dagli ultimi fuochi neoliberisti del Novecento, con l’argentinazo
del 2001, i movimenti insurrezionali trionfanti in Bolivia ed Ecuador
con successive vittorie elettorali delle sinistre antimperialiste in
questi paesi, come in Nicaragua e Venezuela, è fuor di ogni dubbio la
rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez. Il miglioramento delle
condizioni di vita di popolazioni storicamente emarginate e oppresse, il
ricupero della dignità nazionale, la spinta all’integrazione di popoli
uniti da lingua, cultura, storia di lotte anticoloniali, nel solco di
Martì e Bolivar, il potenziamento economico e diplomatico derivato da
una configurazione planetaria che al dominio degli Usa ha sostituito la
collaborazione con grandi aree strategiche (Iran, Cina, Russia, Africa,
India), la grande attenzione all’ambiente, sono tutte medaglie che, per
primo, si può fissare al petto l’ex-capitano dei parà che, attraverso le
più democratiche delle elezioni, confortate dalla mobilitazione
popolare contro ogni reazione, ha dimostrato la possibilità del cammino
verso il “Socialismo del XXI Secolo”. Sono questi antecedenti a fare
delle elezioni del 7 ottobre la pietra filosofale che trasforma il
piombo della dipendenza e del sottosviluppo in oro rivoluzionario per
tutto il continente.
Una sconfitta di Chavez rischia di implicare, venendo a mancare il
protagonista e l’ispirazione ideologica della spinta al cambiamento,
l’arretramento generale per l’intera regione. La sua vittoria, resa
prevedibile da un vantaggio sull’avversario Capriles, che da sempre si
aggira intorno ai venti punti, comporta il rafforzamento del blocco più o
meno antiliberista, ma uniformemente antimperialista e la messa
all’angolo dei rigurgiti reazionari e collaborazionisti. L’effetto
emozionale, psicologico, oltrechè economico e politico, dell’ennesima
vittoria di Chavez, su noi sprofondati nella crisi costruita per
derubarci e annichilirci, sui popoli in resistenza, con conferma e
accelerazione dell’alternativa latinoamericana al necrocapitalismo
neoliberista, antidemocratico e guerrafondaio, sarà incalcolabile.
L’Impero e i suoi regimi sguatteri hanno ben presente l’effetto contagio
sull’oceano dei deprivati del fenomenale riscatto delle masse popolari
realizzato in Venezuela con le varie missioni sociali (casa, salute,
istruzione, indigeni, donne, lavoro) e la riorganizzazione dello Stato
dal basso, con le nazionalizzazioni strategiche, con i consigli
comunitari sul territorio e i consigli operai nelle fabbriche, dotati di
poteri d’intervento e decisione. La povertà ridotta del 40%,
un’istruzione capillare, con le decine di nuove università pubbliche
gratuite, che, insieme ai movimenti di base a sostegno e sollecitazione
del chavismo, ha elevato a livello generale la coscientizzazione
politica della popolazione, la sovranità alimentare perseguita con i km
zero e l’intervento statale su produzione e distribuzione che ha
tagliato le unghie ai supermercati oligarchici e multinazionali, sono
modelli a cui guardano milioni di latinoamericani privati di giustizia
sociale, emancipazione politica e culturale.
Ho ancora luminoso il ricordo di quel Mercal di tutti i Mercal locali,
che si svolge ogni mese, immenso, in Avenida Bolivar di Caracas, dove
folle di famiglie, anziani, donne, acquistano tutto a prezzi ridotti
della metà, godono di visite oculistiche e mediche gratis, si suona, si
canta, si balla,in quell’allegria che viene evocata in ogni discorso del
Comandante. La spesa pubblica per investimenti del welfare rappresenta
il 61% di tutti gli introiti dal 1999 al 2011. Prima era del 36%. I dati
ONU confermano che il Venezuela è oggi il paese latinoamericano con
meno diseguaglianze. Particolare rimbombo non può non aver suscitato la
nuove legge “antiforneriana” del lavoro, con la riduzione dell’orario da
44 a 40 ore, un aumento dei salari che è il più alto del continente e
il rifiuto dei licenziamenti a discrezione del datore di lavoro.
Contro Chavez e la rivoluzione bolivariana, che ancora si muove
nell’ambito dell’economia mista mercato-socialismo, ma nelle parole del
presidente punta a un’accelerazione verso la fine del capitalismo, si è
candidato alla presidenza Henrique Capriles Radonski, figlio di madre
ebrea polacca e di padre ebreo sefardita (la comunità ebraica
venezuelana è stata coinvolta ripetutamente, e fin dal tempo della
serrata padronale post-golpe del 2001-2, in manovre di
destabilizzazione. Si tratta del miliardario (in dollari) rampollo della
più reazionaria componente dell’oligarchia golpista, già governatore
dello Stato di Miranda, deputato e sindaco, protagonista del golpe che
inaugurò una dittatura di 48 ore, privatizzatore accanito, fautore del
ritorno della PDVSA, l’ente petrolifero di Stato, alle condizioni
pre-Chavez di terra di razzìa dell’oligarchia e di controllo delle corporations
Usa. Foraggiato da fondi Usa, sostenuto da una pletora di Ong
teleguidate da organismi cripto-Cia, come NED, USAID, Freedom House,
Amnesty, per la penetrazione dal basso, garante dichiarato dell’accordo
capestro di libero scambio (ALCA) con gli Usa, collegato a fazioni
fasciste come Tradicion, Familia y Propiedad, a guida del partito di estrema destra Primero Justicia, ora confluito nella coalizione antichavista MUD (Mesa de La Unidad Democratica), Capriles
non pare avere la credibilità necessaria a sovvertire il pronostico che
favorisce il vincitore di ben 14 successive elezioni. Il suo tentativo
di mascherarsi da difensore degli interessi popolari con la promessa di
mantenere e “migliorare” le misiones sociali, è ridicolizzato dal proposito di riprivatizzare la PDVSA, principale finanziatrice di tali misiones,
in virtù del fatto che il Venezuela è il quarto produttore mondiale di
idrocarburi e il detentore dei suoi giacimenti più cospicui.
Hugo Chavez viene attaccato da tre lati. Uno, del tutto irrazionale
e irrilevante, popolare tra residui trotzkisti, è quello del
massimalismo presunto marxista che gli imputa di non aver subito
liquidato ogni proprietà privata, di essere affetto da caudillismo, di
offrire un ulteriore alito di vita al capitalismo in crisi mortale.
L’altro denuncia, con qualche fondamento, la formazione di una
cosiddetta “boliburguesia”, con riferimento al consolidarsi di
un ceto dirigente burocratico che mirerebbe essenzialmente alla
conservazione dello status privilegiato acquisito all’ombra della
”rivoluzione”. Un fenomeno che conosciamo, in proporzioni sicuramente
più gravi, in tutte le esperienze di “socialismo realizzato”, con
particolare evidenza recente nella Cuba delle riforme di mercato. Qui il
compito dell’alternativa bolivariana non poteva facilmente essere
completato nei pur fattivi 13 anni del governo chavista. Si trattava di
rivoltare come un calzino un paese le cui strutture erano corrose fino
al midollo da una classe dirigente ladra, inetta e corrotta, prona a
ogni diktat statunitense. Ci sarà pure un nuovo ceto medio “bolivariano”
che ha avuto modo di inserirsi nei gangli dello Stato, ma non pare
questa l’insidia maggiore. Piuttosto, con la lenta e faticosa formazione
di nuovi quadri dirigenti rivoluzionari corre parallela anche la
necessità di completare la bonifica di apparati, come il giudiziario e
la polizia, intrisi di revanscismo e sostenuti occultamente dai nemici
interni ed esterni di Chavez. Il tridente d’attacco è completato dalle
mene di Cia e Mossad, alimentatrici del grave problema di una sicurezza
urbana compromessa dalla criminalità di strada e che tirano le fila
delle costanti infiltrazioni terroristiche di paramilitari colombiani.
Nessuna di queste armi controrivoluzionarie pare oggi in grado di
sovvertire il pronostico elettorale e di destabilizzare in profondità
l’assetto di Stato e società. Numerosi segnali, addirittura confortati
da minacce di spericolati rappresentanti diplomatici Usa, indicano che
nel Nord dell’emisfero ci si sia rassegnati alla stanca ripetizione di
quanto tentato in precedenti elezioni, in particolare nel 2004, in
occasione del referendum per la revoca del mandato di Chavez chiesto
dall’oligarchia. Lo schemino è quello, alquanto logoro e screditato,
messo in atto anche in Russia contro Putin e in Iran contro Ahmadi
Nejad: vittorie eclatanti dei candidati sgraditi negate dall’accusa di
brogli mosse dalle cancellerie occidentali, dai loro mercenari mediatici
e da piazze incendiate per la bisogna. Grottesco, se si pensa alla
limpidezza di elezioni condotte e risolte sotto il cappello a stelle e
strisce, dal Messico all’Iraq, dall’Afghanistan all’Honduras, da Haiti
alla stessa metropoli di Bush Primo e Secondo.
In Venezuela, nella carenza di altri strumenti propagandabili, si
deve fare di necessità virtù e si punta alla migliore delle ipotesi: una
jacquerie innescata da denunce di brogli urlate dal coro mediatico,
tuttora sotto controllo oligarchico (nel sistema elettorale
automatizzato giudicato il più trasparente e sicuro di tutto
l’emisfero), che possa portare a interventi repressivi tali da poter
gridare alla dittatura e invocare interventi esterni, diretti, o per
interposta Colombia (a cui parecchio costerebbe, vista la funzione di
quinta colonna interna che la sua robusta guerriglia e l’impetuosa nuova
opposizione politica assumerebbero, sul modello del PKK curdo e delle
sinistre in Turchia a contrasto del bellicismo antisiriano di Erdogan).
Intanto, secondo molti, un campanello d’allarme e una prima prova di
terrorismo destabilizzante sono stati, a fine agosto, l’esplosione e
l’incendio di Amuay, la più grande raffineria del paese, una delle
maggiori del mondo, garanzia del controllo nazionale sul ciclo
petrolifero che prima era delocalizzato nelle raffinerie Usa. 40 morti e
scatenamento dell’informazione oligarchica su presunte responsabilità
della gestione statale. Insicurezza e panico, basi su cui costruire un
discontento di massa, campagne di demonizzazione e interventi esterni.
L’inchiesta è in corso.
Juan Contreras lo incontro a Caracas nel quartiere “23 gennaio”,
casamatta rivoluzionaria fin dai tempi della lotta armata contro
dittatori e despoti della seconda metà del secolo scorso. Militante
rivoluzionario marxista, con la solita passione latinoamericana per
Gramsci, è il fondatore e leader della Coordinadora Simon Bolivar. Il
suo quartiere, roccaforte proletaria da quando il dittatore Jimenez
sconvolse Caracas con il modernismo straccione dell’urbanistica da
massimo sfruttamento del suolo, vanta la più bella distesa di murales
della capitale. Narra le vicende di una lotta che origina nell’800 della
liberazione anticoloniale e prosegue fino ai temi e obiettivi di oggi.
Immancabile su tante pareti Che Guevara, mentre sulla parete in fondo
alla sala delle assemblee, tra le tante di lotte in giro per il mondo,
pende una bandiera dei nostri Cobas.
“La base fondamentale del nostro processo è il movimento popolare che ha ancora molti compiti davanti a sé”, dice Juan.
“Tra quelli principali è liberarsi della vecchia struttura dello Stato,
marcata dalla logica del capitale. Chavez sottolinea il problema della
transizione alla maniera di Gramsci: siamo intrappolati in uno Stato che
rifiuta di morire e uno Stato che rifiuta di nascere. Dobbiamo
liberarci delle vecchie strutture, quelle che impediscono l’avanzata del
processo guidato da Chavez. Ci sono alcuni al vertice che pensano di
poter imporre una rivoluzione dall’alto, ma noi ci troviamo in una fase
di passaggio e senza la forza e le idee del movimento di massa non si
andrebbe avanti. Dall’8 ottobre di quest’anno, il giorno dopo le
elezioni presidenziali, il nostro obiettivo deve essere di contribuire a
costruire una vera democrazia, rappresentativa e, come diciamo noi,
protagonica. Protagoniste le masse. Il processo dal 1998 al 2012 è stato
un processo di risveglio politico, di maturazione delle coscienze, di
consegna alle masse di strumenti di riscatto sociale, economico e
culturale. Ora è il tempo per passare all’incasso, con il popolo che
assume il suo ruolo storico di protagonista. Non viviamo in una società
perfetta. Abbiamo ancora un sacco di cose da fare, ma almeno conosciamo i
nostri problemi. Stiamo costruendo una nuova società fondata sul lavoro
di donne e uomini che, inevitabilmente, hanno debolezze.
Sono le idee e le parole di gente come Juan Contreras, e che lui
auspica continuino ad essere quelle di Chavez e della sua squadra, che
hanno posto il Venezuela al centro della geografia del pianeta. Sono i
fatti e i propositi che mandano i brividi per la schiena di chi conta di
trasformare questa geografia, la comunità sana dei popoli e delle
classi, in dittatura dell’1%. Nel deserto che stiamo attraversando
noialtri, dove non c’è riflesso d’acqua ma solo luci di miraggio, siamo
al punto dove la speranza è l’ultima a morire. Ma dal Venezuela,
dall’America Latina, si aprono sorgenti che promettono di far fiorire i
deserti. Travolgendo coloro che ci vogliono convincere che l’ultima
speranza è quella di morire.
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