di Domenico Losurdo da Kelebekler.com
5. Antisemitismo e antiamericanismo? Spengler e Ford
La campagna in corso contro coloro che osano criticare la politica di
guerra preventiva di Washington ama associare l'antiamericanismo
all'antisemitismo.
E di nuovo si rimane stupiti per il dileguare della memoria storica. Chi
ricorda ancora la celebrazione del «genuino americanismo di Henry Ford»
ad opera del Ku Klux Klan (in MacLean 1994, 90)?
Ad essere qui oggetto di ammirazione è il magnate dell'industria
automobilistica, che si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica
come il risultato in primo luogo del complotto ebraico e che a tale
scopo fonda una rivista di larga tiratura, il Dearborn Independent
: gli articoli qui pubblicati vengono raccolti nel novembre 1920 in un
volume, L'ebreo internazionale che subito diventa un punto di
riferimento dell'antisemitismo internazionale, tanto da poter esser
considerato il libro che più di ogni altro ha contribuito alla celebrità
dei famigerati Protocolli dei Savi di Sion .
E' vero, dopo
qualche tempo Ford è costretto a rinunciare alla sua campagna, ma
intanto è stato tradotto in Germania e ha incontrato grande fortuna. Più
tardi diranno di essersi ispirati a lui o di aver da lui preso le mosse
gerarchi nazisti di primo piano come von Schirach e persino Himmler. Il
secondo in particolare racconta di aver compreso «la pericolosità
dell'ebraismo» solo a partire dalla lettura del libro di Ford: «per i
nazionalsocialisti fu una rivelazione».
Seguì poi la lettura dei Protocolli dei Savi di Sion :
«Questi
due libri ci indicarono la via da percorrere per liberare l'umanità
afflitta dal più grande nemico di tutti i tempi, l'ebreo
internazionale»; com è chiaro, Himmler fa uso di una formula che
riecheggia il titolo del libro di Henry Ford.
Potrebbe trattarsi
di testimonianze in parte interessate e strumentali. E' un dato di fatto
però che nei colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che
ha avuto su di lui la maggior influenza, lo Henry Ford antisemita è tra
gli autori più frequentemente e positivamente citati.
E, d'altra
parte, secondo Himmler, il libro di Ford assieme ai Protocolli ,
avrebbe svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend ) oltre che sulla
sua formazione, anche su quella del Führer . Anche in questo caso,
risulta evidente la superficialità della contrapposizione schematica tra
Europa e Stati Uniti, come se la tragica vicenda dell'antisemitismo
non avesse coinvolto entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di
fare questa precisazione: la giudeofobia da lui apertamente professata
non va confusa col razzismo «materialistico» caro agli «antisemiti in
Europa e in America» (Spengler 1933, 157).
L'antisemitismo
biologico che soffia impetuoso anche al di là dell'Atlantico viene
considerato eccessivo persino da un autore pure impegnato in una
requisitoria contro la cultura e la storia ebraica in tutto l'arco della
sua evoluzione. E' anche per questo che Spengler appare pavido e
inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi si rivolgono
altrove: L'ebreo internazionale continua ad essere pubblicato con grande
onore nel Terzo Reich con prefazioni che sottolineano il decisivo
merito storico dell'autore e industriale americano (nell'aver fatto luce
sulla «questione ebraica») e evidenziano una sorta di linea di
continuità da Henry Ford a Adolf Hitler! (cfr. Losurdo 1991 b, 84-5).
La
polemica in corso su antiamericanismo e antieuropeismo pecca di
ingenuità: essa sembra ignorare gli scambi culturali e le influenze
reciproche tra America e Europa.
Nel primo dopoguerra, Croce non
aveva avuto difficoltà a sottolineare l'influenza che Theodore Roosevelt
aveva esercitato su Enrico Corradini, il capo nazionalista poi
confluito nel partito fascista (Croce, 1967, 251). Agli inizi del
Novecento, lo statista americano aveva compiuto un viaggio trionfale in
Europa, nel corso del quale aveva ricevuto una laurea honoris causa a
Berlino e aveva conquistato – a notarlo questa volta è Pareto - numerosi
«adulatori» (Pareto 1988, 1241-2, § 1436).
La rappresentazione
secondo cui gli Stati Uniti costituirebbero una sorta di spazio sacro,
immune dai morbi e dagli orrori dell'Europa, è un prodotto soprattutto
della guerra fredda. Non bisogna mai perdere di vista la circolazione
del pensiero tra le due rive dell'Atlantico: sì, l'americano Stoddard
inventa la categoria-chiave del discorso ideologico nazista (
Untermensch ), ma nel far ciò egli ha alle spalle un soggiorno di studio
in Germania e la lettura della teoria cara a Nietzsche del superuomo
(Losurdo 2002, 886-7).
D'altro canto, mentre guarda con
ammirazione al mondo della white supremacy, la reazione tedesca avverte
ripugnanza e disprezzo nei confronti del melting pot . Rosenberg
riferisce sdegnato che a Chicago una «grande cattedrale« cattolica
«appartiene ai nigger». C'è persino un «vescovo nero» che vi celebra la
messa: è l'«allevamento» di «fenomeni bastardi» (Rosenberg 1937, 471).
A
sua volta, Hitler sentenzia e denuncia che «sangue ebraico» scorre
nelle vene di Franklin Delano Roosevelt, la cui moglie ha comunque un
«aspetto negroide» (Hitler 1952-54, II, 182, conversazione del 1 luglio
1942).
6. Gli Stati Uniti, l'Occidente e la Herrenvolk democracy
A questo punto, chiaramente ideologica o mitologica si rivela la tesi
della convergenza tra antiamericanismo di destra e di sinistra. In
realtà, sono proprio gli aspetti messi in stato d'accusa dalla
tradizione che dall'abolizionismo giunge sino al movimento comunista a
suscitare simpatia e entusiasmo sul versante opposto. Quel che è amato
dagli uni è odiato dagli altri, e viceversa.
Ma gli uni e gli altri si trovano dinanzi al paradosso che
caratterizza la storia degli Stati Uniti sin dalla sua fonadzione e che è
stato così formulato, nel Settecento, dallo scrittore inglese Samuel
Johnson: «Come spiegare che ad acclamare più rumorosamente la libertà
sono coloro i quali sono impegnati nella caccia ai neri?» (in Foner
1998, 32). E' un fatto: la democrazia nell'ambito della comunità bianca
si è sviluppata contemporaneamente ai rapporti di schiavizzazione dei
neri e di deportazione degli indios.
Per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli USA, a
detenere la presidenza sono proprietari di schiavi, e proprietari di
schiavi sono anche coloro che elaborano la Dichiarazione di Indipendenza
e la Costituzione. Senza la schiavitù (e la successiva segregazione
razziale) non si può comprendere nulla della «libertà americana»: esse
crescono assieme, l'una sostenendo l'altra (Morgan 1975). Se la
«peculiar institution» (la schiavitù) assicura il ferreo controllo delle
classi «pericolose» già sui luoghi di produzione, la mobile frontiera e
la progressiva espansione ad Ovest disinnescano il conflitto sociale
trasformando un potenziale proletariato in una classe di proprietari
terrieri, a spese però di popolazioni condannate ad essere rimosse o
spazzate via. Dopo il battesimo della guerra d'indipendenza, la
democrazia americana conosce un ulteriore sviluppo, negli anni ‘30
dell'Ottocento, con la presidenza Jackson: la cancellazione, in larga
parte, delle discriminazioni censitarie all'interno della comunità
bianca va di pari passo col vigoroso impulso impresso alla deportazione
degli indios e col montare di un clima di risentimento e di violenza a
danno dei neri.
Una considerazione analoga può essere fatta anche per la
cosiddetta «età progressista» che, partendo dalla fine del secolo
scorso, abbraccia i primi tre lustri del Novecento: essa è
caratterizzata certo da numerose riforme democratiche (che assicurano
l'elezione diretta del Senato, la segretezza del voto, l'introduzione
delle primarie e dell'istituto del referendum ecc.), ma costituisce al
tempo stesso un periodo particolarmente tragico per neri (bersaglio del
terrore squadristico del Ku Klux Klan) e indios (spogliati delle terre
residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione che intende
privarli persino della loro identità culturale). A proposito di questo
paradosso che caratterizza la storia del loro paese, autorevoli studiosi
statunitensi hanno parlato di Herrenvolk democracy , cioè di democrazia
che vale solo per il «popolo dei signori» (per usare il linguaggio caro
poi a Hitler) (Berghe 1967; Fredrickson 1987).
La netta linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e
pellerossa dall'altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di uguaglianza
all'interno della comunità bianca. I membri di un'aristocrazia di
classe o di colore tendono ad autocelebrarsi come i “pari”; la netta
disuguaglianza imposta agli esclusi è l'altra faccia del rapporto di
parità che s'instaura tra coloro che godono del potere di escludere gli
«inferiori». Dobbiamo allora contrapporre positivamente l'Europa agli
Stati Uniti? Sarebbe una conclusione precipitosa e errata.
In realtà, la categoria di Herrenvolk democracy può essere utile
anche per spiegare la storia dell'Occidente nel suo complesso. Tra la
fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, l'estensione del
suffragio in Europa va di pari passo col processo di colonizzazione e
con l'imposizione di rapporti di lavoro servili o semiservili alle
popolazioni assoggettate; il governo della legge nella metropoli
s'intreccia strettamente con la violenza e l'arbitrio burocratico e
poliziesco e con lo stato d'assedio nelle colonie. E' in ultima analisi
lo stesso fenomeno che si verifica nella storia degli Stati Uniti, solo
che nel caso dell'Europa esso risulta meno evidente per il fatto che le
popolazioni coloniali, invece di risiedere nella metropoli, sono da
questa separati dall'oceano.
7. Missione imperiale e fondamentalismo cristiano nella storia degli USA
E' su un piano diverso che possiamo cogliere le reali differenze nello
sviluppo politico e ideologico tra le due rive dell'Atlantico. Dopo
essere stata profondamente segnata dalla grande stagione
dell'illuminismo, alla fine dell'Ottocento l'Europa conosce un processo
ancora più radicale di secolarizzazione: a ritenere ormai ineluttabile
la «morte di Dio» sono sia i seguaci di Marx sia i seguaci di Nietzsche.
Ben diverso è il quadro che presentano gli Stati Uniti.
Nel 1899, la rivista Christian Oracle spiega così la decisione di
cambiare il suo nome in Christian Century : «Crediamo che il prossimo
secolo sarà testimone, per la cristianità, dei più grandi trionfi di
tutti i secoli e che esso sarà più autenticamente cristiano di tutti
quelli precedenti» (in Olasky 1992, 135). In questo momento è in corso
la guerra contro la Spagna, accusata dai dirigenti USA di privare
ingiustamente Cuba del suo diritto alla libertà e all'indipendenza, per
di più ricorrendo, in un'isola «così vicina ai nostri confini», a misure
che ripugnano al «senso morale del popolo degli Stati Uniti» e che
rappresentano una «disgrazia per la civiltà cristiana» (in Commager
1963, II, 5). Richiamo indiretto alla dottrina Monroe e appello alla
crociata in nome al tempo stesso della democrazia, della morale e della
religione s'intrecciano strettamente per scomunicare per così dire un
paese cattolicissimo e conferire il carattere di guerra santa a tutti
gli effetti ad un conflitto che avrebbe consacrato il ruolo di grande
potenza imperiale degli USA.
Più tardi, il presidente McKinley spiega la decisione di
annettere le Filippine con un'illuminazione di «Dio Onnipotente» che,
dopo prolungate preghiere in ginocchio, finalmente, in una notte sino a
quel momento particolarmente angosciosa, lo libera da ogni dubbio e
indecisione. Non era lecito, lasciare nelle mani della Spagna la colonia
o cederla «alla Francia o alla Germania, i nostri rivali commerciali in
Oriente»; e neppure era lecito affidarla agli stessi filippini che,
«inadatti all'autogoverno», avrebbero fatto piombare il loro paese in
una condizione di «anarchia e malgoverno» ancora peggiori di quelli
prodotti dal dominio spagnolo: «Non ci restava null'altro che mantenere
le Filippine, che educare i filippini, innalzandoli, civilizzandoli e
cristianizzandoli, e, con l'aiuto di Dio, fare il nostro meglio per
loro, come nostri fratelli, per i quali, anche, Cristo è morto. E allora
andai a letto, mi addormentai e dormii profondamente» (in Millis 1989,
384).
Oggi sappiamo degli orrori che ha comportato la repressione del
movimento indipendentista nelle Filippine: la guerriglia da esso
scatenata fu fronteggiata con la distruzione sistematica dei raccolti e
del bestiame, rinchiudendo in massa la popolazione in campi di
concentramento dove era falcidiata da inedia e malattie e in certi casi
ricorrendo persino all'uccisione di tutti i maschi al di sopra dei dieci
anni (McAllister Linn 1989, 27, 23). E, tuttavia, nonostante l'ampiezza
dei «danni collaterali», la marcia dell'ideologia della guerra
imperial-religiosa conosce una nuova trionfale tappa col primo conflitto
mondiale. Subito dopo l'intervento, in una lettera al colonnello House,
così Wilson si esprime a proposito dei suoi «alleati»: «Quando la
guerra sarà finita, li potremo sottoporre al nostro modo di pensare per
il fatto che essi, tra le altre cose, saranno finanziariamente nelle
nostre mani» (in Kissinger 1994, 224). Indipendentemente da ciò, non ci
sono dubbi sul fatto che «agiva un forte elemento di Realpolitik»
(Heckscher 1991, 298) nell'atteggiamento da Wilson assunto sia nei
confronti dell'America Latina che del resto del mondo. E, tuttavia, ciò
non gli impedisce di condurre la guerra come una Crociata nel senso
persino letterale del termine: i soldati americani sono «crociati»
protagonisti di una «trascendente impresa» (Wilson 1927, II, 45, 414) di
una «guerra santa, la più santa di tutte le guerre», destinata a far
trionfare nel mondo la causa della pace, della democrazia e dei valori
cristiani. E di nuovo, interessi materiali e geopolitici, ambizioni
egemoniche e imperiali e buona coscienza missionaria e democratica si
fondono in un'unità indissolubile e irresistibile.
Con questa medesima piattaforma ideologica, gli USA affrontano gli
ulteriori conflitti del Novecento. Particolarmente significativa è la
vicenda della guerra fredda. Uno dei suoi protagonisti, Foster Dulles,
è, secondo la definizione di Churchill, «un puritano rigoroso». Egli è
orgoglioso del fatto che «nel dipartimento di Stato nessuno conosce la
Bibbia meglio di me». Il fervore religioso non è un affare privato:
«Sono convinto che abbiamo bisogno di far sì che i nostri pensieri e
pratiche politiche riflettano in modo più fedele la fede religiosa
secondo cui l'uomo ha la sua origine e i suo destino in Dio» (in
Kissinger 1994, 534-5.). Assieme alla fede, altre fondamentali categorie
della teologia irrompono nella lotta politica a livello internazionale:
i paesi neutrali che si rifiutano di prender parte alla Crociata contro
l'Unione Sovietica si macchiano di «peccato», mentre gli USA che si
pongono alla testa di tale Crociata sono il «popolo morale» per
eccellenza (in Freiberger 1992, 42-3).
A guidare questo popolo che si distingue da tutti gli altri per
la sua moralità e la sua vicinanza a Dio è, nel 1983, Ronald Reagan.
Questi dà impulso alla fase culminante della guerra fredda, destinata a
sancire la disfatta del nemico ateo, con un linguaggio esplicitamente e
squillantemente teologico «Nel mondo c'è peccato e male e dalla
Scrittura e da Gesù Nostro Signore siamo obbligati ad opporci ad essi
con tutte le nostre forze» (in Draper 1994, 33). Veniamo infine ai
giorni nostri. Nel discorso che inaugura il suo primo mandato
presidenziale, Clinton non è meno religiosamente ispirato dei suoi
predecessori e del suo successore: «Oggi celebriamo il mistero del
rinnovamento americano». Dopo aver ricordato il patto intercorso tra «i
nostri padri fondatori» e «l'Onnipotente», Clinton sottolinea: «La
nostra missione è senza tempo» (Lott 1994, 366).
Riallacciandosi a questa tradizione e radicalizzandola
ulteriormente, George W. Bush ha condotto la sua campagna elettorale
proclamando un vero e proprio dogma: «La nostra nazione è eletta da Dio e
ha il mandato della storia per essere un modello per il mondo» (Cohen
2000). Come si vede, nella storia degli Stati Uniti la religione è
chiamata a svolgere a livello internazionale una funzione politica di
primo piano. Siamo in presenza di una tradizione politica americana che
si esprime con un linguaggio esplicitamente teologico. Più che alle
dichiarazioni rilasciate dai capi di Stato europei, le «dottrine» di
volta in volta enunciate dai presidenti statunitensi fanno pensare alle
encicliche e ai dogmi diffuse o proclamati dai pontefici della Chiesa
cattolica.
I discorsi inaugurali dei presidenti sono delle vere e proprie
cerimonie sacre. Mi limito a due esempi. Nel 1953, dopo aver invitato i
suoi ascoltatori ad inchinare il capo dinanzi a «Dio onnipotente»,
rivolgendosi direttamente a Lui, Eisenhower esprime questo auspicio : «
che tutto possa svolgersi per il bene del nostro amato paese e per la
Tua gloria. Amen» (Lott 1994, 302). In questo caso balza agli occhi con
particolare evidenza l'identità che c'è tra Dio e America. A quasi mezzo
secolo di distanza il quadro non cambia. Abbiamo visto in che modo si
apre il discorso inaugurale di Clinton. Ma vediamo in che modo si
conclude. Dopo aver citato la sacra «Scrittura», il neo-presidente
termina così: «Da questa vetta della celebrazione noi udiamo una
chiamata al servizio nella valle. Abbiamo sentito le trombe. Abbiamo
fatto il cambio della guardia. Ed ora, ciascuno a suo modo e con l'aiuto
di Dio, dobbiamo rispondere alla chiamata. Grazie e che Dio vi benedica
tutti» (Lott 1994, 369). E di nuovo, gli Stati Uniti sono celebrati
come la città sulla collina, la città benedetta da Dio.
Nel discorso pronunciato subito dopo la sua rielezione, Clinton
sente il bisogno di ringraziare Dio di averlo fatto nascere americano.
Dinanzi a questa ideologia, anzi a questa teologia della missione
l'Europa si è sempre trovata a disagio. E' nota l'ironia di Clemenceau a
proposito dei quattordici punti di Wilson: il buon Dio aveva avuto la
modestia di limitarsi a dieci comandamenti! Nel 1919, in una lettera
privata, John Maynard Keynes definisce Wilson «il più grande impostore
della terra» (In Skidelsky, 1989, p. 444). In termini forse ancora più
aspri si esprime Freud, a proposito della tendenza dello statista
americano a ritenersi investito di una missione divina: siamo in
presenza di «spiccatissima insincerità, ambiguità e inclinazione a
rinnegare la verità»; d'altro canto, già Guglielmo II riteneva di essere
«un uomo prediletto della Provvidenza» (Freud, 1995, 35-6).
Ma qui Freud si sbaglia; egli rischia di accostare due tradizioni
ideologiche assai diverse. E' vero, anche l'Imperatore tedesco non
disdegna di abbellire con motivi religiosi le sue ambizioni
espansionistiche: rivolgendosi alle truppe in partenza per la Cina, egli
invoca la «benedizione di Do» su un'impresa chiamata a stroncare nel
sangue la rivolta dei Boxers e a diffondere il «cristianesimo» (Röhl
2001, 1157); è incline a considerare i tedeschi come «il popolo eletto
di Dio» (Röhl 1993, 412). Lo stesso Hitler dichiara di sentirsi chiamato
a svolgere «l'opera del Signore» e di voler obbedire alla volontà
dell'«Onnipotente» (Hitler 1939, 70, 439), tanto più che i tedeschi sono
«il popolo di Dio» (in Rauschning 1940, 227). D'altro canto, è noto e
famigerato il motto Gott mit uns (Dio con noi)… E, tuttavia, non bisogna
sopravvalutare il peso di queste dichiarazioni e di questi motivi
ideologici.
In Germania (la patria di Marx e di Nietzsche) il processo di
secolarizzazione è assai avanzato. L'invocazione della «benedizione di
Dio» da parte di Guglielmo II non viene presa sul serio neppure nei
circoli sciovinisti: almeno agli occhi dei loro esponenti più avveduti
(Maximilian Harden), ridicoli appaiono il ritorno ai «giorni delle
Crociate» e la pretesa di «conquistare il mondo al Vangelo»; «così
gironzolano attorno al Signore i visionari e gli speculatori furbi» (in
Röhl 2001, 1157). Sì, prima ancora di ascendere al trono, il futuro
imperatore celebra i tedeschi come «il popolo eletto di Dio», ma a
prenderlo in giro è già la madre, figlia della regina Vittoria e
incline, semmai, a rivendicare il primato dell'Inghilterra (Röhl 1993,
412). E' un punto, quest'ultimo, su cui conviene riflettere
ulteriormente.
In Europa i miti genealogici imperiali si sono in una certa
misura neutralizzati a vicenda; le famiglie reali erano tutte
imparentate tra di loro sicché, nell'ambito di ognuna di esse, si
affrontavano idee di missione e miti genealogici imperiali tra loro
diversi e contrastanti. A screditare ulteriormente queste idee e queste
genealogie ha inoltre provveduto l'esperienza catastrofica di due guerre
mondiali; d'altro canto, nonostante la sua finale sconfitta, qualche
traccia ha pur lasciato nella coscienza europea la decennale agitazione
comunista condotta in nome della lotta contro l'imperialismo e in nome
del principio dell'uguaglianza delle nazioni. Il risultato di tutto ciò è
chiaro: in Europa risulta priva di credibilità ogni idea di missione
imperiale e di elezione divina agitata da questa o quella nazione; non
c'è più spazio per l'ideologia imperial-religiosa che un ruolo così
centrale occupa negli Stati Uniti.
Per quanto riguarda in particolare la Germania, la storia che va
dal Secondo al Terzo Reich presenta un'oscillazione tra la nostalgia di
un paganesimo guerresco e incentrato attorno al culto di Wotan e
l'aspirazione a trasformare il cristianesimo in una religione nazionale,
chiamata a legittimare la missione imperiale del popolo tedesco. Questo
secondo tentativo trova la sua espressione più compiuta nel movimento
dei Deutsche Christen , i «cristiani tedeschi». Poco credibile a causa
già del processo di secolarizzazione che, oltre alla società nel suo
complesso, aveva investito la stessa teologia protestante (si pensi a
Karl Barth e a Dietrich Bonhoeffer) e poco credibile altresì a causa
delle simpatie paganeggianti dei dirigenti del Terzo Reich, questo
tentativo non poteva avere che scarso seguito. La storia degli Stati
Uniti è, invece, attraversata in profondità dalla tendenziale
trasformazione della tradizione ebraico-cristiana in quanto tale in una
sorta di religione nazionale che consacra l' exceptionalism del popolo
americano e la missione salvifica a lui affidata.
Ma questo intreccio di religione e politica non è sinonimo di
fondamentalismo? Non è un caso che il termine fondamentalismo compare
per la prima volta in ambito statunitense e protestante e come
auto-designazione positiva e orgogliosa di sé. Possiamo ora comprendere i
limiti dell'approccio di Freud e Keynes: ovviamente, nelle
amministrazioni americane che via via si succedono non mancano gli
ipocriti, i calcolatori, i cinici, ma non c'è motivo per dubitare della
sincerità ieri di Wilson oggi di Bush jr. Non bisogna perdere di vista
il fatto che siamo in presenza di una società scarsamente secolarizzata,
nell'ambito della quale il 70 per cento degli abitanti crede nel
diavolo e più di un terzo degli adulti pretende che Dio parli loro
direttamente (Gray 1998, 126; Schlesinger jr., 1997).
Ma questo è un elemento di forza, non già di debolezza. La
tranquilla certezza di rappresentare una causa santa e divina facilita
non solo la mobilitazione corale nei momenti di crisi, ma anche la
rimozione o bagatellizzazione delle pagine più nere della storia degli
Usa. Sì, nel corso della guerra fredda Washington ha inscenato in
America Latina sanguinosi colpi di Stato e imposto feroce dittature
militari, mentre in Indonesia, nel 1965, ha promosso il massacro di
alcune centinaia di migliaia di comunisti o di filo-comunisti; ma, per
spiacevoli che possano essere, questi dettagli non sono in grado di
offuscare la santità della causa incarnata dall'«Impero del Bene». E'
più vicino alla verità Weber allorché, nel corso della prima guerra
mondiale, denuncia il «cant» americano (Weber 1971, 144). Il «cant» non è
la menzogna e neppure, propriamente, l'ipocrisia cosciente; è
l'ipocrisia di chi riesce a mentire anche a se stesso; è un po' la falsa
coscienza di cui parla Engels. Sia in Keynes sia in Freud si
manifestano al tempo stesso la forza e la debolezza dell'illuminismo.
Largamente immunizzata dall'ideologia imperial-religiosa che imperversa
al di là dell'Atlantico, l'Europa si rivela tuttavia incapace di
comprendere adeguatamente questo intreccio tra fervore morale e
religioso da un lato e lucido e spregiudicato perseguimento
dell'egemonia politica, economica e militare a livello mondiale
dall'altro.
Ma è questo intreccio, anzi questa miscela esplosiva, è questo
peculiare fondamentalismo a costituire oggi il pericolo principale per
la pace mondiale. Più che ad una nazione determinata, il fondamentalismo
islamico fa riferimento ad una comunità di popoli, i quali, non senza
ragione, ritengono di essere il bersaglio di una politica di aggressione
e di occupazione militare. Il fondamentalismo statunitense, invece,
trasfigura e inebria un paese ben determinato che, forte della sua
consacrazione divina, considera irrilevante l'ordinamento internazionale
vigente, le leggi puramente umane. E' in questo quadro che va collocata
la delegittimazione dell'Onu, la sostanziale messa fuori gioco della
Convenzione di Ginevra, le minacce rivolte non solo ai nemici ma persino
agli «alleati» della Nato.
8. Dalla campagna contro la «drapetomania» alla campagna contro l'antiamericanismo
Oltre che a combattere il «male» e a diffondere i valori cristiani e
americani, la guerra contro l'Irak, e le altre che si profilano
all'orizzonte, hanno il compito di espandere la democrazia nel mondo.
Quale credibilità ha quest'ultima pretesa? Ritorniamo al giovane
indocinese che abbiamo visto denunciare, nel 1924, l'orrore dei
linciaggi contro i neri. Dieci anni più tardi, egli ritorna nella sua
terra d'origine per assumere il nome, divenuto poi celebre in tutto il
mondo, di Ho Chi Minh. Nel momento dei feroci bombardamenti scatenati da
Washington avrà pensato il dirigente vietnamita all'orrore della
violenza anti-nera scatenata dai campioni della white supremacy ? In
altre parole, l'emancipazione degli afro-americani e la conquista da
parte loro dei diritti civili e politici ha realmente significato una
svolta oppure gli Stati Uniti continuano in sostanza ad essere una
Herrenvolk democracy , anche se gli esclusi non sono più da ricercare
sul territorio metropolitano ma al di fuori di esso, come d'altro canto a
lungo si è verificato nell'ambito della storia della «democrazia»
europea? Possiamo esaminare il problema da una diversa prospettiva, a
partire da una riflessione di Kant: «Cos'è un monarca assoluto ? E'
colui che quando comanda -la guerra deve essere,- la guerra segue». Ad
essere qui presi di mira non sono gli Stati dell'Antico regime, bensì
l'Inghilterra, che pure aveva alle sue spalle un secolo di sviluppo
liberale (Kant 1900, 90 nota). Dal punto di vista del grande filosofo,
il presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere considerato dispotico
due volte. In primo luogo, a causa dell'emergere negli ultimi decenni di
una «imperial presidency» che, nell'intraprendere azioni militari,
mette spesso il Congresso dinanzi al fatto compiuto. In questa sede, ci
interessa soprattutto il secondo aspetto: la Casa Bianca decide in modo
sovrano quando le risoluzioni dell'Onu sono vincolanti e quando non lo
sono; decide in modo sovrano chi sono i rogue States , contro i quali è
lecito imporre l'embargo, affamando un intero popolo, ovvero è lecito
scatenare l'inferno di fuoco, compresi i proiettili ad uranio impoverito
e le cluster bombs che continuano ad infierire sulla popolazione civile
ben al di là della fine del conflitto. Sempre in modo sovrano, la Casa
Bianca decide l'occupazione militare di questi paesi per tutto il tempo
che essa ritiene necessario, condannando all'ergastolo o incarcerando i
loro dirigenti e i loro «complici». Contro di loro e contro i
«terroristi» è lecito ricorrere anche al targeted killing , ovvero ad un
killing tutt'altro che targeted , ad esempio il bombardamento di un
normale ristorante dove si ritiene che possa trovarsi Saddam Hussein… E'
chiaro che le garanzie giuridiche non valgono per i «barbari». Anzi, a
ben guardare, come dimostra il Patriot Act , la rule of law non si
applica neppure per coloro che, pur non essendo« barbari» nel senso
stretto del termine, sono tuttavia sospettabili di fare il loro gioco.
E' interessante esaminare la storia alle spalle dell'espressione « rogue
States ». A lungo, tra Sei e Settecento, in Virginia i semi-schiavi,
gli schiavi a tempo di pelle bianca, allorché venivano catturati dopo la
fuga cui spesso cercavano di far ricorso, erano marchiati a fuoco con
la lettera R (che stava per « Rogue »): resi così immediatamente
riconoscibili, non avevano più via di scampo. Più tardi, il problema
dell'identificazione veniva risolto definitivamente sostituendo ai
semi-schiavi bianchi gli schiavi neri: il colore della pelle rendeva
superflua la marchiatura a fuoco, il nero era già di per sé sinonimo di
Rogue . Ora ad essere marchiati come «Rogue» sono interi Stati. La
Herrenvolk democracy è dura a morire… Ma questa è una storia vecchia.
Nuova è invece l'insofferenza crescente che Washington mostra nei
confronti degli «alleati». Anche loro sono chiamati a inchinarsi, senza
troppe tergiversazioni, al volere della nazione eletta da Dio. Ben si
comprendono le perplessità e le reazioni negative che provoca
l'atteggiarsi da parte del presidente degli Stati Uniti a sovrano
planetario non vincolato e non limitato da nessun organismo
internazionale. Ed ecco che gli ideologi della guerra gridano allo
scandalo per il diffondersi di questo morbo terribile che, come
sappiamo, è l'antiamericanismo. Per singolare che sia tale reazione,
essa non è priva di analogie storiche. Alla metà dell'Ottocento, nel sud
degli Stati Uniti il regime schiavista è vivo e vitale. E', tuttavia,
già si diffondono i primi dubbi e le prime inquietudini: aumenta il
numero degli schiavi fuggitivi. Questo fenomeno non solo allarma ma
stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy : com'è
possibile che persone “normali” si sottraggano ad una società così bene
ordinata e alla gerarchia della natura? Deve senza dubbio trattarsi di
un morbo, di una turba psichica. Ma di cosa propriamente si tratta? Nel
1851, Samuel Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene
finalmente di poter giungere ad una spiegazione che egli comunica ai
suoi lettori dalle colonne di un'autorevole rivista scientifica, il «New
Orleans Medical and Surgical Journal». Prendendo le mosse dal fatto che
nel greco classico drapeths è lo schiavo fuggitivo, lo scienziato
conclude trionfalmente che la turba psichica, il morbo che spinge gli
schiavi neri alla fuga è per l'appunto la «drapetomania» (in Eakin,
2000). La campagna ai giorni nostri in corso contro l'antiamericanismo
ha molti punti di contatto con la campagna scatenata oltre un secolo e
mezzo fa contro la drapetomania!
Riferimenti bibliografici
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Country , in «International Herald Tribune» dell'8 settembre, p. 7
(nell'articolo si parla erroneamente di Lieberman, ma il giorno dopo, a
p. 6, sempre dell'IHT è apparsa la rettifica)
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liberamente quella contenuta nell'edizione delle Opere complete di Marx e
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Sull'eugenetica tra Stati Uniti e Germania cfr. Kühl 1994, 61; il
lusinghiero giudizio del presidente Harding è riportato ad apertura
della versione francese di Stoddard 1925 ( Le flot montant des peuples
de couleur contre la suprematie mondiale des Blancs , tr. fr.
dall'americano di Abel Doysié, Paris, Payot). Si veda la testimonianza
di Felix Kersten, il massaggiatore finlandese di Himmler, nel Centre de
documentation Juive contemporaine di Parigi (Das Buch von Henry Ford, 22
December, 1940, n. CCX-31); su ciò cfr. Poliakov 1977, 278, e Losurdo
1991 b, 83-85.
sabato 22 agosto 2015
Elogio dell'antimaricanismo (5 - 8)
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