venerdì 21 agosto 2015

Elogio dell'antiamericanismo (1 - 4)

di Domenico Losurdo da kelebekler.com
 

Dal sito di Fisicamente.net, dove troviamo questa premessa: "ringraziamo Critica Marxista e Domenico Losurdo per averci autorizzato a pubblicare questo importante saggio."

1. Mito e realtà dell'antiamericanismo di sinistra

L'ultima guerra contro l'Irak è stata accompagnata da un singolare fenomeno ideologico; si è cercato di mettere a tacere il movimento di protesta di un'ampiezza senza precedenti, che in tale occasione si è sviluppato, lanciando contro di esso l'accusa di antiamericanismo. E questo, più ancora che come un atteggiamento politico errato, è stato dipinto e viene tuttora dipinto, in previsione delle nuove guerre che si profilano all'orizzonte, come un morbo, come un sintomo di disadattamento rispetto alla modernità e di sordità alle ragioni della democrazia.

Tale morbo – si afferma – accomuna antiamericani di sinistra e di destra e caratterizza le pagine peggiori della storia europea; e dunque – si conclude – criticare Washington e la guerra preventiva non promette nulla di buono. Sarebbe facile replicare richiamando l'attenzione sull'antieuropeismo che sta montando dall'altra parte dell'Atlantico e che ha una lunga tradizione alle spalle. Dà soprattutto da pensare che in questo clima ideologico e politico, nessuno ricorda più il terrore scatenato dal Ku Klux Klan, in nome della difesa del «puro americanismo» ovvero dell'«americanismo al cento per cento», contro i neri e i bianchi colpevoli di mettere in discussione la white supremacy (in MacLean 1994, 4-5, 14).

Dileguata dalla memoria è anche la caccia maccartista alle streghe sospettate di nutrire idee o sentimenti un-american . Ma interroghiamoci sulla questione principale. Ha un qualche fondamento storico la tesi della convergenza, in chiave antidemocratica, dell'antiamericanismo di sinistra e di destra? In realtà, il giovane Karl Marx definisce gli Stati Uniti come il «paese dell'emancipazione politica compiuta», ovvero come «l'esempio più perfetto di Stato moderno», il quale assicura il dominio della borghesia senza escludere a priori alcuna classe sociale dal godimento dei diritti politici (cfr. Losurdo 1993, 21-2).

Già qui si può notare una certa indulgenza: più che essere assente, negli Stati Uniti la discriminazione censitaria assume una forma «razziale». Ancora più sbilanciato in senso filo-americano è l'atteggiamento di Engels. Dopo aver distinto tra «abolizione dello Stato» in senso comunista, in senso feudale, o in senso borghese, egli aggiunge: «Nei paesi borghesi l'abolizione dello Stato significa la riduzione del potere statale al livello del Nord-America. Qui i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l'emigrazione all'Ovest della sovrappopolazione proletaria. L'intervento del potere statale, ridotto ad un minimo ad Est, non esiste affatto ad Ovest» (Marx-Engels 1955, VII, 288).

Oltre che di abolizione dello Stato (sia pure in senso borghese), l'Ovest sembra essere sinonimo di ampliamento della sfera della libertà: non c'è cenno alla sorte riservata ai pellerossa, così come si tace della schiavitù dei neri. Analogo è l'orientamento dell' Origine della famiglia , della proprietà privata e dello Stato : gli Stati Uniti vengono indicati come il paese in cui, almeno per certi periodi della sua storia e certe parti del suo territorio, l'apparato politico e militare separato dalla società tende a ridursi a zero (Marx-Engels 1955, XXI, 166). Siamo nel 1884: in questo momento, i neri non solo vengono privati dei diritti politici conquistati immediatamente dopo la guerra di Secessione, ma sono costretti ad un regime di apartheid e sottoposti ad una violenza che giunge sino alle forme più efferate di linciaggio.

Nel Sud degli USA, era forse debole lo Stato, ma era tanto più forte il Ku Klux Klan, espressione certo della società civile, la quale, però, può essere essa stessa il luogo dell'esercizio del potere, e di un potere anche brutale. Proprio l'anno prima della pubblicazione del libro di Engels, la Corte Suprema aveva dichiarato incostituzionale una legge federale che pretendeva di vietare la segregazione dei neri sui luoghi di lavoro o sui servizi (le ferrovie) gestiti da compagnie private, per definizione sottratti ad ogni interferenza statale.

E' soprattutto importante notare che, sul piano della politica internazionale, Engels sembra riecheggiare l'ideologia del Manifest Destiny , come emerge dalla celebrazione della guerra contro il Messico: grazie anche al «valore dei volontari americani», «la splendida California è stata strappata agli indolenti messicani, i quali non sapevano cosa farsene»; mettendo a profitto le nuove gigantesche conquiste, «gli energici Yankees» danno nuovo impulso alla produzione e alla circolazione della ricchezza, al «commercio mondiale», alla diffusione della «civiltà» ( Zivilisation ) (Marx-Engels 1955, VI, 273-5).

A Engels sfugge un fatto denunciato invece con forza, in quello stesso periodo di tempo, dai circoli abolizionisti statunitensi: l'espansione degli Stati Uniti aveva significato un'espansione dell'istituto della schiavitù. Per quanto riguarda la storia del movimento comunista propriamente detto, è noto il fascino che taylorismo e fordismo esercitano su Lenin e Gramsci. Ancora oltre va Bucharin nel 1923: «Abbiamo bisogno di sommare l'americanismo al marxismo» (in Figes 2003, 24).

Un anno dopo, al paese che pure ha partecipato all'intervento contro la Russia sovietica Stalin sembra guardare con tanta simpatia da rivolgere un significativo appello ai quadri bolscevichi: se vogliono essere realmente all'altezza dei «principi del leninismo», devono saper assimilare «lo spirito pratico americano». «Americanismo» e «spirito pratico» stanno qui a significare non solo concretezza ma anche insofferenza per i pregiudizi, rinviano in ultima analisi alla democrazia. Come Stalin chiarisce nel 1932: gli Stati Uniti sono certo un paese capitalistico; tuttavia, «le tradizioni nell'industria e nella prassi produttiva hanno qualcosa del democratismo, ciò che non si può dire dei vecchi paesi capitalistici dell'Europa, dove è ancora vivo lo spirito signorile dell'aristocrazia feudale» (cfr. Losurdo 1997, 81-6).

A suo modo Heidegger ha ragione allorché rimprovera a Stati Uniti e Unione Sovietica di rappresentare da un punto di vista metafisico, il medesimo principio, consistente nello scatenamento della tecnica e nella «massificazione dell'uomo» (Losurdo 1991 a, 90). Non c'è dubbio che i bolscevichi si sentono fortemente attratti dall'America del melting pot e del self made man .

Altri aspetti, invece, risultano ai loro occhi decisamente ripugnanti. Nel 1924, Correspondance Internationale (la versione francese dell'organo dell'Internazionale Comunista) pubblica l'articolo di un giovane indocinese approdato negli USA, il quale, mentre nutre ammirazione per la rivoluzione americana, prova orrore per la pratica del linciaggio che nel Sud colpisce i neri. Uno di questi spettacoli di massa viene descritto in modo impietoso:
«Il nero viene messo a cuocere, è abbrustolito, bruciato. Ma egli merita di morire due volte piuttosto che una sola volta. Pertanto egli viene impiccato, più esattmente è sottoposto a impiccagione ciò che resta del suo cadavere… Quando tutti sono sazi, il cadavere viene tirato giù. La corda è tagliata in piccoli pezzi, venduti da tre a cinque dollari l'uno». E, tuttavia, lo sdegno per il regime di white supremacy non sfocia affatto in una condanna indiscriminata degli Stati Uniti: sì, il Ku Klux Klan rivela tutta «la brutalià del fascismo», ma esso finirà con l'essere sconfitto, oltre che dai neri, ebrei e cattolici (le vittime a vario livello di questa brutalità), da «tutti gli americani decenti» (in Wade, 1997, 203-4). Non siamo certo in presenza di un antiamericanismo indifferenziato. 



2. Uno «splendido Stato del futuro»
Sì, il giovane indocinese assimila il Ku Klux Klan al fascismo. Epperò, le somiglianze tra i due movimenti non sfuggono ai testimoni americani del tempo. Non poche volte, con giudizio di valore positivo o negativo, essi paragonano gli uomini in divisa bianca del sud degli Stati Uniti alle «camice nere» italiane e alle «camice brune» tedesche. Dopo aver richiamato l'attenzione sui tratti comuni al Ku Klux Klan e al movimento nazista, una studiosa statunitense dei giorni nostri ritiene di poter giungere a questa conclusione:
«Se la Grande depressione non avesse colpito la Germania con tutta la forza con cui in effetti la colpì, il nazionalsocialismo potrebbe essere trattato come talvolta viene trattato il Ku Klux Klan: come una curiosità storica, il cui destino era già segnato» (MacLean 1994, 184).
E cioè, più che la diversa storia ideologica e politica, a spiegare il fallimento dell'Invisible Empire negli Stati Uniti e l'avvento del Terzo Reich in Germania sarebbe il diverso contesto economico. Può darsi che questa affermazione sia eccessiva. Epperò, quando, per mettere a tacere le critiche contro la politica di Washington, si ricorda il contributo essenziale che gli Stati Uniti, assieme ad altri paesi (a cominciare dall'Unione Sovietica) hanno dato alla lotta contro la Germania hitleriana e i suoi alleati, si dice solo una parte della verità; l'altra parte è costituita dal ruolo notevole che i movimenti reazionari e razzisti americani hanno svolto nell'ispirare e alimentare in Germania l'agitazione da ultimo sfociata nel trionfo di Hitler.
Già negli anni '20, tra il Ku Klux Klan e i circoli tedeschi di estrema destra si stabiliscono rapporti di scambio e di collaborazione all'insegna del razzimo anti-nero e antiebraico. Ancora nel 1937, Rosenberg celebra gli Stati Uniti come uno «splendido paese del futuro»: esso ha avuto il merito di formulare la felice «nuova idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere in pratica, «con forza giovanile», mediante espulsione e deportazione di «negri e gialli» (Rosenberg 1937, 673). Basta dare uno sguardo alla legislazione varata subito dopo l'avvento del Terzo Reich, per rendersi conto delle analogie con la situazione esistente nel Sud degli Stati Uniti: ovviamente, in Germania sono in primo luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli afro-americani.
Hitler si preoccupa di distinguere nettamente, anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto a quella degli ebrei nonché dei pochi mulatti viventi in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe di colore al seguito dell'esercito francese avevano partecipato all'occupazione del paese). «La questione negra» - scrive sempre Rosenberg - «è negli Usa al vertice di tutte le questioni decisive»; e una volta che l'assurdo principio dell'uguaglianza sia stato cancellato per i neri, non si vede perché non si debbano trarre «le necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei» (Rosenberg 1937, 668-9).
Tutto ciò non deve stupire. Elemento centrale del programma nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene, quali erano in quel momento i possibili modelli? Certo, Rosenberg fa riferimento anche al Sud-Africa: è bene che permanga saldamente «in mano nordica» e bianca (grazie a opportune «leggi» a carico, oltre che degli «indiani», anche di «neri, mulatti e ebrei»), e che costituisca un «solido bastione» contro il pericolo rappresentato dal «risveglio nero» (Rosenberg 1937, 666).
Ma l'ideologo nazista sa in qualche modo che la legislazione segregazionista del Sud-Africa è stata largamente ispirata dal regime di white supremacy , messo in atto nel sud degli Stati Uniti dopo la fine della Ricostruzione (Noer 1978, 106-7, 115, 125). E, dunque, rivolge il suo sguardo in primo luogo a questa realtà. D'altro canto, è anche per un'altra ragione che la repubblica d'oltre Atlantico costituisce un motivo di ispirazione per il Terzo Reich.
Hitler mira non ad un espansionismo coloniale generico bensì alla costruzione di un Impero continentale, mediante l'annessione e la germanizzazione dei territori orientali immediatamente contigui al Reich. La Germania è chiamata a espandersi in Europa orientale come in una sorta di Far West, trattando gli «indigeni» alla stregua dei pellerossa (Losurdo 1996, 212-6) e senza mai perdere di vista il modello americano, di cui il Führer celebra «l'inaudita forza interiore» (Hitler 1939, 153-4). Subito dopo averla invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia: una parte è direttamente incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono espulsi i polacchi); il resto costituisce il «Governatorato generale» nell'ambito del quale – dichiara il governatore generale Hans Frank – i polacchi vivono come in «una sorta di riserva»: sono «sottoposti alla giurisdizione tedesca» senza essere «cittadini tedeschi» (in Ruge-Schumann 1977, 36). Il modello americano è qui seguito persino in modo scolastico: non possiamo non pensare alla condizione dei pellerossa. 

 3. Lo Stato razziale tra Stati Uniti e Germania
E' un modello che lascia traccia profonde anche a livello categoriale e linguistico. Il termine Untermensch , che un ruolo così centrale e così nefasto svolge nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro che la traduzione di Under Man .
Lo riconosce Rosenberg, il quale esprime la sua ammirazione per l'autore statunitense Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato il termine in questione, che campeggia come sottotitolo ( The Menace of the Under Man ) di un libro pubblicato a New York nel 1922 e della sua versione tedesca ( Die Drohung des Untermenschen ) apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato, Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa di «selvaggi e barbari», «essenzialmente incapaci di civiltà e suoi nemici incorreggibili», coi quali bisogna procedere ad una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo che incombe di crollo della civiltà.
Elogiato, prima ancora che da Rosenberg, già da due presidenti statunitensi (Harding e Hoover), l'autore americano è successivamente ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo gli esponenti più illustri dell'eugenetica nazista, ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf Hitler , ormai lanciato nella sua campagna di decimazione e schiavizzazione degli Untermenschen , ovvero degli «indigeni» dell'Europa orientale. Negli Stati Uniti della white supremacy così come nella Germania in cui prende sempre più piede il movimento sfociato poi nel nazismo, il programma di ristabilimento delle gerarchie razziali si salda strettamente col progetto eugenetico.
Si tratta in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori, in modo da sventare il pericolo di «suicidio razziale» ( Rasseselbstmord ) che incombe sui bianchi: a suonare l'allarme è, nel 1918, Oswald Spengler, il quale però, a tale proposito, si richiama all'insegnamento di Theodore Roosevelt (Spengler 1980, 683). E, in effetti, nello statista americano, l'evocazione dello spettro del «suicidio razziale» ( race suicide ) ovvero della «umiliazione razziale» ( race humiliation ) va di pari passo con la denuncia della «diminuzione delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell'ambito dell'antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente, il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa ma ai Wasp (cfr. Roosevelt 1951, I, 487 nota 4, 647, 1113; Roosevelt 1951, II, 1053).
Si tratta, altresì, di scavare un abisso incolmabile tra razza dei servi e razza dei signori, depurando quest'ultima degli elementi di scarto e mettendola in condizione di affrontare e stroncare la rivolta servile che, sull'onda della rivoluzione bolscevica, si sta delineando a livello planetario. Anche in questo caso, una ricerca storica spregiudicata conduce a risultati sorprendenti. Erbgesundheitslehre ovvero Rassenhygiene , un'altra parola-chiave dell'ideologia nazista, non è altro, in ultima analisi, che la traduzione tedesca di eugenics , la nuova scienza inventata in Inghilterra nella seconda metà dell'Ottocento da Francis Galton e che, non a caso, conosce i suoi massimi trionfi negli Stati Uniti: qui è più che mai acuto il problema del rapporto tra le «tre razze» e tra «nativi» da un lato e massa crescente di immigrati poveri dall'altro. Ben prima dell'avvento di Hitler al potere, alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, vede la luce a Monaco un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come modello di «igiene razziale».
L'autore, vice-console dell'Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Stati Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion pratica» di cui danno prova nell'affrontare, e con la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente rimosso: violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali inter-razziali può comportare anche 10 anni di reclusione e, ad essere condannabili, oltre ai protagonisti , sono anche i loro complici (Hoffmann 1913, IX, 67-8). Dieci anni dopo, nel 1923, un medico tedesco, Fritz Lenz, si lamenta del fatto che, per quanto riguarda l'«igiene razziale», la Germania è ben addietro rispetto agli USA (Lifton 1986, 29).
Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo, gli ideologi e “scienziati” della razza continuano a ribadire: «Anche la Germania ha molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno il fatto loro» (Günther 1934, 465). Le misure eugenetiche varate subito dopo la Machtergreifung mirano a sventare il pericolo della «Volkstod» (Lifton 1986, 30), della «morte del popolo» o della razza. E di nuovo siamo ricondotto al tema del «suicidio razziale». Per sventare il pericolo del suicidio della razza bianca, che sarebbe poi il suicidio della civiltà, non bisogna esitare alle misure più energiche, alle soluzioni più radicali, nei confronti delle «razze inferiori» ( inferior races ): se una di esse – tuona Theodore Roosevelt - dovesse aggredire la razza «superiore» ( superior ), questa reagirebbe con «una guerra di sterminio» ( a war of extermination ), chiamata «mettere a morte uomini, donne e bambini, esattamente come se si trattasse di una Crociata» (Roosevelt 1951, II, 377). Significativamente, ad una vaga «ultimate solution» della questione nera accenna un libro apparso a Boston nel 1913 (Fredrickson, 1987, 258 nota); più tardi, invece, i nazisti teorizzeranno e cercheranno di mettere in pratica la «soluzione finale» ( Endlösung ) della questione ebraica. 
  
4. Il nazismo come progetto di white supremacy a livello planetario
Nel corso di tutta la loro storia, gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare in modo diretto i problemi derivanti dall'incontro con “razze” diverse e con la massa di immigrati provenienti da ogni angolo del mondo. D'altro canto, il furibondo movimento razzista che si sviluppa alla fine dell'Ottocento è la risposta alla grande rivoluzione rappresentata dalla guerra di Secessione e dal periodo di Ricostruzione radicale.
Mentre gli ex-proprietari schiavisti sono momentaneamente privati dei diritti politici in quanto ribelli, i neri passano dalla condizione di schiavitù alla piena cittadinanza politica; non poche volte, entrano a far parte degli organismi rappresentativi, divenendo così in qualche modo legislatori e dirigenti dei loro ex-padroni. Diamo ora uno sguardo alle esperienze e alle emozioni, che sono alle spalle dell'agitazione sfociata poi nel nazismo.
Se tra Otto e Novecento il Ku Klux Klan e i teorici della white supremacy bollano gli Stati Uniti scaturiti dall'abolizione della schiavitù e dalla massiccia ondata di immigrati provenienti ora anche dall'Oriente o da paesi ai margini dell'Europa come una «civiltà bastarda» (MacLean 1994, 133) o come una «cloaca gentium» (Grant 1917, 81) , l'Austria nella quale il futuro leader nazista si forma, gli appare, nel Mein Kampf , come un caotico «conglomerato di popoli», come una «babilonia di popoli» ovvero un «regno babilonico», lacerato da un «conflitto razziale» (Hitler 1939, 74, 79, 39, 80), che sembra doversi concludere con una catastrofe: avanza il processo di «slavizzazione» e di «cancellazione dell'elemento tedesco» ( Entdeutschung ), col tramonto quindi della superiore razza che aveva colonizzato l'Oriente e vi aveva apportato la civiltà (Hitler 1939, 82).
La Germania dove poi Hitler approda conosce, in seguito alla disfatta della prima guerra mondiale, sconvolgimenti senza precedenti, paragonabili in qualche modo a quelli verificatisi nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione: ben al di là della perdita delle loro colonie, i tedeschi sono costretti a subire l'occupazione militare delle truppe di colore al seguito delle potenze vincitrici.
Ora, a giudicare sempre dal Mein Kampf , anche la Germania si è trasformata in un «miscuglio razziale» (Hitler 1939, 439). Ad acuire la sensazione del pericolo di un definitivo tramonto della civiltà provvede poi la rivoluzione d'Ottobre che, rivolgendo ai popoli coloniali l'appello a ribellarsi, sembra sancire ideologicamente l'«orrore» dell'occupazione militare nera; per di più essa scoppia e giunge al potere in un'area abitata da popoli tradizionalmente considerati ai margini della civiltà.
Come nel Sud degli Stati Uniti gli abolizionisti vengono bollati come rinnegati della propria razza ovvero quali negro-lovers , così traditori della razza germanica e occidentale appaiono agli occhi di Hitler prima i socialdemocratici e poi, a maggior ragione, i comunisti. In ultima analisi, il Terzo Reich si presenta come il tentativo, portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra civile internazionale, di reagire al pericolo del tramonto e del suicidio razziale dell'Occidente e della razza superiore, realizzando un regime di white supremacy su scala planetaria e sotto egemonia tedesca.

segue...
 

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