di Alessandra Corrado da Uninomade
Il Mali è oggi al centro delle cronache internazionali per le crisi e
le dinamiche complesse che sta vivendo, e per la nuova “guerra
mondiale” che potrebbe preparasi. Dal 2009 i
ribelli Touaregs del Mouvement National de Libération de l’Azawad
(MNLA) tornano a reclamare l’indipendenza delle tre regioni del Nord
(Gao, Tombouctou e Kidal) e di parte della regione di Mopti, e
progressivamente ne realizzano l’occupazione; gruppi integralisti
religiosi – Ansar Dine, il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en
Afrique de l’Ouest (MUJAO), Al-Qaïda au Maghreb Islamique (AQMI) e Boko
Haram – si uniscono alla ribellione rivendicando l’applicazione della
charia su tutto il territorio nazionale; nel marzo 2011 un colpo di
stato militare, nella capitale Bamako, ha deposto il presidente Amadou
Toumani Touré (ATT).
Al Nord le violenze e i saccheggi hanno determinato lo sfollamento e
la fuga verso il Sud (Segou, Sikasso) e attraverso le frontiere (verso
Burkina Faso, Niger, Mauritania) di centinaia di migliaia di persone, e
in tutto il Paese regna lo scompiglio più totale, in virtù di una crisi
politica e istituzionale che sembra non trovare soluzione al proprio
interno e di una crisi militare che ha cercato soluzione già
all’esterno, invocando l’intervento dell’ex madrepatria, la Francia.
Se alcune cronache, generalizzando in modo azzardato e miope, vedono
la possibilità di una “somalizzazione” del Mali, ovvero di una guerra a
bassa intensità permanente tra tribù e gruppi etnici diversi per il
controllo del potere e delle risorse, altre invece parlano del rischio
di una “afghanizzazione” del Paese, ossia di una internazionalizzazione
della crisi, con un progressivo contagio ad altri paesi limitrofi e di
una destabilizzazione continua.
Calchi Novati (su il Manifesto) scrive che «non è il caso di
gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito»,
considerando che il 60% dello spazio territoriale è occupato da ribelli e
organizzazioni fondamentaliste e nella capitale governativa vige una
precaria convivenza tra una giunta militare e un governo civile
provvisorio insediato dall’esercito stesso.
Al-Qaida ha rappresentato molto di più che un pretesto per rafforzare
l’ingerenza straniera nelle questioni di casa e nell’intera area.
Tuttavia, il presidio militare messo in atto da Stati Uniti e alleati in
un ambiente che è soprattutto uno “spazio di movimento”, riproduce e
alimenta in maniera aggressiva gli stessi fenomeni che vorrebbe
scongiurare, e rischia di compattare ribellismi e organizzazioni
diverse.
L’area Sahelo-sahariana è il regno dei tuareg e più in generale delle
popolazioni berbere, tradizionalmente nomadi ma sempre più costrette
alla sedentarizzazione, in primis dalle frontiere statuali. Si tratta di
un’area caratterizzata dal nomadismo, lungo antiche linee carovaniere, e
da traffici, leciti e illeciti: prodotti, bestiame, sigarette, armi,
droga, esseri umani (migranti e sotaggi). Il fondamentalismo islamico vi
è presente da più tempo ma solo di recente ha assunto una valenza
anti-occidentale. Il pretesto del terrorismo ha fatto sì che il Mali
divenisse sede di Africom, il comando militare unificato per l’Africa
costituito nel 2007 da Bush e consolidato da Obama. Gli Stati Uniti da
anni formano e armano l’esercito locale, al fine di sostenerlo nella
battaglia al terrorismo appunto, quello stesso esercito che ha messo a
segno il putsch militare e da cui si sono sfilate componenti che si sono
poi unite alle organizzazioni ribelli.
Per comprendere dunque la crisi aperta in Mali e nell’intera area
Sahelo-sahariana, è importante conoscere la storia coloniale e
postcoloniale nella quale si sono prodotte e riprodotte periodicamente
le ribellioni delle popolazioni del Nord, nonché aver chiaro il quadro
geopolitico ridisegnato nel post 11 settembre 2001 e dominato da imprese
transtatali, con la loro capacità di penetrazione delle strutture statali e interstatali.
Mai in passato le popolazioni berbere (Tamasheq o Touaregs) hanno
cercato di costituire un potere politico unitario. Le differenti tribù
hanno perseguito la riproduzione della vita comunitaria e la
sopravvivenza garantendosi soprattutto l’accesso alle risorse
economiche. L’indipendenza oggi rivendicata dai ribelli del Nord è un
progetto vecchio sessant’anni. La loro rivendicazione ricorda infatti il
progetto Organisation commune des régions sahariennes (OCRS), con il
quale la Francia, negli anni ’50, sul finire della dominazione
coloniale, aveva tentato di recuperare le regioni sahariane di diversi
Stati (Niger, Mali, Algérie, Soudan) e di mettere insieme le diverse
tribù Tuareg, al fine di mantenere il controllo sulle risorse minerarie
dell’area. Tuttavia, a partire dal 1958 i capi tribù e comunità,
Tamasheq, Tuareg e arabe, hanno scelto di aderire alla causa
indipendentista del Mali, preferendo l’opzione dello stato unitario alla
dominazione straniera.
Le ribellioni Tuareg prodotte a più riprese (1963-64, 1989-1991,
2003-2009, e oggi) possono in parte essere analizzate in termini di
lotta per il riconoscimento e per l’indigenizzazione dello Stato
moderno. Se al principio, quasi certamente contestavano soprattutto la
messa in discussione delle proprie forme di potere ed organizzazione di
tipo tradizionale, progressivamente il problema della distribuzione
delle risorse e dell’accesso ai servizi di base è stato associato a
quello del riconoscimento identitario. Tuttavia, la ribellione armata è
servita anche a produrre una élite politica, attraverso il reinserimento
e la promozione nelle cariche istituzionali di capi che si sono così
trasformati in “imprenditori politici”, barattando la destabilizzazione
politica e armata con concessioni diverse e con il potere.
Bisogna comunque sottolineare la matrice socio-economica di povertà e
miseria, su cui si attivano le continue mobilitazioni sociali e che
alimenta il reclutamento nelle organizzazioni armate, in un’area che
ancor più terribilmente di altre ha sofferto, per le condizioni
climatiche e i ricorrenti periodi di siccità, la pochezza ventennale di
un intervento pubblico in grado di assicurare finanche i servizi di base
(acqua, salute, elettricità, istruzione) e un avvenire a giovani,
spesso analfabeti, così costretti a migrare o a nutrire le fila delle
milizie.
Ancora una volta ci si ritova così ad assistere ad una mobilitazione quasi corale degli eserciti di forze alleate straniere nella guerra al terrorismo e a supporto della democrazia. C’è da dire quasi
perché l’iniziativa è stata presa per prima dalla Francia, che da sola
ha interpretato come un nullaosta all’offensiva bellica la risoluzione
2085 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso 22 dicembre, che
autorizzava – dietro sollecitazione dell’Unione Africana (UA) e della
Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest (CEDEAO) – un
negoziato politico (distinguendo la questione Tuareg dalla costituzione
di poli jihadisti) e l’avvio di una “missione internazionale di sostegno
al Mali affidata a forze africane” (MISMA), affiancate da quelle
occidentali. La sollecitudine francese è da ricondurre
all’ansia di una perdita di controllo in un’area che sì ha il proprio
marchio coloniale ma che, insieme alle penetrazioni del fondamentalismo
islamico, ha progressivamente visto anche quelle americane, ovvero del
“fondamentalismo del libero mercato”, per dirla con Harvey. La Francia,
come tutta l’Europa, non può rischiare la destabilizzazione del Paese e
l’effetto domino in tutta l’area, in ragione delle attività estrattive
in essa concentrate e delle immense risorse ancora non sfruttate, che
fanno gola a molti.
Tuttavia, la guerra senza fine mossa dall’Occidente contro il
terrorismo sta avendo l’effetto paradossale di rafforzare e unire le
organizzazioni fondamentaliste, producendo come si legge su Le Monde diplomatique
una «autostrada dell’internazionale sovversiva», che va dal Pakistan al
Sahel, passando per l’Irak e la Somalia e attraverso la quale circolano
combattenti, idee, tecniche di lotta, armi, in una guerra contro le
“nuove crociate”. Si rileva infatti che dal 2001 queste nuove guerre
hanno avuto luogo in paesi musulmani – Afghanistan, Irak, Somalia,
Libano, Mali, e non dimenticando Gaza. Ma individuando solo nella
motivazione cultural-religiosa l’elemento di scontro e lotta si
occultano quelli che sono i veri interessi in gioco fra le parti –
quelli di una economia mineraria ed espropriatrice – e le strategie di
mobilitazione sociale attivate, anti-occidentali da un parte e
securitarie e islamofobiche dall’altra.
I problemi con cui adesso il Mali deve confrontarsi non sono solo il
jihadismo e la guerra, ma anche i rapporti politici e sociali interni e
la riorganizzazione democratica.
Abbiamo raccolto a distanza la testimonianza di un giornalista maliano.
Come può essere letto e interpretato il colpo di stato?
«Qui a parte i governanti, il colpo di stato non ha sorpreso nessuno.
Perché l’ imputridimento della situazione aveva raggiunto il
parossismo, anche se in fondo non lo si desiderava, perché nel
ventunesimo secolo un colpo di stato militare non dovrebbe essere
considerato l’ultima soluzione. Se ne parlava già a voce bassa quasi
dappertuttuto, soprattutto dopo l’attacco di Menaka il 17 gennaio 2012
da pare del MNLA. Poi sono state le mogli dei militari a Kati che si
sono mobilitate in seguito alla tragedia di Aghelhoc per denunciare la
gestione di questa crisi da parte di ATT, al punto di fomentare i
militari di questo campo.
In realtà il colpo di stato è stato un male necessario, ma sono anche
certo che non si sarebbe prodotto senza questa crisi del Nord, crisi
che del resto è un corollario del modo di gestire il Paese: cupidigia,
sperpero del denaro pubblico, condiscendenza, incapacità di analisi
della situazione e incoscienza, quando i vicini si attivavano per
gestire al meglio le loro frontiere. Tuttavia, poiché ciò procura del
denaro, alcuni governanti si erano anche specializzati in
“negoziatori-liberatori” di ostaggi, ovvero in trafficanti, attraverso
degli elementi che sono oggi alla testa di alcuni gruppi jihadisti. E
peggio, l’esercito ufficiale – questi poveri soldati senza braccia
lunghe come hanno detto – è stato emarginato, mal equipaggiato e senza
motivazioni, nelle diverse guarnigioni: e come in complicità, i
governanti hanno anche accolto dei gruppi armati fino ai denti,
offrendogli del denaro (50.000.000 de francs CFA), viveri, e lasciandoli
con armi che superavano l’arsenale dell’esercito nazionale. Se i nostri
militari non volevano lasciarsi uccidere come topi, bisognava che se la
prendessero con il capo delle forze armate! Inoltre, il colpo di stato è
stato salutare non solo per il paese che viveva una modalità di
gestione tra le più ignobili – con persone che si sono arricchite
attraverso le casse del paese, che andavano come sempre tranquillamente
comprando voti di scambio elettorale per restare al comando – ma anche e
soprattutto per l’esercito che era già sconfitto: i jihadisti li
sgozzavano tutti, uno per uno, al fronte!».
Secondo te, quale relazione vi è stata tra il cambiamento al potere e le manovre degli islamisti?
«Evidentemente questo cambiamento è stato favorevole ai jihadisti,
poichè dopo il copo di stato, invece di affrontare subito gli occupanti,
la classe politica, con delle complicità esterne, si è lanciata e persa
in una lotta ridicola per il potere di gestione di un paese che quasi
non esisteva più poichè diviso in due. Certo il colpo di stato militare è
inimmaginabile e inaccettabile in democrazia, ma poiché la democrazia
si esercita in un paese, lo si può fare normalmente in un paese che sta
già bruciando? Una marcata incoscienza da parte degli uni e degli altri a
non comprendere che ciò veniva dopo il lavoro più urgente da sbrigare! I
jihadisti hanno così avuto tutto il piacere e il tempo di armarsi e di
ingrossare i loro ranghi e, se la Francia non fosse venuta così
velocemente in soccorso, sarebbe stata la fine per tutto il paese,
compresi i cosiddetti “politici”».
L’opinione pubblica è divisa riguardo all’intervento straniero,
occidentale e africano. Il movimento popolare del 22 Marzo (MP22), nato
all’indomani del colpo di stato richiamandosi ai valori della
rivoluzione del 26 marzo 1991 contro il regime di Moussa Traoré, lo
giudica con sospetto. Membro della Coordination des organisations
patriotiques (COPAM), MP22 racchiude un insieme di partiti e movimenti
politici, associazioni e organizzazioni della società civile e soggetti
indipendenti. Ha dichiarato da subito il proprio sostegno al Comité
National de Redressement de la Démocratie et de la Restauration de
l’Etat, organo guidato da Amadou Sanogo, capo della rivolta, e opera per
sostenere e promuovere la riorganizzazione democratica del Paese.
Riportiamo alcune parti di una intervista rilasciata dalla sua portavoce Rokia Sanogo.
Come giudicate l’intervento delle truppe straniere, francesi e africane?
«La nostra posizione è chiara: sì al rafforzamento dell’esercito
maliano per la liberazione del Mali. Durante questi 9 mesi tutte le
nostre azioni hano contribuito al rafforzamento materiale e al sostegno
morale all’esercito maliano. Faccio presente la nostra forte
mobilitazione contro l’ingiustificato blocco al rifornimento di armi
all’esercito maliano, che è durato circa sei mesi. (…)
Pertanto, oggi diciamo sì a tutti gli aiuti e supporti (logistica,
copertura aerea e consigli) di cui l’esercito maliano ha bisogno per
rafforzarsi e poter liberare in maniera efficace le regioni del Nord.
Ma non siamo d’accordo con l’intervento delle truppe straniere al
posto dell’esercito maliano. Non siamo d’accordo con coloro che ancora
oggi, all’interno e all’esterno del Mali, continuano ad affermare che
l’esecito maliano non esiste, per giustificare così l’intervento
straniero».
Riguardo alle divergenze tra i diversi raggruppamenti e alle
orientamenti politici sulla questione, si potrà arrivare ad una unione
per far fronte alla minaccia securitaria?
«É il consenso sulla base delle menzogne che ci ha portato tutti
questi problemi. Non si può dunque oggi fare una unione per uscire dalla
crisi sulla base della stessa mensogna. Noi rifiutiamo l’utilizzo
strumentale della minaccia securitaria per evitare ogni concertazione.
Non si può realizzare un’unione senza avere gli stessi obiettivi. Non si
può fare un’unione senza parlarsi.
(…) Non si può fare un’unione con i nemici del Mali, che hanno
venduto il nord del Mali ai rapitori di ostaggi e ai narcotrafficanti e
che sono alleati del MNLA.
Noi siamo per la mobilitazione patriottica del poplo maliano al fianco del suo esercito sulla base della verità!»
Pensa che bisognerebbe ancora realizzare una consultazione nazionale in un Mali in piena guerra?
«La realizzazione di una consultazione nazionale poteva evitare al
Mali di essere in piena guerra. Anche oggi, una consultazione nazionale è
più che mai necessaria per assicurare una buona gestione della guerra
in corso, per trovare delle risposte efficaci alla crisi e per dare più
mezzi all’esercito maliano. Ci sono state numerose consultazioni sul
Mali senza il Mali e senza il popolo maliano. Anche in piena guerra la
CEDEAO si consulta sul Mali e perchè noi maliani non possiamo
confrontarci?».
Per scongiurare un nuova guerra senza fine è dunque necessario che le
forze sociali del Mali si riorganizzino, contrastando le ingerenze e
strumentalizzazioni internazionali e rispondendo ai bisogni e problemi
socio-economici che sono alla base di questa complessa crisi.
sabato 26 gennaio 2013
Alla conquista del deserto: le guerre del Mali
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