di
G. Pascal Zachary (da Alternet)
traduzione di Domenico D'Amico
Tutto
questo parlare di secessione evidenzia un aspetto esistenziale
nascosto, ma non inesistente, dello stato nazione americano: che
l'unione è una scelta quanto la separazione.
Con
cadenza regolare molti cittadini si ritrovano a pensare con favore a
uno smembramento degli Stati Uniti – patrioti di ogni colore
politico che “nel corso degli eventi umani” sono arrivati a
ritenere che sia sorta “la
necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno
stretto [a un altro popolo]” [1]
Il
nostro è uno di questi periodi, e nonostante le istanze politiche e
il momento storico abbiano una loro unicità, uno sguardo a passati
episodi di zelo secessionista potrebbe illuminare il presente. Il
profluvio di fervore secessionista seguito alle ultime elezioni è
solo una fantasticheria passeggera, oppure è l'indicazione di un più
profondo, perfino rivoluzionario, cambiamento del contesto politico
americano?
Dopo
le elezioni gli attivisti di destra invocarono immediatamente la
secessione del Texas dall'unione. Questo richiamava una dichiarazione
da parte di alcuni progressisti del Vermont, enunciata per la prima
volta nel 2003, in cui si esploravano le possibilità di separarsi da
una paese che si riteneva troppo reazionario.
Una
petizione
del 9 novembre, che chiedeva all'amministrazione Obama di “di
acconsentire pacificamente allo stato del Texas di ritirarsi dagli
Stati Uniti d'America” ha raccolto 120.000 firme, divenendo di gran
lunga la petizione più popolare sul sito della Casa Bianca [2].
Ulteriori petizioni per la secessione sono arrivate dagli altri 49
stati, con quelle della Louisiana,
della Florida
e della Georgia
che hanno raccolto più di 30.000 firme ciascuna.
Una
cosa è certa: un intero blocco di stati meridionali che un tempo
erano essenziali per qualsiasi maggioranza Democratica – da Wilson
fino a Clinton, dall'inizio della I Guerra Mondiale fino alla
sconfitta di Al Gore nel 2000 – ormai non è più della partita.
Texas, Mississippi, North Carolina: i Democratici ormai possono anche
perdere tutti questi stati nella corsa alla presidenza e vincere
facile lo stesso. Obama l'ha appena fatto. La “Southern
Strategy” [3] è ormai storia vecchia.
L'arruffianamento
nei confronti del Profondo Sud da parte di entrambi i partiti, per
molti stati si è dimostrato enormemente vantaggioso, ad esempio per
l'Alabama, che ha iniziato a distaccarsi dai Democratici negli anni
70 e oggi se ne è completamente allontanato. L'Alabama riceve 2
dollari di finanziamento federale per ogni dollaro dato in tasse;
questo stupefacente squilibrio è il prodotto di un Collegio
Elettorale [4] disfunzionale, che incoraggia i leader di entrambi i
partiti a corteggiare gli stati del sud.
Con
un Sud ormai politicamente escluso dal processo decisionale delle
elezioni presidenziali, il richiamo alla secessione è la prima prova
di un inedito panico nella Destra. Avendo di fronte la prospettiva di
una Corte Suprema più liberal e una ratio politica che renderà
sempre minori gli incentivi a distribuire contributi federali agli
stati meridionali, gli estremisti locali hanno dissepolto una
strategia del XIX Secolo. Mettendo sul tavolo l'unica carta politica
rimastagli, minacciano di abbandonare la nazione.
Il
clamore è maggiore in Texas principalmente per le sue dimensioni,
l'influenza nazionale e l'orgoglio campanilistico. Diciamolo pure, i
secessionisti texani sono picchiatelli. La loro organizzazione più
rumorosa, il Texas
Nationalist Movement, afferma seriamente che “questo è il
fatto essenziale, che non può esistere l'unione con quelli che
ritengono i principi di Karl Marx superiori a quelli di Thomas
Jefferson. Qui in Texas, noi rispettiamo quei principi di Thomas
Jefferson – che tutto il potere politico è nel popolo.” [5]
Il
prudente liberalismo di Obama – la sua accettazione dell'economista
Repubblicano Ben Bernanke come capo della Fed e gestore della
politica economica del governo, escludendo economisti Democratici di
chiara fama come Paul Krugman e Jared Bernstein – rende il concetto
di un presidente agente del marxismo ridicolmente caricaturale.
Eppure, quando i secessionisti passano dall'ideologia generale a
rimostranze più specifiche, i loro argomenti a favore della
separazione cadono con precisione nella casella degli “state's
rights” [6] – argomenti che trovano da lungo tempo buon ascolto
nelle corti federali e in una parte oscillante della pubblica
opinione.
“Abbiamo
un governo federale che tratta stati come il Texas come
fossero
il suo salvadanaio, che non ha la minima considerazione per la
sovranità degli stati e ci tratta davvero come suddivisioni
amministrative soggette ai capricci del governo federale,” ha detto
a FoxNews
Daniel Miller, un carneade diventato portavoce del Texas Nationalist
Movement.
Esiste
una prospettiva storica che vede il Texas come una sorta di inland
empire [7] dalla specifica identità e percorso politico. I
texani dissenzienti sono ovviamente del tutto consapevoli che il
Texas fu, per quasi dieci anni, una repubblica indipendente prima di
unirsi agli USA nel 1846 [8]. Eppure, Miller e la sua accozzaglia di
picchiatelli di estrema destra non invocano l'immediato ritiro
dall'unione, o addirittura la secessione sic et simpliciter.
Piuttosto, quello che chiedono è che i legislatori texani si
impegnino in una variante di politica spettacolo [political theater]
[9]. “L'ideale per noi sarebbe che i parlamentari [dello stato]
ponessero la questione nella forma di un referendum non vincolante,”
ha detto Miller a Sean Hannity della Fox, “in modo che il popolo
del Texas possa esprimere la propria volontà sull'argomento.”
Si
sa com'è la politica spettacolo, e l'élite politica texana prende i
secessionisti molto alla larga.
Dopotutto
lo stato ha 26 milioni di abitanti, per cui anche 120.000 firme a
favore di qualsiasi cosa possono essere accantonate come “rumore”
statistico.
“Non
si tratta di un vero movimento secessionista,” ha detto a Voice
of America Mark Jones, professore di scienze politiche alla Rice
University di Houston. “Dietro questo movimento non c'è nessuno
sponsor politico di peso.”
In
effetti l'élite politica Repubblicana del Texas, dal Governatore
Rick Perry in giù, ha evitato coinvolgimenti col movimento. Ma in
un'America dominata da quelli che lo storico Daniel Boorstin una
volta etichettò come “pseudo-eventi” – un'America dove le
satiriche “finte notizie” di Jon Stewart possono essere più
veritiere delle vere notizie di un [famoso anchorman come] Scott
Pelley – un “finto movimento secessionista” può assumere
l'apparenza della realtà, anzi, forse l'ha già fatto.
Un
mondo di possibilità
Per
valutare quanto sia plausibile l'opzione secessione, diamo uno
sguardo all'estero. Negli Stati Uniti i discorsi sul dissolvimento
politico dell'unione vengono associati allo squilibrio mentale. Ma in
molte altre parti del mondo non è così. Gli scozzesi, che al pari
dei texani possono rievocare un passato di indipendenza politica,
potrebbero benissimo scegliere di separarsi dalla Gran Bretagna in
una votazione prevista per il 2014. In Catalogna, la regione di
Barcellona, la più prospera della Spagna, i catalani discutono
esplicitamente se si debba realizzare un distacco dello stesso
genere. I galiziani, per quel che riguarda la loro regione nel
nord-ovest della Spagna, nutrono aspirazioni simili.
L'esistenza
dell'Unione Europea, che assicura una rete di servizi istituzionali
alle piccole nazioni, aumenta l'attrattiva del separatismo regionale.
Nel 2010 il Parlamento Europeo chiese ai propri stati membri di
riconoscere la sovranità del piccolo Kosovo, fino ad allora
provincia meridionale della Serbia – e 22 nazioni hanno approvato.
Il movimento per l'indipendenza politica ha molte madri, e una di
esse, paradossalmente, è la globalizzazione, perché la “sovranità
condivisa” – specialmente nel campo della difesa, del commercio e
della politica monetaria – porta benefici tangibili.
Negli
ultimi vent'anni i popoli della terra hanno conosciuto un'ondata di
scissioni geo-politiche senza precedenti, portando alla creazione di
unità politiche di minore estensione in possesso di qualcosa di
simile alla piena sovranità. Il collasso dell'Unione Sovietica ha
portato alla creazione di 15 nazioni, e quando i sovietici hanno
allentato la loro presa sull'Europa dell'Est, i secessionisti hanno
fatto festa. La Iugoslavia, da sola, ha dato vita a sei nazioni
diverse. Pochi di questi nuovi stati hanno scelto di unirsi di nuovo.
La scelta della Germania Est di fondersi col suo fratello maggiore
occidentale è solo l'eccezione che conferma la regola.
I
vari governi statunitensi hanno salutato con favore le secessioni
all'estero, trovando facili giustificazioni nella filosofia di Thomas
Jefferson, che considerava l'autodeterminazione con un fervore di
solito riservato alla fede religiosa. Il famoso detto di Jefferson,
“ogni generazione ha bisogno di una nuova rivoluzione”, fornisce
un comodo appiglio per qualsiasi secessionista in cerca di
giustificazioni.
Nella
loro politica estera gli Stati Uniti di solito cercano di appoggiare
l'esistenza di confini politici già esistenti, ma abbastanza spesso
sostengono nuovi assetti politici, da una maggiore autonomia
regionale a un'esplicita secessione. Nel caso del Sudan, sia
l'amministrazione Bush sia quella di Obama spinsero per una
separazione del Nord dal Sud. Nonostante la nascita del Sudan del Sud
si sia rivelata una delusione, soprattutto a causa della crescente
corruzione all'interno del nuovo governo, la scissione è stata
ottenuta senza enormi spargimenti di sangue.
Ogni
nazione così concepita... [10]
Quello
dei due pesi e due misure è il fondamento della politica
statunitense, per cui l'apertura di presidenti presenti e passati nei
confronti dei movimenti secessionisti internazionali non va
fraintesa. Lincoln ha costruito la sua reputazione storica sostenendo
l'unione americana ad ogni costo, e il costo risultò essere la
Guerra Civile. Considerando l'eredità politica di Lincoln, nessun
presidente americano sarà disposto a sciogliere con facilità
qualunque parte degli Stati Uniti dai suoi vincoli federali. Gli
impegni in questione includono ovviamente anche una fetta del debito
pubblico, nonché delle risorse del paese. Il governo federale
possiede, o controlla, una notevole estensione territoriale,
specialmente a Ovest, e sostiene anche un debito di 50.000 dollari
per ogni cittadino in circolazione. La suddivisione delle risorse –
e dei debiti – sarebbe uno dei problemi maggiori da affrontare in
vista di una separazione politica.
Naturalmente,
talvolta un negoziato può fallire. La Storia è piena di terribili
guerre civili in un contesto secessionista. Aspramente contestate e
talvolta cariche di tragedia, le secessioni violente gettano una luce
oscura sull'intera categoria. Come scrive Chinua Achebe nel suo nuovo
libro di memorie, There Was a Country, la fallimentare
secessione (dalla Nigeria) degli Igbo del Biafra portò a una guerra
spietata, durata dal 1967 al 1970, che fu colma di “conflitto e
sofferenza” e che produsse innumerevoli vittime, in parte per
inedia.
E
tuttavia, il sogno secessionista continua a vivere, per una semplice
concatenazione logica. Se le comunità politiche sono “comunità
immaginate”, per citare il titolo di un trattato del teorico
politico Benedict Anderson, ne consegue che, seguendo lo spirito di
Jefferson, le comunità politiche possono essere re-immaginate,
ri-concepite e ri-generate. La logica dell'autodeterminazione non si
fa contenere tanto facilmente dagli appelli all'orgoglio nazionalista
o all'inevitabilità degli eventi storici. La libera associazione è
uno stimolo potente per raggiungere una dimensione politicamente
rilevante. Ma il medesimo stimolo può portare alla decostruzione del
corpo politico. E pluribus unum può capovolgersi in ex uno
plures.
Crepe
americane
Negli
Stati Uniti, come altrove, le difficoltà poste dal concetto di
secessione non stanno nelle procedure materiali: per gestire la
separazione di entità geografiche minori da una nazione più grande
può bastare un bravo contabile. Staccare il Texas o la California o
il Vermont o la regione dei Grandi Laghi, per dire, dal resto degli
Stati Uniti (e ognuna di queste proposte è stata davvero avanzata),
non richiederebbe chissà quale abilità matematica. L'obbligo a
prendersi carico del debito federale, e forse un risarcimento a
favore del governo nazionale a fronte della perdita di territorio e
risorse del Texas o della California, tutto questo si può calcolare
e mettere nero su bianco.
Il
problema è che la sensibilità americana è talmente suscettibile, e
la nostra società talmente eterogenea, che la fuoriuscita indolore
di uno o più stati dall'unione è lo scenario meno probabile, e di
molto, dell'intera ipotesi secessionista. Arrestare il processo
separatista a livello del singolo stato si potrebbe rivelare
impossibile, come già indicano alcuni indizi. In Texas, accanto alle
speculazioni sulla separazione dagli Stati Uniti, si sta sviluppando
ad Austin, la capitale dello stato, un movimento per la secessione
dallo stesso Texas. In modo simile, nella Contea di Pima (Arizona)
sta prendendo corpo un movimento per separarsi dall'Arizona e
restare, in tal modo, nell'unione.
I
singoli stati, se dovessero secedere circa nello stesso periodo,
potrebbero a loro volta formare una loro unione imperfetta, o
chiedere di unirsi ad altri paesi. La Gran Bretagna potrebbe
desiderare di consolarsi della perdita della Scozia, tanto per dire,
invitando il Texas a far parte del suo stato nazione.
Non
c'è limite a un tale ventaglio di possibilità, perché, in realtà,
le crepe e le forze centrifughe presenti nella vita degli americani
sono pressoché infinite. Allo stesso modo in cui negli anni 30 il
Partito Comunista propose la creazione di uno stato indipendente per
gli Afroamericani [11], non potrebbero gay e lesbiche mirare allo
stesso obiettivo? Perché i ciclisti che volessero combattere il
riscaldamento globale rinunciando all'auto non dovrebbero ottenere il
loro territorio? E naturalmente il sorgere di corpi politici a
carattere religioso sarebbe inarrestabile. I Battisti potrebbero
avere un loro stato. E i Cattolici. E i Mormoni – no, un momento,
ce l'hanno già. E via dicendo.
Compagni
secessionisti, avanti! [12]
La
Destra non ha il monopolio dello spirito secessionista. L'entusiasmo
per campagne donchisciottesche per l'indipendenza di stati o regioni
ha da lungo tempo caratterizzato i progressisti, un entusiasmo
animato da una schietta prospettiva del tipo “piccolo è bello”.
Allo stesso modo in cui la città può divenire bastione di riforme e
perfino strumento di liberazione, una città-stato più piccola e
compatta, semplicemente in virtù delle sue dimensioni, può
permettere l'adozione di forme di democrazia diretta e deliberazione
partecipata che solitamente sono assenti nelle grandi nazioni. Questo
genere di impulsi secessionisti spesso intriga i progressisti nei
periodi di grande difficoltà, come gli anni 80 di Reagan e gli anni
oscuri di George W. Bush. Quando acquisire potere a livello nazionale
sembra una vana speranza, è comprensibile che ci si entusiasmi
all'idea di nuove strutture politiche che permetterebbero alla
Sinistra di organizzare esperimenti [politici] senza l'ostacolo degl
interessi conservatori.
In
ogni modo, la contingenza non basta a spiegare l'apertura della
Sinistra alle idee secessioniste e all'impulso rivoluzionario. Ci
sono sempre stati progressisti che hanno visto nelle stesse
dimensioni degli Stati Uniti l'origine del suo terribile e
distruttivo potere militare. Attraverso un letterale
ridimensionamento del “Pentagono del potere”, per parafrasare il
critico culturale Lewis Mumford, la capacità da parte degli USA di
arrecare danno al mondo verrebbe ridotta. Per gli oppositori alla
totale militarizzazione della vita degli statunitensi – dal
Presidente e sicario-capo ai programmi sociali solo per veterani –
la più grande vittoria per la pace sarebbe lo smantellamento della
struttura politica degli Stati Uniti.
La
fantasia della separazione nutre certamente la possibilità di uno
stato nazione progressista, socialdemocratico e portatore di pace –
un traguardo politico a lungo perseguito dalla Sinistra. Nel
visionario romanzo di Ernest Callenbach del 1975, Ecotopia,
questo tipo di invocata realtà alternativa viene dispiegato in tutta
la sua gloria. In una prosa maldestra, Callenbach crea un mondo
fantastico che ha come nucleo l'indipendenza politica del Nord-Ovest
– un'area che attualmente copre le zone costiere di tre stati,
California, Oregon e Washington. Il paese di Ecotopia ricorda
l'Olanda per il suo rispetto per la libertà sociale, la Svizzera per
l'assenza di coinvolgimenti in politica estera, e la Germania per
l'adozione di uno stile di vita Protestante ed eco-consapevole.
Nel
romanzo, un giornalista proveniente da ciò che resta degli Stati
Uniti visita Ecotopia vent'anni dopo la secessione “non tanto per
criticarla, quanto per comprenderla”. Il narratore, “un reporter
di questioni internazionali” di nome William Weston, arriva alla
conclusione, dopo un tour giornalistico di sei settimane, che “il
rischioso esperimento sociale che è stato condotto qui ha funzionato
a livello biologico”.
Weston
prosegue: “L'aria e l'acqua di Ecotopia sono ovunque limpide come
cristallo. […] Il cibo è abbondante, sano e diversificato. Tutte
le infrastrutture vitali operano a un livello di auto-sostentamento,
e possono così andare avanti all'infinito. La buona salute e il
generale benessere della popolazione sono innegabili”.
Ma
il narratore, che dopotutto è un cittadino degli Stati Uniti,
ammette che la realizzazione del sogno verde ha comportato un costo
enorme per quel che riguarda il livello materiale di esistenza. “I
consumi [sono] nettamente inferiori ai nostri [negli Stati Uniti], a
un livello che non sarebbe mai tollerato dagli americani in
generale,” scrive. E tuttavia la stessa sopravvivenza di Ecotopia
da' credibilità a chi afferma che “l'era dei grandi stati-nazione”
sia al tramonto, e che “il separatismo è desiderabile sia sul
piano ecologico sia su quello culturale”.
Enfatizzando
il ruolo di cultura e identità nella formazione di intese politiche
volte a promuovere la sostenibilità ambientale, Callenbach prefigura
il movimento del Nord Ovest che forma lo stato nazione “biodiverso”
di Cascadia, in modo del tutto simile a quello proto-secessionista
del Vermont. Questo stato, l'unico che porti regolarmente istanze
radicali nel Congresso, continua ad avere aspirazioni politiche
impossibili anche secondo la più liberale delle interpretazioni
degli “state's right”.
Nella
Burlington
Declaration del 2006 i fautori della Seconda Repubblica del
Vermont insistevano sul diritto a una secessione pacifica e sulla
centralità della “democrazia diretta” nelle decisioni politiche.
Richiamandosi a Jefferson e citando il principio di
autodeterminazione, i firmatari affermavano che “il popolo ha
diritto di mutarla o abolirla [la forma di governo] e di istituire un
nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri
nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua
Sicurezza e la sua Felicità”.
Alla
Terza Conferenza Statale sull'Autodeterminazione del Vermont [Third
Statewide Convention on Vermont Self-Determination], tenutasi il 14
settembre 2012 nella State House [sede del Parlamento] del Vermont a
Montpelier, è stato presentato il Manifesto
di Montpelier, a cui ha collaborato (tra molti altri) il
pensatore neo-luddista Kirkpatrick Sale e la romanziera Carolyn
Chute, autrice di The
Beans of Egypt, Maine
[13].
Il
manifesto mostra sin dall'incipit la sua impostazione:
Noi, cittadini di questa terra americana, tormentati dal nichilismo della separazione, dall'insignificanza, dall'impotenza, soggiogati [14] da élite politiche che utilizzano il potere statale, corporativo e militare per manipolare le nostre vite, pedine di un sistema globale di dominio e mistificazione nel quale mega-imprese transnazionali e un governo invasivo ci controllano tramite il denaro, i mercati e i media, logorando la nostra volontà politica, le libertà civili, la memoria collettiva, le culture tradizionali, la sostenibilità e l'indipendenza, rendendoci vittime della bulimia economica, della tecno-mania, della cyber-mania, del globalismo e dell'imperialismo...
E
si conclude con questo appello all'azione:
Cittadini, aggiungete il vostro nome a questo manifesto e partecipate al nobile compito di respingere l'immorale, corrotto, decadente, agonizzante, fatiscente Impero Americano, per perseguire un suo rapido e pacifico dissolvimento, prima che ci trascini con esso nella sua caduta.
I
ribelli di destra e di sinistra non sono del tutto inconsapevoli che
le loro passioni secessioniste hanno radici comuni, pur recando
frutti diversi. Per le ali estreme dello spettro politico, la
schiacciante inverosimiglianza di una secessione di chiunque da
qualsiasi cosa, destra o sinistra, nord o sud, non rende il dibattito
sulla secessione sciocco o irrilevante.
È
per mezzo di simili speculazioni che gli americani, qualsiasi sia la
loro tendenza politica, ricordano a se stessi che se si associano gli
uni cogli altri è per volontà loro, e che quell'accordo, per quanto
durevole, non è immutabile. In breve, i discorsi sulla secessione,
per quanto strambi e fantasiosi, suscitano dubbi necessari sulle idee
date fatalisticamente per scontate, ed evidenziano un aspetto
esistenziale nascosto ma non assente nello stato-nazione americano:
che l'unione è una scelta tanto quanto la separazione.
Questa
intuizione, sia pure ridicola agli occhi dei realisti, è carica di
importanti implicazioni per un tipo particolare di federalismo come
quello americano. Avendo permesso una tale diversità di leggi e
pratiche di governo tra i singoli stati – perfino al loro interno,
date le differenze tra città e contee – il sistema federale
americano non può che essere arricchito dal dibattito sui sogni di
secessione.
Il
“genio” di questo federalismo asimmetrico significa, nella sua
realizzazione pratica, che non esiste una singola realtà americana,
ma che gli americani, sia individualmente sia uniti in un corpo
politico istituzionale, possono riesaminare e ideare nuove strutture
politiche che rispondano a nuovi bisogni e desideri. In teoria ci
sono sempre poteri superiori – la Corte Suprema, il Presidente, il
Congresso – che possono surclassare le iniziative politiche sotto
il livello federale. E poi ci sono terreni, come la guerra e la
diplomazia, nei quali la pressione perché gli americani “parlino”
con una sola voce è grande, se non schiacciante. Tuttavia questi
campi sono l'eccezione, non la regola. Gli impulsi alla secessione
non sono mai del tutto sopiti nella cultura politica statunitense,
perché le tradizioni del federalismo asimmetrico – uno stato che
può fare in un certo campo qualcosa del tutto diversa da un altro –
sono talmente solide che gli americani danno per scontato un alto
grado di diversità nelle loro leggi, politiche pubbliche e forme di
amministrazione statale.
Che
il Colorado possa legalizzare la marijuana, mentre l'Arizona può
determinare una propria limitata politica per l'immigrazione, non
distoglie nessuno dei due dallo spingere i limiti della loro
sovranità ancora più oltre. Tollerando, addirittura incoraggiando i
diversi stati a intraprendere approcci radicalmente diversi
all'azione politica, gli Stati Uniti rendono il secessionismo meno
dannoso per il pubblico dibattito. Tuttavia, la stessa permissività
e promiscuità della pratica politica americana che rendono la
secessione più facile da immaginare, potrebbero anche rendere
tutt'altro che impossibile la sua realizzazione. Nello stato-nazione
unitario della Gran Bretagna, con le sue singole forze di polizia,
norme fiscali eccetera, la fuoriuscita della Scozia implicherebbe una
serie straordinaria di cambiamenti. Lo stesso non varrebbe per i
cittadini del Texas o del Vermont che già esercitano, secondo i
parametri degli stati nazione europei (se non del mondo intero), un
controllo insolitamente ampio sui loro affari.
Di
qui, il paradosso: l'esperienza dell'autodeterminazione spinge un
corpo politico a desiderarne di più o di meno?
G.
Pascal Zachary,
membro del Comitato di Redazione di In
These Times,
è autore di Married
to Africa: A Love Story e
The
Diversity Advantage: Multicultural Identity in the New World Economy.
Dal 1989 al 2001 è stato redattore capo al Wall
Street Journal.
Zachary ha contribuito a In
These Times per
più di vent'anni, e cura il blog
Africa
Works,
che tratta della politica economica nell'Africa sub-sahariana.
note
del traduttore
[1]
L'autore cita la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del
1776. La secessione, in questo caso, era nei confronti della Gran
Bretagna.
[2]
Queste petizioni, da presentarsi sul sito della Casa Bianca, non
hanno, ovviamente alcun valore legale, ma costituiscono una forma di
“comunicazione” tra pubblico e governanti. Occorre anche
ricordare che il Texas ha più di 25 milioni di abitanti, dei quali
più
di 13 sono elettori registrati. Incidentalmente, la petizione di
cui si parla nel testo contiene anche (almeno) un errore di
ortografia.
[3]
“La
Southern
Strategy,
campagna tesa alla conquista dell’elettorato del Sud, del Partito
Repubblicano, e di Nixon in particolare, mutuò gran parte del suo
arsenale retorico, con toni più moderati, proprio dai personaggi più
rappresentativi di questa regione nel dopoguerra: George Wallace e
Strom Thurmond. Questa strategia faceva leva su due argomentazioni
che trovavano molto ascolto fra la crescente middle-class
bianca del Sud e della Sunbelt,
ma che ben presto fecero breccia anche nel resto del paese: il
diritto delle comunità locali ad autogovernarsi e l’immagine dei
liberal
come un’élite
antipopolare.”
[Le
Radici e la presenza della Destra Americana]
[4]
L'Electoral College
è l'assemblea dei grandi elettori che scelgono il Presidente e il
Vice Presidente: “Gli Stati Uniti non eleggono direttamente il
presidente. Attraverso un sistema chiamato electoral
college (collegio elettorale),
infatti, ogni stato elegge con sistema prevalentemente maggioritario
– chi ha un voto in più li prende tutti – un gruppo di
cosiddetti “grandi elettori”, distribuiti in modo proporzionale
alla sua popolazione (e per questo periodicamente aggiustato). In
ogni stato, insomma, chi vince si prende tot grandi elettori e chi
perde zero: con quel tot variabile di stato in stato. (ci sono due
eccezioni, Maine e Nebraska, dove il maggioritario è applicato su
grandi circoscrizioni interne)
I
grandi elettori sono in tutto 538 – il collegio elettorale suddetto
– distribuiti sui 50 stati: questo vuol dire che ne servono almeno
270 per arrivare alla Casa Bianca. Per come funziona il sistema
maggioritario è possibile che un candidato possa ottenere la
maggioranza dei voti totali ma la minoranza dei grandi elettori, e
quindi perdere le elezioni. È successo due volte, la più recente e
celebre è quella del 2000, quando Al Gore ottenne lo 0,4 per cento
dei voti in più rispetto a George W. Bush, che però vinse tra i
grandi elettori grazie a una contestata decisione della Corte Suprema
sul voto in Florida.
Il
collegio elettorale si riunisce a dicembre e vota per il presidente
sulla base del risultato del voto dei singoli stati. I grandi
elettori non sono legalmente vincolati a votare come da esito del
voto e hanno solo un obbligo politico, che però è stato violato
rarissimamente nella storia degli Stati Uniti e mai in modo
determinante.” [Il
Post]
[5]
Anacoluti nell'originale. “Il potere è nel popolo [inherent in the
people]”: terminologia della Dichiarazione dei Diritti della
Virginia del 1776. Cfr. il testo
presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di
Torino.
[6]
Questi “diritti degli stati”, sanzionati dal X
Emendamento della Costituzione statunitense, riguardano ciò che
non viene espressamente delegato al governo federale e non viene
espressamente negato al governo locale (statale). Sorpresa, questo
principio è stato ripetutamente
utilizzato dai singoli stati per limitare le libertà civili
della popolazione. Insomma, come si permette il governo federale di
venirci
a dire come dobbiamo trattare i nostri negri?!
[7]
Inland Empire: è l'appellativo dato a una zona della California
meridionale che comprende San Bernardino e la Contea di Riverside
(per alcuni anche zone di Los Angeles e San Diego), che viene
giudicata (forse eccessivamente) come popolata da bigotti,
sottosviluppati, ignoranti e razzisti. [Urban
Dictionary]
[8]
Ricordiamo al lettore italiano che il Texas faceva parte del Messico
fino alla sua indipendenza del 1836 (l'arrivo di coloni
anglo-americani fu permesso a partire dal 1821). Tra alti e bassi, il
Messico aveva abolito la schiavitù nel 1829, e quindi il Texas
costituisce un unicum nella storia dell'Occidente, il solo
caso in tempi moderni in cui la schiavitù non sia stata abolita ma
re-instaurata. Ovviamente, durante la Guerra Civile il Texas era nel
novero degli stati schiavisti. Le vicende del Texas vanno viste nel
contesto delle mire imperialiste USA su tutta l'America Latina (la
dottrina Monroe). Cfr. Domenico Losurdo – Negazionismo
e Libertà di Ricerca ; Pierre Chaunu - L'America e le
Americhe. Storia di un Continente – Dedalo Libri – Bari 1969
[Google
Libri]
[9]
Political Theater: qui non si parla di Brecht, ma della politica
spettacolo che imbraccia argomenti e concetti sensazionalistici per
ottenere visibilità, oscurando le tematiche concrete e davvero
vitali per il pubblico. Tanto per fare un esempio, l'isterismo
statunitense sul fiscal
cliff.
[10]
“Any nation, so conceived...” È un frammento del discorso
tenuto a Gettysburg, durante la Guerra Civile, da Abraham Lincoln il
19 novembre 1863. La frase che lo contiene recita: “Ottantasette
anni or sono, i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una
nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio
secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali. Siamo ora impegnati
in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o
ogni altra nazione così concepita e così votata, possa durare a
lungo.”
[11]
Tema affascinantissimo,
per i suoi collegamenti col pensiero utopistico e con la tradizione
“secessionista” statunitense, nonché alla triste
vicenda dei comunisti in USA. Per non parlare dei sinistri
paralleli con le soluzioni “africane” concepite dai nazisti
all'inizio del percorso che avrebbe condotto alla Shoah.
[12]
L'originale (Arise ye
secessionists of the earth!)
parafrasa un verso dell'Internazionale (in una delle sue versioni
in inglese), ma visto che in italiano, storicamente, si è
affermata una traduzione molto
distante dall'originale francese, ho dovuto ricorrere a un
compromesso che ne rendesse il sapore “comunista”.
[13]
A dire il vero, la scrittrice non appare tra gli estensori ufficiali
del Manifesto. Il suo romanzo (che ha fatto paragonare l'autrice a
Faulkner) descrive l'esistenza miserabilissima di una famiglia di
bianchi poveri del Maine. Occorre meravigliarsi se Chute e il marito
sono fanatici
delle armi?
[14]
Soggiogati: il testo riporta “subsumed”, che si riferisce al
concetto marxiano di “sussunzione”
(“La sussunzione concepita da Marx è infatti sussunzione del
lavoro al capitale, e
la distinzione in cui si articola tra sussunzione formale e
sussunzione reale del lavoro al capitale, ricalcata sulla distinzione
kantiana tra sussunzione del particolare all’universale nel
giudizio riflettente e in quello determinante, serve a comprendere il
ciclo storico già compiuto attraverso il quale il capitale è giunto
ad assoggettare pienamente a sé il lavoro umano, riducendolo a mera
forza produttrice di plusvalore.”), ma “sussunti” non mi
sembrava un termine umanamente utilizzabile.
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