Queste sono le riforme di cui vorremmo sentir parlare, non quelle di Monti e di Bersani, che chiamano riforma l'abolizione delle tutele sul lavoro, le privatizzazioni, la riforma Fornero sulle pensioni e i tagli al Welfare.
Esattamente
settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di
protezione sociale elaborato dal rettore dell'Univeristy College di
Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di
welfare. Ecco perchè le sue idee sono ancora attualissime.
di Lucio Villari, da Micromega
C’era
una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e
l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della
Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate
1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero
testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare
recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli
inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile
The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi.
Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge.
In
autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli
italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito
dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa
internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di
documentazione democratica.
Il Piano Beveridge aveva
questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al
Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116
pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più
essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite
culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più
consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà
tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei
ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per
assicurare e garantire libertà e democrazia.
Mentre imperversava una
guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità
propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione
socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di
dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i
popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore
della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di
democrazia, vera, attiva.
Il Piano Beveridge era un piano
pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia,
industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva
negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana
esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo
aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come
iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni
sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui
guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni,
rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si
faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione
Barbarossa tedesca contro la Russia.
L’opinione pubblica inglese,
anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi
in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e
i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega
pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in
quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del
disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che
pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con
molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano,
quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu
elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre
1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione
sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale
e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.
Sono
trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e
i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano
implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e
di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma
politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare
l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende
anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di
Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata
ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede,
coraggio e sentimento di unità nazionale”.
Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society.
E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600
pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno
della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e
terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre
alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle
sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico
privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera —
scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può
realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.
giovedì 31 gennaio 2013
Quel piano Beveridge che pare scritto oggi
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