Il declino economico dell'Italia è cominciato ben prima di questa crisi.
E affonda le sue radici in un modello di sviluppo perdente, fatto di
precarietà e svalutazione del lavoro. Ecco perché c'è bisogno di più
sinistra non solo per difendere i diritti, ma anche per far ripartire
l'economia.
di Emilio Carnevali da Micromega
Nel
1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione
manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano
più della metà dell'intera flotta europea e solcavano i mari portando le
merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere
si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le
34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati
Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della
Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio
di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.
Il
primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna
sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la
filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds,
l'illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro
di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a
velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.
Pochi
decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era
già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già
compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La
leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica
– si apprestava a trasferirsi al di là dell'Atlantico. Cosa era mai
potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?
Il quesito
ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere
biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni
che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno
indubbiamente complesso.
Certamente ebbe un ruolo quello che
oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi.
Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più
alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire
molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione.
L'Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero
coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad
attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione
industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più
sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto
con la frontiera delle tecnologie più avanzate.
Anche il sistema
educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori.
L'insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto
dell'esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto
l'importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen
la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in
grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei
settori più all'avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer,
dell'elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli
imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi,
nacquero proprio nella seconda metà dell'Ottocento sotto la spinta di
quella poderosa accelerazione industriale.
Già nel 1913 la quota
dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro
il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo
secolo dell'egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e
dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).
Quale
lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico
inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale
considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche
l'Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico
cominciato ben prima di questa crisi. Anch'esso ha origine dalla scelta
di un modello di sviluppo perdente.
Tra il 2000 e il 2011 –
proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua
seconda esperienza di governo, prometteva l'avvento di un “nuovo
miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un
tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l'1,1% di Germania e
Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era
stata dell'1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell'arco
temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività
in Italia è diminuita in media dello 0.5% l'anno, un dato che non ha
eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.
Dunque,
non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande
Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita
dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media
nell'area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande
difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.
Quel
che è peggio, tanto per indulgere ancora un po' nel pessimismo, è che
le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le
previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati
Piigs, l'Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con
maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo
dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del
Pil che aveva nel 2007.
Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci
sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel
dettaglio l'economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci.
Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone
alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori
tradizionali e poco innovativi come l'alimentare, il tessile, le
calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese
(l'84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne
ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia
da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il
nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l'1,26% del Pil, contro
la media dell'Europa a 27 dell'1,9%, per non parlare delle
irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).
Si tratta
naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una
volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste
difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con
l'avvento dell'euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è
venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di
riequilibrare i conti con l'estero. Gli aggiustamenti sono stati
interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle
variazioni della produttività).
E allora ci siamo inventati una
“bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l'onere della nostra
competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual'era il disegno
strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro
che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti
dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la
singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo
modello si è persa l'occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida
della qualità e dell'innovazione, a investire nelle proprie aziende, in
quel capitale umano che è l'unico vero volano di sviluppo nelle moderne
economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le
nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi
con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della
Romania.
Fossimo l'impero inglese di fine Ottocento, almeno
avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere
il primato della nostra flotta. Invece siamo l'Italia del terzo
millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del
mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche
isola turistica...
Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il
lavoro e l'economia reale, che dovranno essere messi al centro
dell'iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei
diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più
prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le
vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci
investimenti nella scuola e nell'università, servizi pubblici e
infrastrutture adeguati.
Ha ragione il ministro della coesione
territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e
dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad
un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a
causa delle politiche di austerity imposte dall'Europa e di cui lo
stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste
politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna
europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione,
peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di
più la recessione.
Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino
comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che
dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o
3 mesi). E questa è materia propria dell'arte della politica. Di una
politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo
sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla
disperazione sociale di un paese in ginocchio.
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