A poco più di un anno dalla pubblicazione sul Financial Times del “monito degli economisti”,
la forbice tra paesi creditori e debitori continua ad allargarsi e potrebbe rendere insostenibile l’attuale assetto dell’Unione monetaria europea.
Apriamo una discussione a partire da un testo di Brancaccio, uno dei promotori del “monito”, che solleva il problema del “che fare”
di fronte alla prospettiva di una implosione della moneta unica.
La forbice macroeconomica che da tempo squarcia l’eurozona non
sembra affatto destinata a richiudersi. Stando agli ultimi dati
della Commissione europea,gli andamentidei redditi e dei livelli di
occupazione nei diversi paesi membri dell’eurozona non mostrano
tangibili segni di avvicinamento dopo la lunga divergenza che si è
registrata negli anni passati. Alla fine del 2014 il numero degli
occupati in Germania dovrebbe segnare un incrementodi due milionie
duecentomila unità rispetto al 2007. Di contro, nello stesso
arco di tempo Spagna, Italia, Grecia, Portogallo, Irlanda e Francia
si ritroveranno con una perdita complessiva di quasi sei milioni e
duecentomila posti di lavoro1.
La divaricazione dei redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il 2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22 percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è un caso che i recenti “stress test” coordinatidalla Banca centrale europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani. Il risultato dipende da diversi fattori, ma in buona misura riflette semplicemente la voragine macroe-conomica che si è aperta in questi anni tra i membri dell’eurozona, in particolare tra i due paesi in questione: dal 2007 al 2014 oltre quat- tordici punti di differenza nella crescita reale dei Pil tedesco e italiano. Sono scarti che non hanno precedenti in epoca di pace, e che preannunciano nuove crisi bancarie. I dati più recenti sembrano dunque confermare lo scenario tratteggiato poco più di un anno fa dal Monito degli economisti pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013 (www.theeconomistswarning. com)3. Il documento evidenzia «una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea». Sotto accusa sono le scelte delle autorità europee e nazionali «che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessionee all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione». Il problema principale, secondo i firmatari del Monito, risiede nel fatto che «le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro»4. Pensare oggi che i soli paesi debitori possano accollarsi l’onere del riequilibrio a colpi di austerity, ulteriori riduzioni delle tutele del lavoro e flessibilità salariale verso il basso, significa pretendere da questi una restrizione dei bilanci pubblici e una caduta dei salari e dei prezzi «di tale portata da determinareun crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee». Il documento si chiude dunque con una previsione netta: proseguendo con le attuali politiche economiche «il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo». Di conseguenza, presto o tardi, «ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
La divaricazione dei redditi e dell’occupazione contribuisce poi a creare faglie più profonde, di carattere strutturale, che riguardano i livelli di solvibilità dei capitali industriali e bancari dei diversi paesi dell’area euro. L’ultimo rapporto di Credit Reform segnala che tra il 2008 e il 2013 le insolvenze annue delle imprese sono aumentate del 22 percento in Francia, del 77 percento in Irlanda, del 120 percento in Italia, del 185 percento in Portogallo e del 2542 percento in Spagna, laddove in Germania nello stesso periodo sono diminuite dell’11 percento. Si tratta di un divario eccezionale, che inevitabilmente si ripercuote sui bilanci degli istituti bancari. Non è un caso che i recenti “stress test” coordinatidalla Banca centrale europea abbiano evidenziato uno scarto superiore alle attese tra gli indici di robustezza patrimoniale delle banche dei diversi paesi dell’eurozona, in particolare tra istituti tedeschi e italiani. Il risultato dipende da diversi fattori, ma in buona misura riflette semplicemente la voragine macroe-conomica che si è aperta in questi anni tra i membri dell’eurozona, in particolare tra i due paesi in questione: dal 2007 al 2014 oltre quat- tordici punti di differenza nella crescita reale dei Pil tedesco e italiano. Sono scarti che non hanno precedenti in epoca di pace, e che preannunciano nuove crisi bancarie. I dati più recenti sembrano dunque confermare lo scenario tratteggiato poco più di un anno fa dal Monito degli economisti pubblicato sul Financial Times il 23 settembre 2013 (www.theeconomistswarning. com)3. Il documento evidenzia «una serie di contraddizioni nell’assetto istituzionale e politico dell’Unione monetaria europea». Sotto accusa sono le scelte delle autorità europee e nazionali «che, contrariamente agli annunci, hanno contribuito all’inasprimento della recessionee all’ampliamento dei divari tra i paesi membri dell’Unione». Il problema principale, secondo i firmatari del Monito, risiede nel fatto che «le politiche deflattive praticate in Germania e altrove per accrescere l’avanzo commerciale hanno contribuito per anni, assieme ad altri fattori, all’accumulo di enormi squilibri nei rapporti di debito e credito tra i paesi della zona euro»4. Pensare oggi che i soli paesi debitori possano accollarsi l’onere del riequilibrio a colpi di austerity, ulteriori riduzioni delle tutele del lavoro e flessibilità salariale verso il basso, significa pretendere da questi una restrizione dei bilanci pubblici e una caduta dei salari e dei prezzi «di tale portata da determinareun crollo ancora più accentuato dei redditi e una violenta deflazione da debiti, con il rischio concreto di nuove crisi bancarie e di una desertificazione produttiva di intere regioni europee». Il documento si chiude dunque con una previsione netta: proseguendo con le attuali politiche economiche «il destino dell’euro sarà segnato: l’esperienza della moneta unica si esaurirà, con ripercussioni sulla tenuta del mercato unico europeo». Di conseguenza, presto o tardi, «ai decisori politici non resterà altro che una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Centralizzazione e crisi bancarie
Il Monito degli economisti è stato sottoscritto da alcuni tra i principali esponenti della comunità ac- cademica internazionale, appartenenti a scuole di pensiero molto diverse tra loro: Dani Rodrik, James Galbraith, Wendy Carlin, Alan Kirman , Heinz Kurz, Tony Thirlwall, Mauro Gallegati, Dimi- tri Papadimitriou e molti altri. Il fatto che sul documento siano confluiti rappresentanti di filoni di ricerca così eterogenei costituisce evidentemente un punto di forza, un potenziale indizio circa la bontà delle sue previsioni. Tale prerogativa, d’altro canto, non impedisce di leggere il testo in base a uno specifico paradigma di ricerca.
Il riferimento
immediato, peraltro citato nel testo, è ovviamente il Keynes
oppositore del Trattato di Versailles e critico delle politiche
deflazioniste. Sotto questa prospettiva il Monito riflette la tesi
secondo cui la deflazione in ultima istanza deprime i redditi e
rende quindi più difficile il rimborso dei debiti. Più in
profondità, tuttavia, il Monito può essere interpretato
rinviando anche all’analisi marxista, e in particolare ad alcuni
studi recenti dedicati a quella tendenza che Marx e Hilferding
definivano «centralizzazione dei capitali»5. Per Marx, come è
noto, la centralizzazione consiste nel fatto che, sebbene la
produzione capitalistica veda le imprese contrapposte l’una
all’altra come produttrici di merci reciprocamente indipendenti
e la competizione capitalistica si presenti di norma come
«ripulsione reciproca di molti capitali individuali», è
possibile rilevare un’opposta tendenza alla «concentrazione di
capitali già formati» e dunque al superamento della loro
autonomia individuale, che si realizza mediante l’«espropriazione
del capitalista ad opera del capitalista, della trasformazione di
molti capitali minori in pochi capitali più grossi»: vale a
dire, mediante uscite dal mercato dei capitali più deboli,
liquidazioni, acquisizioni, fusioni, e così via. La tendenza alla
centralizzazione, oltretutto, può ricevere spinte ulteriori
dall’azione delle autorità di politica economica. È stato
osservato, in particolare, che il banchiere centrale può
contribuire a fissare «condizioni di solvibilità»
particolarmente restrittive per i capitali in lotta tra loro, e
per questa via può aggravare la posizione dei capitali più
deboli e accelerare il processo di centralizzazione6. Ebbene, non
è difficile rilevare che l’intera architettura dell’Unione
monetaria europea risulta preposta a favorire questa tendenza. Già
prima della crisi si registravano importanti fenomeni di
accorpamento dei capitali, specialmente in campo bancario. Si
trattava tuttavia di dinamiche in larga misura confinate entro i
perimetri dei singoli paesi. Dopo la crisi, invece, si assiste a
un salto di qualità del processo di centralizzazione. La
divaricazione delle insolvenze, i relativi processi di
desertificazione produttiva e le connesse, crescenti difficoltà
delle banche nelle periferie dell’Unione, preannunciano una
nuova crisi bancaria e una nuova fase di liquidazioni e
acquisizioni, questa volta non più interne ai confini nazionali
ma realizzate su scala europea. Il passaggio di fase, del resto, è
intrinseco agli indirizzi politici correnti. Dall’azione del
banchiere centrale che, contrariamente alla vulgata, contribuisce
a fissare condizioni di solvibilità tutt’altro che accomodanti
per le periferie europee; alla politica fiscale nazionale, che si
fa più restrittiva proprio nei paesi in maggiore sofferenza; fino
alla decisiva unione bancaria, che esclude forme di assicurazione
europea sui depositi, dispone di risorse limitatissime per
fronteggiare nuove crisi bancarie e si costituisce esplicitamente
con lo scopo di liquidare gli istituti più deboli: insomma, ogni
elemento della governance europe a sembra voler preludere a una
escalation del processo di centralizzazione capitalistica. Vale a
dire, a una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili
dislocat i soprattutto nel Sud Europa e i capitali più forti
situati prevalentemente in Germania. Potremmo definirla, in
sostanza, una forma particolarmente violenta di
“mezzogiornificazione europea”: ossia, una riproduzione su
scala continentale del dualismo che ha storicamente condizio- nato
i rapporti tra Settentrione e Meridione d’Italia.
Messo in questi termini sembra un processo inesorabile, una
sorta di «grande meccanismo della Storia», come lo definirebbe
un celebre interprete di Shakespeare7. Ma non è così. Contro le
semplificazioni di alcuni suoi epigoni, bisognerebbe ricordare che
per Marx la «legge di tendenza» alla centralizzazione è
ostacolata da continue «controtendenze», e quindi non può mai
esser considerata un processo rigidamente lineare. La
centralizzazione capitalistica oggettivamente avanza ma il suo
progresso storico è tormentato, è fatto di accelerazioni,
contraccolpi, temporanee marce indietro, e soprattutto di continue
creazioni e distruzioni degli assetti istituzionali votati a
favorirla. La consapevolezza di questa dinamica irregolare è
tanto più necessaria quando si esamina la crisi dell’eurozona.
È infatti possibile mostrare che, nello scenario deflazionistico
che l’assetto politico istituzionale dell’Unione favorisce, le
liquidazioni di capitale da parte dei paesi debitori non risolvono
lo squilibrio con i paesi creditori ma anzi possono addirittur a
aggravarlo. Infatti, quanto più intensa sia la deflazione, tanto
meno la vendita di capitale all’estero potrà contribuire al
soddisfacimento delle condizioni di solvi bilità 8.
L’implicazione è chiara: l’Unione monetaria euro- pea,
favorendo la centralizzazione dei capitali, di fatto non riduce ma
può persino accrescere gli squilibri tra paesi creditori e paesi
debitori, e in tal modo contribuisce a scavare la sua stessa
fossa. Alle tradizionali problematiche keynesiane sugli effetti
perversi della deflazione, dunque, l’analisi della
centralizzazione capitalistica offre ulteriore supporto alla
previsione del monito degli economisti sui destini dell’eurozona.
Lo studio della crisi dell’area euro dal punto di vista dei
processi di centralizzazione dei capitali costituisce in parte una
novità per la ricerca economica. È bene chiarire, tuttavia, che
i problemi di tenuta dell’eurozona che abbiamo fin qui
tratteggiato sono oggi in larga parte riconosciuti dalla stra-
grande maggioranza degli economisti. Nel campo della teoria pura
Paul Krugman li ha recentemente riproposti sotto il nome di
“paradosso della flessibilità”9. Sul versante della politica
economica, pur tra numerose contraddizioni, persino il Fondo
Monetario Internazionale ha dovuto ammettere che quei problemi
sono tutt’altro che risolti e in tal senso ha espressamente
evocato il rischio di un «breakup» dell’eurozona10. Potremmo
dire, in un certo senso, che la tesi del monito degli economisti
secondo cui l’eurozona sta procedendo lungo un sentiero
insostenibile costituisce ormai la posizione prevalente, almeno
tra gli studiosi. Non è un caso, del resto, che i critici di
questa tesi solitamente evitino di attaccare le sue basi logiche.
Di norma essi preferiscono obiettare sostenendo che è ancora
possibile realizzare un significativo cambiamento negli indirizzi
di politica economica europea, un nuovo corso che finalmente
inverta le tendenze divergenti in atto e in un modo o nell’altro
riporti in equilibrio i rapporti di credito e debito interni
all’eurozona. Almeno fino a qualche tempo fa questa posizione
non pareva del tutto idealistica: qualche ragione materiale per
avanzarla effettivamente c’era. Tuttavia, man mano che gli anni
passano e la crisi si inasprisce, questo tipo di argomentazione si
fa più flebile, perde la sua forza persuasiva. Bisogna
riconoscere, infatti, che all’interno delle istituzioni europee
è risultato finora impossibile anche solo approssimarsi a un
consenso diffuso nei confronti di qualsiasi ipotesi di riforma,
dalle più ambiziose come lo “stan- dard retributivo europeo”11
a quelle più blande come un allentamento almeno temporaneo dei
vincoli di bilancio nazionali. La stessa politica monetaria della
Bce si è rivelata finora molto più conservatrice di quanto ci si
attendesse guardando alle recenti esperienze di altri paesi. I
dissidi politici in seno all’establishment europeo, tra l’altro,
negli ultimi tempi si sono ulteriormente accentuati. Il motivo in
fin dei conti è semplice: perché mai la Germania e gli altri
paesi che stanno traendo vantaggi relativi dalle attuali dinamiche
dovrebbero contribuire a modificarle? In altre parole, le
divergenze negli andamenti macroeconomici accentuano anche le
divergenze politiche e riducono ulteriormente le chances per una
svolta negli indirizzi di politica economica. Certo, vi è chi
tuttora prevede che prima o poi la crisi dei paesi periferici
dell’Unione colpisca anche le esportazioni su cui la Germania
prospera, e induca quindi le autorità tedesche a rivedere le
proprie posizioni. Ma l’idea che quel paese abbandoni la propria
storica strategia mercantilista appare oggi più che mai sganciata
dai fatti. In realtà, i portatori degli interessi prevalenti in
Germania appaiono affezionati all’Unione monetaria europea solo
se e nella misura in cui la moneta unica agevoli il surplus
tedesco e il connesso, feroce processo di centralizzazione
capitalistica. Il giorno in cui non risulti più funzionale allo
scopo sarà l’euro a dover soccombere, non il mercantilismo
germanico.
Gattopardi e nazionalisti
Se dunque così stanno le cose, lasciano un po’ il tempo che trovano i numerosi appelli a contrastare il corso logico degli eventi su basi sostanzialmente idealistiche. Piuttosto, si pone un problema urgente, di ordine materiale: del tutto indipendentemente da opinioni, auspici e speranze, occorre valutare le possibili implicazioni di una implosione dell’attuale assetto dell’eurozona. A questo riguardo, come abbiamo accennato, la tesi del Monito degli economisti è che presto o tardi bisognerà compiere «una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro».
Volendo interpretare anche questo passaggio in un’ottica marxista, Althusser può essere d’aiuto: si può infatti sostenere che la crisi di un regime monetario costituisce un esempio di crocevia, di “congiuntura” del processo storico che può essere governata in modi molto diversi tra loro, ognuno dei quali potrà avere diverse ripercussioni sulle diverse classi sociali in gioco. In quest’ottica, allora, diventa necessario domandarsi: quali sono gli attori sociali maggiormente in grado di sfruttare la “congiuntura” che si profila all’orizzonte? Quali soggetti appaiono oggi pronti ad affrontare una precipitazione della crisi dell’eurozona al fine di piegarla a proprio vantaggio? Ebbene, anche sot- to questo aspetto il Monito offre qualche spunto di riflessione. Il testo, infatti, accenna con grande preoccupazione all’ammassarsi di consensi intorno a due ipotesi politiche: da un lato le «apologie del cambio flessibile quale panacea di ogni male» e dall’altro gli «inquietanti sussulti di propagandismo ultranazionalista e xenofobo».
La prima ipotesi politica, si badi bene,
non va confusa con l’ovvia constatazione che il cambio fis- so
irrevocabile imposto dall’euro entra ormai in contraddizione con
lo sviluppo dei costi e dei prezzi nei diversi paesi dell’Unione.
Tale ipotesi va molto oltre: essa è infatti sostenuta da coloro i
quali suggeriscono di risolvere gli squilibri tra creditori e
debitori europei unicamente attraverso il passaggio a un regime di
cambi flessibili governati dal gioco delle forze del mercato. Dal
punto di vista dottrinale si tratta di una ricetta tipicamente
liberista, che trova in Milton Friedman il suo tradizionale
riferimento12. Essa può rientrare in quella che talvolta abbiamo
definito una soluzione “gattopardesca” alla crisi dell’euro.
Vale a dire, la soluzione di chi sarebbe disposto a cambiare
tutto, al limite persino la moneta unica, pur di non cambiare in
fondo nulla, ossia pur di non mettere in discussione le politiche
di austerity, di liberalizzazione dei mercati, di flessibilità
del lavoro e di deflazione salariale che stanno favorendo i
processi di centralizzazione dei capitali e di
“mezzogiornificazione” europea. Questa soluzione trova
consensi presso la City di Londra, qualche estimatore anche a
Francoforte e in Italia è sostenuta da alcuni fautori delle
privatizzazioni e delle dismissioni di capitale all’estero. A
tale riguardo vale la pena di notare che, in assenza di opportune
contromisure, il mero abbandono di un regime di cambi fissi e la
eventuale, conseguente svalutazione ridurrebbero il prezzo in
moneta estera degli asset nazionali e potrebbero favorire i
cosiddetti “fire sales”, vale a dire svendite di capitale a
favore di acquirenti stranieri in misura ben superiore a quelle
che già si registrano oggi. La letteratura scientifica e
l’esperienza storica, anche italiana, segnalano che quello dei
“fire sales” costituisce un rischio concreto13. Anche per
questo motivo la soluzione “gattopardesca” sembra la più
adatta a tutelare gli interessi dei capitali più grandi e più
forti d’Europa.
La seconda ipotesi politica stigmatizzata
dal monito degli economisti è quella che il Fronte Na- zionale in
Francia ha ribattezzato con il termine «patriottismo economico».
È l’idea di chi vuol mettere in discussione non soltanto la
moneta unica ma ancheil mercato unico europeo, nonché il sistema
dei diritti individuali incardinato nelle regole comunitarie.
Beninteso, il fatto che la critica della moneta unica sia qui
accompagnata da una critica del mercato unico europeo costituisce
un fatto logico, in sé difficilmente contestabile. Ma per tutto
il resto questa ricetta evoca ombre per nul- la rassicuranti: essa
infatti consiste in una miscela di protezionismo, xenofobia e
restringimento delle libertà civili incardinata in una ideologia
del ritorno ai cosiddetti valori tradizionali, ben rappresentati
dal vecchio trittico “Dio, patria e famiglia”. È innegabile
che tale visione stia raccogliendo sempre più consensi tra i
lavoratori colpiti dalla crisi e dalla disoccupazione, e sempre
più insofferentiversola concorrenza degli immigrati. Ma
soprattutto, questa ipotesi trova la sua base sociale di
riferimento nella miriade di piccoli capitalisti afflitti dalla
recessione, dal debito e dal rischio crescente di insolvenza. Di
fatto, essa incarna la pretesa di elevare un argine contro la
centralizzazione: di fronte alla spinta centralizzatrice dei
capitalie alla sua tendenza a valicare ogni confine statuale, il
dissotterramento di una qualche idea economica di «nazione»
costituisce la prevedibile «reazione» strategica dei gruppi
capitalistici relativamente più deboli e in difficoltà. Potremmo
in definitiva considerarla una ipotesi politica “reazionaria”,
di tipo nazionalista, con tratti potenzialmen- te neofascisti.
Il tempo dell’autocritica
Non è difficile riconoscere che, di fronte alla previsione di una futura crisi dell’eurozona, gli sviluppi politici conseguenti potrebbero facilmente riflettere le due ipotesi estreme appena elencate, o persino una combinazione dialettica tra di esse. Dinanzi a simili prospettive, suscita grande inquietudine l’assordante silenzio dei socialisti, dei comunisti, e più in generale degli eredi più o meno degni e diretti della tradizione novecentesca del movimento dei lavoratori. Per quanto incredibile possa sembrare, questi soggetti sembrano tuttora ostinarsi a escludere anche solo la possibilità di una implosione dell’eurozona tra i possibili futuri stati del mondo. Dal tracollo del “grande altro” sovietico, alla crisi del movimento sindacale, all’ascesa di quella ideologia ingenua che abbiamo talvolta definito “libero- scambismo di sinistra”, altrove abbiamo cercato di indagare sulle varie e complesse determinanti di questa eccezionale opera di rimozione e del tremendo ritardo politico che essa sta producendo14. In questa sede tuttavia ci pare opportuno sollevare una questione impellente: esiste la possibilità di colmare o almeno ridurre questo ritardo? Difficile a dirsi. Di certo, se una possibilità in tal senso esiste, questa dipenderà dalla disposizio- ne di chi oggi pretende di incarnare l’eredità storica del movimento operaio a definire un sentiero, una rotta adeguata all’attraversamento dell’impervio crocevia che si intravede all’orizzonte.
Se questo è l’obiettivo da perseguire,
il nodo più urgente che bisognerebbe sciogliere riguarda i
possibili effetti salariali e distributivi che deriverebbero da
un’uscita dall’euro. In alcuni studi re- centi abbiamo
mostrato che gli abbandoni dei regimi di cambio fisso e delle
unioni monetarie che siano stati accompagnati da svalutazioni
della moneta, risultano mediamente correlati a una diminuzione dei
salari reali e della quota salari. Questo significa che alla
deflazione salariale che già è in atto dentro l’eurozona
potrebbe far seguito un declino ulteriore delle retribuzioni una
volta usciti da essa. Questa prospettiva tuttavia non è
inesorabile: al di là dei valori medi, l’evidenza storica
riporta anche casi in cui le uscite dai regimi di cambio sono
state gestite con opportune po- litiche di salvaguardia del lavoro
che hanno tutelato le retribuzioni e in alcuni casi le hanno pure
accresciute. Ed è interessante notare che in tali casi
l’andamento della produzione è stato mediamente migliore di
quello che si è registrato nelle circostanze in cui, dopo
l’uscita, i salari sono declinati15. L’implicazione che si può
trarre da tali evidenze è ovvia: chiunque intenda indicare una
rotta favorevole ai lavoratori dovrebbe immediatamente chiarire
che il crocevia dell’uscita dall’euro va affrontato con
opportuni interventi a tutela del potere d’acquisto delle
retribuzioni e delle quote salari. Chi su questo terreno si muove
ambiguamente, addirittura negando l’evidenza pur di minimizzare
il problema, ricade inevitabilmente in una logica “gattopardesca”.
Quello dei salari, ovviamente, è solo il primo problema da
affrontare, non certo l’unico. Molti sono i tasselliche
dovrebbero concorrere a definire una modalità di gestione
dell’uscita dall’euro che possa ritenersi favorevole alle
istanze del lavoro. Uno di essi, ad esempio, dovrebbe riguardare
l’esigenza di cautelarsi contro la possibilità, evocata in
precedenza, che una svalutazione del cambio favorisca le svendite
di capitale a favore di acquirenti esteri. Questo problema assume
rilevanza soprattutto in campo bancario, ma costringe in realtà a
cimentarsi con una questione di carattere più generale: di fronte
a un tracollo della moneta unica, quale dovrebbe essere la
posizione degli eredi della tradizione socialista e comunista nei
confronti della libertà degli scambi sancita dal mercato unico
europeo? La domanda è cruciale. Basti notare che essa implica,
tra le altre cose, una scelta di posizionamento tra la tendenza
alla centralizzazione dei capitali da un lato e le rispettive
controtendenze che mirano a ostacolarla dall’altro. Ed implica
anche, allargando il campo di anali- si, una scelta tra una
riformulazione di quel concetto di modernità che ha attraversato
il marxismo fin dalle sue origini e un sostanziale abbandono di
esso. L’opinione di chi scrive è che c’è un solo modo per
risolvere questo dilemma in termini moderni e progressivi. Come
abbiamo già detto, la crisi della moneta unica implica
inevitabilmente una crisi del mercato unico europeo; solo una
visione falsificante, di tipo “gattopardesco”, potrebbe
negarlo. Questa innegabile evidenza logica, tuttavia, non dovrebbe
essere sfruttata per assecondare forme di «patriottismo
economico» votate alla tutela dei piccoli capitali,
potenzialmente reazionarie e in fin dei conti antimoderne. Al
contrario, bisognerebbe verificare se la crisi dell’Unione
europea possa costituire un’opportunità per creare consenso e
partecipazione di massa intorno a una diversa ipotesi politica,
che potremmo in estrema sintesi racchiudere in due punti: 1) da un
lato, attribuire nuovamente ai poteri pubblici un ruolo guida nei
processi di centralizzazione del capitale nazionale; 2)
dall’altro, condizionare gli scambi necessari alla
centralizzazione su scala internazionale al rispetto di un nuovo
“standard del lavoro”, che recuperi e rilanci la logica
antideflattiva dello “standard retributivo europeo”. Stiamo
parlando, in buona sostanza, di una proposta di governo della
crisi che consentirebbe di affrontare i processi di
desertificazione produttiva attribuendo alle strutture dello Stato
un ruolo attivo nella ristrutturazione capitalistica: a partire
dal settore bancario, dove le irrazionalità sistemiche
dell’obsoleto regime di accumulazione trainato dalla finanza
privata potrebbero esser superate promuovendo una moderna, non
ossificata logica di piano. E stiamo parlando di un criterio di
riorganizzazione delle relazioni internazionali regolato da uno
“standard”, che non necessariamente freni la centralizzazione
capitalistica ma la imbrigli in uno schema coordinato,
antideflattivo, in ultima istanza favorevole al lavoro. Potremmo
definirlo un progetto di governo democratico e sociale del
processo di centralizzazione capitalistica, una soluzione moderna
che consentirebbe di ridisegnare i rapporti economici continentali
alla luce di un nuovo protagonismo del lavoro e di una “nuova
questione meridionale” su scala europea.
Ovviamente una svolta politica di tale portata non potrebbe mai
derivare da singole elaborazioni. Solo un’intelligenza
collettiva potrebbe delinearne gli snodi e verificare la sua
praticabilità o meno nella congiuntura storica che ci è data. Il
dramma, come evidenzia il monito degli economisti, è che quella
congiuntura è già in atto. Un allenato pessimismo della ragione
induce a sospettare che tra gli eredi più o meno degni e diretti
delle tradizioni socialista e comunista possa non esservi il tempo
per un’autocritica, figurarsi per la costruzione di un pensiero
collettivo in grado di elaborare un tale cambio di paradigma. La
tragedia shakespeariana tuttavia insegna: i vuoti politici sono
destinati a esser colmati, in un modo o nell’altro. Se nella
dialettica politica non entreranno rapidamente forze in grado di
proporre una modalità democratica e sociale di governo della
crisi, a sciogliere i nodi dell’euro giungeranno forze ostili
alle istanze del lavoro, del progresso e dell’emancipazione
civile.
Note:
1) Salvo diversa specificazione, i dati ri-portati in questo articolo sono tratti da European Commission,AMECO Annual ma- cro-economic database of the European Commission’s DG ECFIN, 2014, http://ec.europa.eu/economy_finance/db_in dicators/ameco/index_en.htm.
2) Credit Reform, Unternehmensinsol- venzen in Europa, Jahr 2013/14.
3) The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles , in Financial Times, 23 September 2013, www.theeconomistswar ning.com.
4) Basti qui ricordare che l’enorme sur- plus verso l’estero della Germania è stato conseguito anche grazie a una politica di competizione relativa sui salari: dalla na- scita dell’euro la crescita dei salari tede- schi, monetari e reali, è stata rispettiva- mente di sedici punti percentuali e di cin- que punti percentuali inferiore a quella me- dia dell’eurozona.
5) Karl Marx (1994), Il Capitale, Edito- ri Riuniti, 1994, Libro I, cap. 23. Rudolf Hil- ferding, Il capitale finanziario, Milano, Mi- mesis, 2011 (ed. orig.: 1910).
6) Emiliano Brancaccio e Luigi Caval- laro, Leggere “Il capitale finanziario”, in- troduzione a Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, cit. Emiliano Brancaccio e Giu- seppe Fontana, Solvency rule versus Taylor rule. An alternative interpretation of the re- lation between monetary policy and the eco- nomic crisis, in Cambridge Journal of Eco- nomics, 2013, 37, 1.
7) Ian Kott, Shakespeare nostro con- temporaneo, Milano, Feltrinelli, 2002 [ed. orig.: 1961].
8) Emiliano Brancaccio and Giuseppe Fontana, Solvency rule and capital central- ization in a monetary union, Mimeo, 2014.
9) Gauti Eggertsson and Paul Krug- man, Debt, Deleveraging, and the Liquidi- ty Trap: A Fisher-Minsky-Koo Approach, in Quarterly Journal of Economics, 2012, 127
(3).10) International Monetary Fund (2012), Growth Resuming, Dangers Re- main, in World Economic Outlook, April.
11) Emiliano Brancaccio, Current ac- count imbalances, the Eurozone crisis and, a proposal for a “European wage standard” in International Journal of Political Econ- omy, 2012, vol. 41, 1. Lo “standard retribu- tivo europeo” è una proposta di coordina-
1) Salvo diversa specificazione, i dati ri-portati in questo articolo sono tratti da European Commission,AMECO Annual ma- cro-economic database of the European Commission’s DG ECFIN, 2014, http://ec.europa.eu/economy_finance/db_in dicators/ameco/index_en.htm.
2) Credit Reform, Unternehmensinsol- venzen in Europa, Jahr 2013/14.
3) The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles , in Financial Times, 23 September 2013, www.theeconomistswar ning.com.
4) Basti qui ricordare che l’enorme sur- plus verso l’estero della Germania è stato conseguito anche grazie a una politica di competizione relativa sui salari: dalla na- scita dell’euro la crescita dei salari tede- schi, monetari e reali, è stata rispettiva- mente di sedici punti percentuali e di cin- que punti percentuali inferiore a quella me- dia dell’eurozona.
5) Karl Marx (1994), Il Capitale, Edito- ri Riuniti, 1994, Libro I, cap. 23. Rudolf Hil- ferding, Il capitale finanziario, Milano, Mi- mesis, 2011 (ed. orig.: 1910).
6) Emiliano Brancaccio e Luigi Caval- laro, Leggere “Il capitale finanziario”, in- troduzione a Rudolf Hilferding, Il capitale finanziario, cit. Emiliano Brancaccio e Giu- seppe Fontana, Solvency rule versus Taylor rule. An alternative interpretation of the re- lation between monetary policy and the eco- nomic crisis, in Cambridge Journal of Eco- nomics, 2013, 37, 1.
7) Ian Kott, Shakespeare nostro con- temporaneo, Milano, Feltrinelli, 2002 [ed. orig.: 1961].
8) Emiliano Brancaccio and Giuseppe Fontana, Solvency rule and capital central- ization in a monetary union, Mimeo, 2014.
9) Gauti Eggertsson and Paul Krug- man, Debt, Deleveraging, and the Liquidi- ty Trap: A Fisher-Minsky-Koo Approach, in Quarterly Journal of Economics, 2012, 127
(3).10) International Monetary Fund (2012), Growth Resuming, Dangers Re- main, in World Economic Outlook, April.
11) Emiliano Brancaccio, Current ac- count imbalances, the Eurozone crisis and, a proposal for a “European wage standard” in International Journal of Political Econ- omy, 2012, vol. 41, 1. Lo “standard retribu- tivo europeo” è una proposta di coordina-
mento europeo della contrattazione sala-
riale finalizzata a contrastare le strategie deflazioniste attuate
dalla Germania e in generale dai paesi che siano caratterizzati da
una tendenza ad accumulare surplus verso l’estero. La proposta
di “standard re- tributivo europeo” venne inserita nel Con-
tributo del Partito democratico al Pro- gramma Nazionale di
Riforme 2012. La de- legazione italiana della FEPS propose di in-
serire lo “standard retributivo” nel docu- mento della
Foundation for European Pro- gressive Studies, Renaissance for
Europe. A common progressive vision, 2013. La pro- posta tuttavia
incontrò l’opposizione dei de- legati tedeschi.
12) Milton Friedman, The Case for Flex- ible Exchange Rates, in Essays in Positive Economics, University of Chicago Press, 1953.
13) Si veda ad esempio Paul Krugman, Fire-Sale FDI, in Sebastian Edwards (ed.),
Capital Flows and the Emerging Economies: Theory, Evidence and Contro- versies, University of Chicago Press, 2000. Coloro i quali minimizzano il problema in base al fatto che in Italia le svendite di ca- pitale nazionale si stanno già verificando a causa della crisi e della deflazione interna all’eurozona, curiosamente sembrano non avvedersi di una distinzione elementare: quella tra investimenti diretti esteri lordi e netti. Essi si concentrano sui primi ma in realtà è sui secondi che in letteratura si va- luta l’esistenza o meno di un nesso tra sva- lutazione e “fire sales”. A tale riguardo va notato che, dall’inizio della crisi, in Italia gli investimenti diretti esteri in uscita sono stati sempre superiori agli investimenti di- retti esteri in entrata.
14) Emiliano Brancaccio e Marco Pas- sarella, L’austerità è di destra. E sta di- struggendo l’Europa, Milano, il Saggiatore, 2012.
15) Emiliano Brancaccio e Nadia Gar- bellini, Currency regime crises, real wages, functional income distribution and produc- tion, di prossima pubblicazione su Euro- pean Journal of Economics and Economic Policy: Intervention. Si veda pure Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Sugli effet- ti salariali e distributivi delle crisi dei regi- mi di cambio, in Rivista di Politica Econo- mica, luglio-settembre 2014. Per una ver- sione divulgativa si rinvia a Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari, in econo- miaepolitica.it, 19 maggio 2014.
12) Milton Friedman, The Case for Flex- ible Exchange Rates, in Essays in Positive Economics, University of Chicago Press, 1953.
13) Si veda ad esempio Paul Krugman, Fire-Sale FDI, in Sebastian Edwards (ed.),
Capital Flows and the Emerging Economies: Theory, Evidence and Contro- versies, University of Chicago Press, 2000. Coloro i quali minimizzano il problema in base al fatto che in Italia le svendite di ca- pitale nazionale si stanno già verificando a causa della crisi e della deflazione interna all’eurozona, curiosamente sembrano non avvedersi di una distinzione elementare: quella tra investimenti diretti esteri lordi e netti. Essi si concentrano sui primi ma in realtà è sui secondi che in letteratura si va- luta l’esistenza o meno di un nesso tra sva- lutazione e “fire sales”. A tale riguardo va notato che, dall’inizio della crisi, in Italia gli investimenti diretti esteri in uscita sono stati sempre superiori agli investimenti di- retti esteri in entrata.
14) Emiliano Brancaccio e Marco Pas- sarella, L’austerità è di destra. E sta di- struggendo l’Europa, Milano, il Saggiatore, 2012.
15) Emiliano Brancaccio e Nadia Gar- bellini, Currency regime crises, real wages, functional income distribution and produc- tion, di prossima pubblicazione su Euro- pean Journal of Economics and Economic Policy: Intervention. Si veda pure Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Sugli effet- ti salariali e distributivi delle crisi dei regi- mi di cambio, in Rivista di Politica Econo- mica, luglio-settembre 2014. Per una ver- sione divulgativa si rinvia a Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini, Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari, in econo- miaepolitica.it, 19 maggio 2014.
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