di Riccardo Bellofiore da syloslabini.info
Il dibattito di Sweezy con Schumpeter
Paul Sweezy è stato assistente di
Schumpeter. Il rapporto di amicizia e la distanza intellettuale sono
tali per cui la parola discepolo suona stonata. Come scrisse al
fratello Al, benché interessato dalle teorie dell’economista austriaco,
non se ne sentì granché influenzato. La relazione personale fu però
molto forte, quasi fosse il sostituto del figlio mai avuto. Tra i due
si svolse un memorabile dibattito, di cui è rimasta memoria grazie al
«ricordo» di Paul Samuelson su «Newsweek» il 13 aprile1970, e ai materiali resi disponibili da John Bellamy Foster sulla «Monthly Review» nel maggio 2011. Era l’inverno del 1946-47. Il Socialist
Party di Boston aveva chiesto al dipartimento di economia di Harvard
di ospitare un dibattito su capitalismo e socialismo. Schumpeter
ritenne poco appropriato che la discussione si svolgesse all’interno
delle lezioni, e suggerì senza successo che il Graduate Student Club se
ne facesse promotore. Il dibattito ebbe luogo senza sponsor,
protagonisti appunto Schumpeter e Sweezy. Dal racconto di Samuelson,
più di vent’anni dopo, traspare ancora l’eccitazione per l’evento:
“Schumpeter era il rampollo
dell’aristocrazia austriaca all’epoca di Francesco Giuseppe. Aveva
confessato di avere tre desideri: di essere il più grande amatore a
Vienna, il miglior cavallerizzo in Europa, il più grande economista del
mondo. «Sfortunatamente», aggiungeva con modestia, «il posto che mi è
stato dato [ad Harvard] non era di primo livello».…
A contendere con l’astuto Merlino stava
il giovane Sir Galahad [figlio illegittimo di Lancillotto, uno dei tre
cavalieri che nel ciclo arturiano ritrova il Sacro Graal]. Figlio di un
alto dirigente della banca J.P. Morgan, Paul Sweezy era il meglio che
Exeter e Harvard potessero produrre … e si era affermato come uno dei
più promettenti economisti della sua generazione. Annoiato della
«saggezza convenzionale» e stimolato dagli eventi della Grande
Depressione [degli anni Trenta], era divenuto uno dei pochi marxisti
americani … In modo ingiusto, gli dei avevano dotato Paul Sweezy non
soltanto di un ingegno brillante, ma anche di arguzia e bellezza. Se un
fulmine si fosse abbattuto su di lui quella notte, si sarebbe
giustamente detto che lo aveva colpito l’invidia degli dei.”
Dopo la presentazione dei personaggi,
Samuelson procede a sintetizzare lo «scontro» attraverso le parole che
attribuisce al moderatore, Wassili Leontief. «Il paziente è il
capitalismo. Entrambi gli oratori lo davano per morente, ma le diagnosi
differivano. Sweezy riteneva si trattasse di un cancro incurabile.
Schumpeter (il cui affetto andava al sistema defunto nel 1914)
attribuiva il prossimo decesso a un conflitto nevrotico, ad un odio di
sé che gli aveva fatto perdere la voglia di vivere. Sweezy stesso
sarebbe stato talismano e segno profetico di ciò». Il giudizio unanime
fu che l’economista austriaco avesse perso l’incontro. Restio, come
sempre, a presentare la propria visione e la propria analisi, si era
lanciato in una apologia degli Stati Uniti, probabilmente per il suo
usuale gusto della provocazione.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens, ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente, perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens, ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente, perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
D’altra parte, l’ombra di Schumpeter sembra distendersi su quel che dice Sweezy nel 1982, in Why Stagnation, dove pure sostiene la rinnovata importanza della tendenza alla stagnazione:
“Significa questo che sto sostenendo
che la stagnazione è divenuta uno stato di cose permanente? Niente
affatto. Alcuni – e tra questi credo sia legitttimo includere Hansen –
pensavano che la stagnazione degli anni Trenta «fosse qui per
rimanere», e che potesse essere superata soltanto attraverso mutamenti
fondamentali nella struttura delle economie capitalistiche avanzate.
L’esperienza ha dimostrato che avevano torto, e un argomento del genere
potrebbe rivelarsi falso anche oggi.”
Nella stessa «disfida» con Schumpeter
il marxista statunitense aveva iniziato dichiarando il proprio accordo
con una frase dell’antagonista nella Teoria dello sviluppo economico: «Capitalism … is by nature a form or method of economic change and not only never is but never can be stationary».
La biografia
Sweezy è nato a New York, nel 1910,
rampollo della alta borghesia degli Stati Uniti, figlio di un
vicepresidente della First National Bank. I suoi primi scritti
compaiono sull’«American Economic Review», la più prestigiosa rivista
di economia, prima ancora di aver esaurito il primo ciclo degli studi
universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e alla Harvard
University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla London School
of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e dove ebbe un
primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939 per il
dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre ai
rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu quello
di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone: tra
loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie dell’economista
austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per l’economia. Allievo di
Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert Solow, che partecipò al
corso sull’economia del socialismo. In una bella intervista a Savran e
Tonak, tradotta da L’ospite ingrato, Sweezy ricorda come Solow
fosse al tempo uno dei giovani economisti più radicalmente orientati a
sinistra (non si poteva dire lo stesso, osserva, di Samuelson).
Ottenuta una posizione di ruolo, continua Sweezy, il radicalismo di
Solow impallidì alquanto. Sweezy non inclina ad alcun giudizio
«moralistico». Riferendosi a Solow, ma anche a Eric Roll, dirà:
“È, in certo modo, una sorta di
opportunismo, ma non volgare o immorale in casi come questi. Tali sono
le pressioni della società americana che, per una persona, è
estremamente difficile resistere, soprattutto se non ha un’indipendenza
economica. Dovete capire che probabilmente anch’io mi sarei comportato
nello stesso modo. Fortunatamente, non dovevo dipendere da uno
stipendio universitario.”
L’interpretazione del titolo The Economics of Socialism
era alquanto «larga», visto che Sweezy sondava il terreno della
ricostruzione delle varie tradizioni teoriche del socialismo, andando
ben oltre il marxismo in senso stretto. In quel corso, peraltro, Sweezy
si provò anche a sviluppare una trattazione accademica e rigorosa del
marxismo; a questo scopo si basò molto sulla letteratura europea, anche
di lingua tedesca, che conosceva nell’originale. Fu così che, nel
tempo, Sweezy costruì una delle sue opere più famose, quell’autentico
classico che è ancor oggi La teoria dello sviluppo capitalistico, pubblicato nella sua prima edizione nello stesso anno, il 1942, in cui Schumpeter (la cui prima opera fu La teoria dello sviluppo economico del 1911) pubblicava Capitalismo, Socialismo, Democrazia.
È in questo arco di anni che Sweezy
diviene marxista, da autodidatta. Non si può dire sia stata una scelta
saggia dal punto di vista accademico. I suoi scritti di teoria
economica standard erano accettati nelle migliori riviste. Dopo
l’articolo sull’«American Economic Review» del dicembre del 1930 (The Thinness of the Stock Market) aveva pubblicato sul «Quarterly Journal of Economics» nel 1937 (On the definition of Monopoly), e sul «Journal of Political Economy» (Demand Under Conditions of Oligopoly)
nel 1939. Quest’ultimo articolo finì rapidamente sui libri di testo, e
capita di vederlo citato anche ai nostri giorni – senza che gli
studenti che sanno qualcosa di marxismo (una rarità) sospettino che si
tratta della stessa persona. L’interesse al tema della concorrenza
imperfetta è testimoniato anche dal suo primo libro del 1938, la sua
dissertazione di dottorato, dedicata al commercio del carbone in
Inghilterra (Monopoly and Competition in the English Coal Trade), edito dalla Harvard University Press.
Sono anni in cui Sweezy è influenzato
dal keynesismo, e dal dibattito sulla presenza o meno di una tendenza
alla «stagnazione». Nel 1936 era uscita la General Theory, gli Usa erano ormai dal 1929 in quello che John Kenneth Galbraith appropriatamente definì come The Great Crash. Nel 1932 un quarto della popolazione era disoccupata. La ripresa a metà degli anni Trenta stimolata dal New Deal
si accompagnava a una vivace stagione di lotte «dal basso». Vi fu però
una grave ricaduta nella crisi nel 1937-38 quando Roosevelt,
spaventato dai disavanzi nel bilancio pubblico, tirò il freno. Dalla
crisi si uscì davvero con la Seconda guerra mondiale. Sweezy fece in
quegli anni parte di alcune agenzie del New Deal, e partecipò alla stesura di un importante rapporto del 1938, The Structure of the American Economy,
che sostenne l’opportunità di una via d’uscita «keynesiana» dalla
crisi. Intanto lavorava alla divisione analisi e ricerca dell’Office of
Strategic Services, la futura Central Intelligence Agency, curando
l’European Political Report.
Per le sue pubblicazioni, e non solo
per lo stretto rapporto di confronto intellettuale e di amicizia con
Schumpeter, Sweezy era lanciato sulla via di una carriera accademica di
successo. Nel 1942 lascia Harvard per un paio di anni, per un viaggio
di ricerca: all’epoca è titolare di un contratto temporaneo della
durata di 5 anni. Mentre è via, si apre la prospettiva per un posto di
ruolo permanente in quella università. Schumpeter appoggia Sweezy con
determinazione. Ciò non di meno il Dipartimento di Harvard non lo
vuole. Sweezy ricorderà la diffusa leggenda di un suo «licenziamento»
da Harvard, ma la smentirà. Tornato dal suo viaggio, avrebbe avuto in
teoria la possibilità di rimanere ancora due anni. Gli venne però
chiaramente fatto capire che nessuno voleva un marxista come docente di
ruolo, e perciò dopo quei due anni se ne sarebbe dovuto andare. Decise
di «non restare in mezzo al guado».
Nel 1953, nel pieno della caccia alle
streghe comuniste di McCarthy, Sweezy viene convocato e interrogato in
un processo intentato dallo stato del New Hampshire. Si rifiutò di
rispondere alle domande. Viene condannato, e si appella alla Corte
Suprema, che nel 1957, gli darà ragione. La sentenza segna una svolta, e
prelude all’esaurirsi della caccia alle streghe. All’inizio degli anni
Sessanta Sweezy, insieme a Paul Baran, scrive Monopoly Capital, pubblicato in originale nel 1966, tradotto da Einaudi. Mentre la Teoria dello sviluppo capitalistico
era una introduzione al marxismo in tutti i suoi vari aspetti – dalla
teoria del valore, alla teoria della crisi, fino all’ultima parte
dedicata alla teoria dell’imperialismo – Il capitale monopolistico
affronta il passaggio dalla fase concorrenziale del capitalismo
dell’epoca di Marx alla fase della contemporanea concorrenza fra
oligopoli. Èun saggio redatto volutamente nel linguaggio dell’economia
tradizionale, di tipo keynesiano-istituzionalista, talora addirittura
con accenti neoclassici.
Nel 1949 Sweezy aveva fondato, con Leo
Huberman, la «Monthly Review». La rivista ebbe una edizione italiana
tra il 1968-1987 grazie all’iniziativa di Enzo Modugno, che spesso ne
stilava l’editoriale per la copertina (furono in seguito coinvolti Lisa
Foa e Luciano Canfora); e fu agli inizi distribuita nelle edicole,
vendendo sino a 20.000 copie. Il primo numero si apriva con un articolo
famoso: Perché il Socialismo di Albert Einstein. Sweezy e i
collaboratori della «Monthly Review» entreranno in relazione con molte
esperienze rivoluzionarie: da Mao a Cuba (su cui pubblicò due libri con
Leo Huberman: nel 1960, Cuba: anatomia di una rivoluzione, e nel 1969 Socialismo a Cuba).
Gli anni Settanta e Ottanta sono punteggiati dai numerosi articoli in
cui Sweezy, da solo o con altri (in primis, Harry Magdoff), propone una
interpretazione della crisi capitalistica, riconducendola alla crisi
da realizzazione. Ma Sweezy va oltre e, già negli anni Settanta,
formula un’analisi della sempre maggiore finanziarizzazione del
capitalismo. La finanza «conta», sia nel suo aspetto contraddittorio
sia nel suo aspetto funzionale all’accumulazione del capitale. Su tutto
questo sono importanti le raccolte di articoli della rivista, alcune
tradotte in italiano da Editori Riuniti, come Dinamica del capitalismo americano (1970) e La fine della prosperità (1977), altre no, come Stagnation and Financial Explosion (1987) e The Irreversible Crisis (1988).
Sono anni in cui Sweezy interviene in
molti altri dibattiti. Sulle economie e le società post-rivoluzionarie
ha una polemica con Charles Bettelheim (Il socialismo irrealizzato).
Sweezy è sempre stato critico rispetto all’idea del socialismo
sovietico come incarnazione del socialismo. Non ha però aderito alla
tesi di ispirazione trockijsta secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe
stata uno «stato operaio degenerato»; e neppure all’interpretazione di
ascendenza maoista secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe rimasta
un’economia capitalistica. Se è vero che permangono elementi
capitalistici, si ha comunque a che fare con economie e società non più
capitalistiche, ma post-rivoluzionarie e post-capitaliste.
Il contributo di Sweezy è stato
significativo anche in altre due discussioni. La prima si svolse negli
anni Cinquanta e fu originata dalla pubblicazione dei Problemi di storia del capitalismo
di Maurice Dobb. La posizione di Sweezy sottolineava fortemente il
ruolo del commercio nella transizione dal feudalesimo al capitalismo,
smarcandosi rispetto ad una lettura più chiusa nel mondo della
produzione. La seconda, sulla individuazione dei possibili soggetti di
un cambiamento rivoluzionario, si svolse negli anni Sessanta e
Settanta. Sweezy rimarcava la tendenziale integrazione della classe
operaia dei paesi avanzati, e riponeva le proprie speranze di un
cambiamento rivoluzionario nella «periferia» e nelle lotte di
liberazione nazionale.
In quel che segue, anche per le ricadute
sulla lettura del capitalismo contemporaneo e la sua crisi, mi
concentrerò essenzialmente sulla interpretazione che dà Sweezy della
teoria marxiana del valore e della crisi, su alcuni aspetti della sua
teoria del capitalismo monopolistico, e sulla sua lettura della
finanziarizzazione. In conclusione, tratterò della riflessione di un
autore molto lontano dalle tesi della «Monthly Review», eppure
significativo per intendere bene i limiti dell’economia keynesiana e la
tendenza del capitalismo alla crisi: Paul Mattick.
La teoria del valore
Nel suo libro del 1942 Sweezy riprende
la distinzione di Franz Petry tra l’aspetto qualitativo e l’aspetto
quantitativo nella teoria del valore-lavoro. L’aspetto qualitativo
rimanda alla tesi che i valori sarebbero cristallizzazioni di lavoro,
quali che siano i «valori di scambio» (ovvero i rapporti di scambio
proporzionali alle quantità di lavoro direttamente e indirettamente
contenute nelle merci). L’aspetto quantitativo ha a che vedere con la
«trasformazione» dei valori di scambio in un secondo, ulteriore sistema
di rapporti di scambio, i «prezzi di produzione». Il dibattito
successivo ha chiarito che Sweezy (come Dobb e Meek) patisce una
definizione di astrazione del lavoro ridotto a generalizzazione
mentale. Il discorso marxiano sui rapporti di scambio viene riletto
riconducendolo al solo momento dell’equilibrio. Il ragionamento si
articola in due approssimazioni successive, di cui i valori di scambio
costituirebbero la prima, i prezzi di produzione la seconda.
Sweezy ha messo in circolo per primo
nella discussione accademica (e non solo) i percorso che, da
Bortkiewicz a Seton, si è impegnato in una «correzione» della
trasformazione di Marx, nel solco del simultaneismo. Il punto è che al
capolinea di quella tradizione pare proprio esservi l’inessenzialità
dei valori di scambio come punto di partenza della fissazione dei
prezzi di produzione. Sraffa può essere inteso come una implicita, ma
decisa, critica di questa impostazione. In Produzione di merci a mezzo di merci
salta infatti la determinazione dualistica dei rapporti di scambio di
equilibrio. In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono
immediatamente fissati una volta dati la «configurazione produttiva» e
il salario reale di «sussistenza». In un secondo modello si ammette un
grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati una
volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra
profitti e salari. La caduta dell’aspetto quantitativo della teoria del
valore-lavoro trascinerebbe con sé l’aspetto qualitativo. Il problema
è che così salta pure la tesi che la genesi del plusvalore sia da
ricondurre al pluslavoro: una conclusione che può essere giustificata
soltanto sulla base della possibilità di istituire un confronto tra la
quantità di lavoro oggettivata dai lavoratori nelle merci prodotte e la
quantità di lavoro che torna loro in quanto contenuta nei beni salario.
Va però detto che Sweezy, alla fine
degli anni Settanta, si è smarcato con molta forza dal marxismo
«tradizionale» con cui era stato (non a torto) identificato. La sua
strada – sostiene – deve intendersi come alternativa sia alla visione
di Dobb (l’autore che aveva meglio definito una lettura di Marx in
termini di due livelli di approssimazione nella determinazione dei
prezzi di equilibrio, e che su quel fondamento aveva suggerito una
continuità non problematica tra Sraffa e l’autore del Capitale) sia a quella di Steedman, che nel suo Marx dopo Sraffa
aveva suonato la campana a morto per la teoria del valore-lavoro
sottolineando una profonda frattura tra i due autori sul terreno della
teoria dei prezzi). In una lettera a Michael Lebowitz del 30 dicembre
1973, Sweezy così giudica la posizione di Dobb:
“Il problema con loro, e il punto di
vista da cui vanno (simpateticamente) criticati, sta nel fatto che in
questa era, e oggi, non è possibile una critica efficace del
capitalismo che non sia marxista. Coloro che come Dobb immaginano che
lo sraffismo sia una specie di variante del marxismo sono sulla strada
sbagliata. Il nostro compito è (1) cercare di riportarli sulla strada
giusta, e (2) evitare che i giovani li seguano su quella sbagliata.
Insomma, stabilire il marxismo per quello che è, la critica
definitiva (il che non significa che non sia suscettibile di ulteriori
sviluppi), con il suo legame intrinseco a una posizione politica
rivoluzionaria.”
Nell’intervista già citata così si esprime Sweezy:
“Sraffa non riteneva che ciò che stava
facendo fosse qualcosa di alternativo al marxismo, o comunque una
negazione del marxismo. Dal suo punto di vista, la sua era una critica
dell’ortodossia neoclassica. Joan Robinson ha detto in modo molto
esplicito che Sraffa non abbandonò mai il marxismo. Egli fu sempre
fedele al marxismo, nel senso che aderì alla teoria del valore-lavoro.
Ma non ne scrisse mai. Fu questa una peculiarità di Sraffa. Egli
cominciò nelle vesti di critico dell’economia marshalliana. Ricordate
il suo famoso articolo degli anni Venti. Sraffa appartenne al gruppo di
Cambridge. Combatté le battaglie ideologiche che avevano il loro
centro a Cambridge. Ebbe in esse una certa parte, ma non come marxista.
La sua fu una posizione del tutto peculiare, che tuttavia non
autorizza nessuno a contrapporre Sraffa al marxismo (come invece fa Ian
Steedman). Considerare la teoria di Sraffa una teoria completamente
alternativa è, a mio giudizio, del tutto sbagliato, e non ha nulla a
che vedere con le reali intenzioni di Sraffa né con i veri scopi
dell’analisi marxista. Non riesco a vedere in Steedman nessuna
dinamica, nessuno sviluppo. Pensare che sia possibile procedere senza
una teoria del valore (inteso il termine nel suo senso più ampio,
comprensivo anche della teoria dell’accumulazione ecc.) a me sembra
totalmente fallimentare. Non va bene per nulla. E non mi sembra che ne
sia venuto fuori qualcosa. Giusto era mostrare i limiti, gli errori,
l’intima incoerenza della teoria neoclassica: questa era una buona
cosa, questo era importante. Ma pensare che su questa base sia
possibile sviluppare qualcosa che abbia attinenza con l’ambito e con le
finalità del marxismo è del tutto sbagliato.”
Una visione «larga» della teoria del
valore –– che includa al suo interno non solo la teoria
dell’accumulazione,ma anche la teoria della crisi – è cruciale per
comprendere l’itinerario e larilevanza di Sweezy, ancor oggi. Va pure
detto che la sua lettura delle intenzioni di Sraffa è oggi confermata,
ben al là di quanto potesse intuire lo stesso Sweezy, dalle carte
dell’economista italiano conservate alla Wren Library di Cambridge.
Quello che è certo è che lo stesso giudizio pubblico di Sweezy sul
neoricardismo fu di dura critica e opposizione, quando questa corrente
attaccava la teoria del valore-lavoro.
Ne testimonia l’intervento che Sweezy
pronunciò a Londra, nel novembre 1978, ad una tavola rotonda (a cui chi
scrive assistette) proprio sul libro di Steedman: il testo venne poi
pubblicato nel volume collettaneo The Value Controversy. Il
punto cruciale non sta tanto nel fatto che Sweezy contestasse alla
radice l’idea che non esisterebbe un «ponte» tra la dimensione
(essenziale) del valore e la dimensione (fenomenica) del prezzo. Non
sta neppure nell’argomento, da lui stesso avanzato, che l’analisi in
termini di valore non viene smentita da quella in termini di prezzo. La
novità sta nell’autocritica di Sweezy. Se è possibile analizzare la
realtà fenomenica esclusivamente in termini di prezzo, si chiede, che
senso ha preoccuparsi dei valori come «essenze»? Non è in realtà
affatto vero, sostiene, che sia possibile analizzare la realtà
capitalistica in termini esclusivamente di prezzo: è vero piuttosto
che, una volta sviluppata l’analisi in termini di valore, è possibile
raggiungere i medesimi risultati con l’analisi in termini di prezzo. La
ragione sta in ciò: che il centro di gravità dell’analisi marxiana è
il saggio di plusvalore. È un punto che non aveva compreso scrivendo la
Teoria dello sviluppo capitalistico: per questo le sezioni
quinta e sesta del capitolo sul problema della trasformazione, benché
non sbagliate in sé, non toccano il cuore della questione, cioè il
ruolo chiave del saggio del plusvalore della teoria marxiana del
capitalismo.
La teoria della crisi
Vale a questo punto la pena di
procedere ad analizzare la lettura che Sweezy dà nel 1942 della teoria
della crisi. Si trovano ne La teoria dello sviluppo capitalistico
alcune utili distinzioni che hanno orientato non poco i dibattiti
successivi, tra la crisi dovuta alla caduta tendenziale del saggio di
profitto, la crisi indotta dalle sproporzioni intersettoriali, e la
crisi dovuta al sottoconsumo. Per quel che riguarda la caduta
tendenziale del saggio del profitto, l’argomento di Marx è che il
mutamento dei metodi di produzione darebbe luogo ad un aumento della
composizione organica del capitale che eccede percentualmente
l’incremento del saggio di plusvalore. L’aumento del rapporto tra
capitale costante e capitale variabile ha un’influenza negativa sul
saggio del profitto, mentre l’aumento del rapporto tra plusvalore e
capitale variabile, che anch’esso consegue al progresso tecnico,
produce all’opposto un effetto positivo sul saggio del profitto.
Secondo Marx il primo effetto è più forte del secondo, e dunque il
saggio del profitto non può che flettere lungo il tempo. Sweezy, come
Joan Robinson, è scettico, in quanto ritiene che le controtendenze, e
in particolare l’aumento del saggio di plusvalore, più che compensano
l’aumento della composizione del capitale.
Per quel che riguarda la crisi
da realizzazione, Sweezy la legge sulla scorta del Kautsky del 1905. Il
profitto è prevalentemente investito, il salario integralmente
consumato. La natura sempre più diseguale della distribuzione fa sì che
la quota del consumo divenga relativamente sempre più bassa in
rapporto al valore prodotto. La «realizzazione» del plusvalore richiede
progressivamente quote crescenti di domanda di investimenti. Per quel
che riguarda la crisi da sproporzioni, essa è facilmente deducibile
dagli «schemi di riproduzione» del secondo libro del Capitale.
Tanto la composizione dell’offerta quanto la composizione della domanda
sono legate ai rapporti quantitativi che si stabiliscono nei vari rami
di produzione. La struttura dell’offerta delle diverse industrie
dipende dal livello raggiunto dalle branche produttive nel capitale
totale; mentre quella della domanda dipende dalla ripartizione del
capitale costante e del capitale variabile all’interno delle industrie.
Gli schemi consentono di derivare le condizioni di equilibrio,
ovvero i rapporti che garantiscono la compatibilità tra composizione
dell’offerta e composizione della domanda a livello di sistema. Il
verificarsi effettuale di tali condizioni dipende dall’operare del
meccanismo dei prezzi in concorrenza,cioè dal coordinamento ex post
tramite il mercato.
Si può, come ha fatto Claudio Napoleoni nella sua importante Introduzione
alla riedizionei taliana (parziale) del 1970, contestare a Sweezy una
troppo rigida separazione della crisi da sproporzioni dal
«sottoconsumo», sino a farne due cause distinte di crisi. Nell’un caso,
la crisi da realizzo deriverebbe dal generalizzarsi degli squilibri
settoriali a causa dell’instaurarsi di una reazione a catena di tipo
demoltiplicativo. Nell’altro caso, avremmo immediatamente una classica
crisi da insufficienza di domanda effettiva. Secondo Napoleoni, al
contrario, abbiamo a che fare con due «concause» della crisi.
L’elemento di fondo sta nella incapacità del sistema dei prezzi di
rendere compatibili le scelte delle imprese individuali in condizioni
di mercato «anarchico». Quando, come è prima o poi inevitabile, il
«caso» fortunato in cui le condizioni di equilibrio dettate dagli
schemi non si realizzasse, i movimenti dei prezzi sul mercato
dovrebbero correre in soccorso, orientando gli investimenti delle
imprese. D’altronde, vista l’insufficienza radicale e costitutiva del
coordinamento ex post tramite i prezzi, quell’orientamento può
essere efficace soltanto se la quota dei consumi non scende troppo.
Inquesto senso, allora, sottoconsumo e sproporzioni sarebbero come le
due lame di un’unica forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi
per i limiti del coordinamento ex post del mercato tramite i
prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza è fattore di crisi se il
consumo non orienta da presso l’investimento. Un aspetto rimanda
all’altro, e i due si completano a vicenda.
La lettura della crisi capitalistica
come indotta da una insufficienza di domanda effettiva, per un
eccessivo incremento del saggio di plusvalore – eccessivo in quanto
determina una tendenza alla stagnazione per carenza di sbocchi – è una
delle componenti essenziali che regge la lettura di Sweezy del Grande
Crollo, della crisi degli anni Settanta, degli sviluppi successivi. Qui
siamo anche evidentemente vicini ai temi che Baran e Sweezy
affrontano, con altro linguaggio e categorie, nel Capitale monopolistico.
Un limite del libro del 1942, visto
retrospettivamente, è che viene trascurata l’analisi delle
trasformazioni e dei conflitti nei processi capitalistici di lavoro. È
però nel gruppo della «Monthly Review» che Harry Braverman prepara (e
pubblica nel 1974) il volume sulla «degradazione del lavoro» nel
taylorismo e fordismo, proprio quando Sweezy e Baran stanno pubblicando
gli studi sul capitale monopolistico. Lavoro e capitale monopolistico,
tradotto in Italia da Einaudi, è, dopo più di un secolo, il primo
libro che torna ai temi che percorrono gran parte del primo libro del Capitale.
Una qualità di Sweezy, del tutto evidente, è quella di non lavorare
mai da solo, di avvalersi sempre di «alleati»che completino il proprio
lavoro di ricerca. Braverman significò anche il rapporto con gli
operai, con il mondo del lavoro – nella intervista che ho richiamato
Sweezy afferma che è un peccato che Braverman sia morto così presto, in
quanto rappresentava il contatto stabile e il dialogo con esperienze
di lavoro e sindacali.
Il capitale monopolistico
Secondo Baran e Sweezy, il capitale
monopolistico accentua le difficoltà che il capitale incontra sul
terreno della realizzazione del plusvalore. Si badi, ciò non ha affatto
a che vedere con una presunta superiorità del capitalismo di libera
concorrenza sul capitalismo monopolistico quale «macchina» per la
crescita. Sweezy è troppo buon conoscitore, oltre che amico, di
Schumpeter per cadere in una visione del ristagno ingenua come questa.
Il suo obiettivo, con Baran, è semmai l’opposto. Primo, mostrare come
le potenzialità di crescita vengano incredibilmente sviluppate dalla
mutazione monopolistica del capitalismo. Secondo, far vedere come ciò
dia luogo ad un aggravamento dei problemi che il capitale incontra sul
terreno della domanda effettiva, ovvero la difficoltà di trovare
sbocchi adeguati a consentire lo smercio dei prodotti a prezzi tali da
coprire i costi e il profitto: far vedere, dunque, come si instauri e
aggravi una tendenza alla stagnazione. Terzo, chiarire come tale
tendenza, invece di inverarsi immediatamente, sia stata efficacemente
ma perversamente controbattuta dall’evoluzione concreta del capitalismo
stesso, senza rimuovere la deriva verso una crisi immanente che
rivelerebbe l’irrazionalità e lo spreco tipici del capitalismo
monopolistico, ma per il momento solo spostandola in avanti. Il perno
di questa costruzione teorica e interpretativa è la sostituzione alla
caduta tendenziale del saggio di profitto marxiana di una tendenza
all’aumento del surplus, o «sovrappiù».
Cosa sia il «capitale monopolistico» è
presto detto: è quella fase dello sviluppo capitalistico in cui
dominano quelle imprese che, viste le loro dimensioni, possono
determinare i prezzi di ciò che vendono e di ciò che acquistano. Si
tratta di una fase che ha inizio a fine Ottocento per i fenomeni di
concentrazione, fusione e assorbimento determinati dalla dinamica
stessa della «libera» concorrenza (una concorrenza che passa in modo
essenziale per la via della riduzione dei prezzi), e che finiscono con
il rendere centrale il grado di monopolio e la battaglia per la
‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello sviluppo. Senza che ciò
significhi – si badi – la scomparsa della concorrenza in quanto tale,
visto che la concorrenza è implicita nella natura privatistica del
capitale. Siamo piuttosto in presenza di un mutamento della forma della
concorrenza, non di una tendenza all’autopianificazione del capitale.
È una competizione che si esplica con l’abbassamento dei costi unitari
per il tramite del progresso tecnico e organizzativo, la pubblicità,
etutti quegli strumenti che possono contrastare una entrata nel mercato
di altre imprese o che riescono a indurre il consumo verso certe
direzioni e non altre.
È una posizione che si distacca dalle
analisi del «capitalismo manageriale» alla Berle e Means fondate su una
scissione tra proprietà e gestione economica delle imprese. Secondo
Berle e Means l’impresa monopolistica sarebbe ormai diretta da manager
indipendenti dai proprietari (tanto i grandi quanto piccoli azionisti),
e non sarebbe più orientata alla massimizzazione del profitto ma
semmai alla riduzione dei costi, all’allargamento delle vendite, al
miglioramento della qualità, allo sviluppo dell’impresa. Baran e Sweezy
obiettano che i manager appartengono allo strato superiore dei
proprietari, per questo il divorzio tra gestione e proprietà non si dà.
Si è prodotta, piuttosto, una differenziazione all’interno della
proprietà. La pura proprietà delle imprese da parte degli azionisti, in
quanto tale, benché quantitativamente estesa, conta qualitativamente
poco. Dentro la, e non fuori dalla, proprietà vi sono dei capitalisti
«attivi» alla Marx, che svolgono una funzione di controllo. Stabilito
questo punto, gli autori ne deducono che, quali che siano gli scopi
particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i
capitali che hanno sotto controllo, questi scopi particolari si trovano
tutti all’interno di quello scopo fondamentale che resta la
massimizzazione del saggio del profitto. La massimizzazione del
profitto può però essere condotta in un periodo più disteso di tempo di
quanto non fosse nel capitalismo di libera concorrenza. Può anche
verificarsi un conflitto sulla politica dei dividendi, ma sempre
all’interno di quel fine unico e dominante.
Una rilettura del libro del 1966
dovrebbe integrarne le tesi con le elaborazioni di Sylos Labini e di
Kalecki – è un punto su cui insiste, e a ragione, Joseph Halevi in un
dibattito su Sweezy pubblicato da L’ospite ingrato. In Oligopolio e progresso tecnico Sylos
Labini esce da quella visione statica dell’oligopolio di cui è ancora
in qualche misura prigioniero il libro di Baran e Sweezy, e propone una
visione dinamica che può essere posta in relazione con il problema
della realizzazione in Marx e il principio della domanda effettiva in
Keynes. Di ciò gli autori delCapitale monopolistico divennero
coscienti, e infatti molto apprezzarono il contributo dell’economista
italiano quando ne vennero a conoscenza. Per quel che riguarda Kalecki,
è cruciale la tesi che i profitti sono determinati dalla spesa.
Non estenderei però questo argomento,
come fanno i kaleckiani, sino a costruire il mito che sia possibile un
capitalismo «trainato dai salari». La spesa che conta, la domanda che
traina, nel capitalismo è quella autonoma: dei capitalisti stessi (per
investimento o consumo), o le esportazioni nette, o le «esportazioni
interne» (così Kalecki denominò la spesa pubblica in disavanzo
finanziata monetariamente). Senz’altro, una migliore distribuzione del
reddito, aumentando il monte salari, marxianamente aumenta le vendite
del settore che produce beni di consumo, e keynesianamente aumenta il
«moltiplicatore» della domanda autonoma. Il reddito cresce, e così la
domanda, e gli stessi investimenti (vista la elevata utilizzazione
della capacità produttiva) vengono spinti verso l’alto, una sorta di
«acceleratore», in un circolo «virtuoso». Non è però possibile
rinvenire qui una locomotiva dello sviluppo, la spinta decisiva per una
lunga fase dello sviluppo capitalistico, ma solo la spiegazione di
particolari momenti del ciclo capitalistico, per di più spesso su base
puramente «locale», una esperienza nazionale. Quella di una wage-led accumulation
è una illusione in cui Baran e Sweezy non mi pare siano mai caduti.
Non si tratta semplicemente di un ostacolo «politico»: ha a che vedere
con la «relazione di capitale», con il rapporto sociale di produzione.
Dobbiamo aggiungere una cautela, che
segnala un problema aperto. Abbiamo detto che la strategia di
investimento delle imprese dipende dalla capacità produttiva
inutilizzata, la quale a sua volta dipende dalla domanda effettiva. È
però sempre più vero nel capitalismo contemporaneo che lo stesso
investimento dei global player tende coscientemente a creare
capacità produttiva inutilizzata, come forma di concorrenza
«aggressiva» nei confronti dei concorrenti. Vale anche la pena di fare
un rapido cenno ad un aspetto significativo dell’analisi di Baran e
Sweezy, la loro visione dell’imperialismo (poi sviluppata da Harry
Magdoff). Per la Monthly Review l’imperialismo non ha tanto a
che vedere, come per la Luxemburg, con la caccia ai nuovi mercati (che
il capitalismo del centro nel Novecento ha peraltro saputo procurarsi
da sé); e neppure, come in Lenin, con capitali in eccesso che vengono
esportati e creano poi, come conseguenza, sbocchi per le esportazioni
di merci (anche qui, va detto, il capitalismo del centro nel Novecento
ha assorbito capitali più di quanti ne siano defluiti all’esterno).
L’imperialismo per i nostri autori ha semmai a che fare con la difesa
della propria quota di mercato da parte delle multinazionali, e con gli
interessi del blocco militare-industriale.
“Il capitale monopolistico” e la teoria del valore-lavoro
Il capitale monopolistico fu
molto contestato dai marxisti ortodossi. Al cuore di queste critiche
era la tesi che, visto che nel capitalismo della concorrenza tra
oligopoli questi ultimi hanno un potere di mercato sui prezzi, ciò
determinerebbe una tendenza del surplus ad aumentare. Il punto fu letto
un po’da tutti come un rigetto della teoria marxiana del valore e
della crisi. Vi erano, per così dire, delle prove indiziarie a
conferma. Innanzi tutto, lo stile del libro, che volutamente si teneva
distante da un apparato categoriale troppo esplicitamente legato al
marxismo, e che per essere letto dalle nuove generazioni era anzi
declinato su un linguaggio keynesiano o persino neoclassico. Era poi
detto a chiare lettere che gli autori preferivano il concetto di
‘sovrappiù’ come caratterizzato da Baran nel suo Il «surplus» economico –
e cioè come la differenza tra la produzione sociale totale e i costi
sociali necessari ad ottenerlo: questi ultimi essendo definiti in modo
da escludere il lavoro che non avrebbe avuto luogo in un ordine sociale
razionale non capitalistico – alla categoria marxiana di plusvalore:
“È vero che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e delle Teorie del plusvalore
– che il plusvalore comprende [oltre a profitti, interessi e rendita]
anche altri elementi come le entrate dello stato e della chiesa, le
spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori
improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi
come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico
fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa
impostazione non è più giustificata e speriamo che un cambiamento nella
terminologia contribuirà al necessario mutamento nella posizione
teorica” (p. 10-11).
Sicuramente giocava anche la volontà di
distaccarsi nella maniera più nitida possibile dalla caduta
tendenziale del saggio di profitto da aumento della composizione di
capitale, a favore di una determinazione del plusvalore dal lato della
domanda nelle nuove condizioni di un capitalismo non più di libera
concorrenza: senza però che questo capitalismo sempre più «organizzato»
fosse in grado di emanciparsi dalla tendenza alla crisi, che veniva
semmai accentuata, andando così contro le tesi di Hilferding.
Anche in questa circostanza, a distanza
di vent’anni, nella intervista che abbiamo citato Sweezy torna con
note autocritiche sulla questione, e osserva: «Forse è stato un
errore». Con Baran avevano progettato un paio di altri capitoli per
spiegare i rapporti tra illoro impianto concettuale e la teoria
marxiana del valore: capitoli rimasti allo stadio di manoscritto alla
morte di Baran. E nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca
lamenta le incomprensioni rispetto alle loro intenzioni, e chiarisce
che quella che era stata presa come una constatazione ovvia, cioè il
loro abbandono della teoria del valore e del plusvalore di Marx, era
del tutto falso. Con Baran avevano inteso partire da quella teoria per
procedere oltre: anche qui scrive, «vedo ora che fu un errore» non
averlo chiarito. Avrebbero dovuto cominciare da una esposizione della
teoria del valore come si dà nel primo libro del Capitale,
facendo seguire in prima battuta la trasformazione dei valori in prezzi
di produzione come svolta da Marx nel libro terzo, e poi in seconda
battuta il tema solo accennato (per ovvie ragioni storiche) da Marx
della trasformazione dei valori, o dei prezzi di produzione, in prezzi
di monopolio nello stadio monopolistico del capitalismo: «in nessun
momento Baran o io abbiamo rigettato,esplicitamente o implicitamente,
le teorie del valore e plusvalore, ma abbiamo tentato soltanto di
analizzare le modifiche che si devono tenere in conto come conseguenza
della concencentrazione e centralizzazione del capitale».
Il punto è che, come osserva Sweezy
altrove, questa seconda trasformazione ha conseguenze più significative
della prima – una osservazione che mi pare alluda proprio alla legge
dell’aumento tendenziale del surplus. Queste considerazioni di
Sweezy hanno il limite di risultare in larga misura implicite. A volte i
due sembrano ragionare su un semplice paragone tra il capitalismo
degli oligopoli e il capitalismo della libera concorrenza, sostenendo
che il surplus nel primo sarebbe superiore. In altri casi, in
modo più significativo,affermano che la determinazione non
concorrenziale dei prezzi consente di far emergere un sovrappiù più
elevato di quel che deriva dalla mera dinamica del processo immediato
di valorizzazione. È possibile oggi seguire meglio il discorso dei due
autori perché nel numero di luglio-agosto 2012 della «Monthly Review» è
stato pubblicato un testo che Baran (soprattutto) e Sweezy avevano
redatto sulle «implicazioni teoriche» del Capitale monopolistico,
con un prezioso commento di John Bellamy Foster. Un punto importante è
la teorizzazione del salario: non più vincolato alla sussistenza, esso
è (come in Sraffa) variabile e in esso si nasconde parte del surplus.
Il capitale monopolistico può incrementare il sovrappiù non soltanto a
spese del capitale competitivo ma anche a spese dello stesso salario.
La quota del salario che include il sovrappiù non è tanto dovuta al
conflitto sociale, ma al fatto che tramite il salario trova sbocco e
assorbimento la stessa spesa «improduttiva»: si ha qui una acquisizione
di valori d’uso a cui non corrisponde un miglioramento qualitativo
della condizione dei lavoratori. Ciò apre in ogni caso la strada ad
ottenere profitto per «deduzione» dal salario, rallentando la crescita
del valore della forza-lavoro rispetto a quella che si sarebbe
altrimenti avuta.
Sono a questo proposito di
grande interesse, ancora una volta, le considerazioni avanzate da
Claudio Napoleoni. In questo caso il riferimento è ad alcune lezioni
inedite dei primissimi anni Settanta. La difficoltà di leggere il Capitale monopolistico come coerente con la marxiana teoria del valore/plusvalore può essere esposta nei termini seguenti. Nel libro terzo del Capitale
Marx sostiene che monopoli naturali o artificiali rendono possibile un
prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore
delle merci. Marx ritiene però che il modo di determinazione dei prezzi
non possa influire sulla formazione del valore e del plusvalore:
incide soltanto sulla distribuzione del plusvalore tra i vari capitali.
Il prezzo di monopolio consente semplicemente di appropriarsi di una
parte del profitto delle altre imprese, invece di spalmarlo
uniformemente tra tutte. L’unica altra possibilità è che l’extra
plusvalore sia l’esito di una redistribuzione dal salario al profitto.
La forma di mercato interviene quando si deve stabilire come il
plusvalore si divide tra i molti capitali o tra le classi.
Non è difficile, sostiene Napoleoni,
riformulare la tesi di Baran e Sweezy di una crescita tendenziale del
sovrappiù in modo da renderla compatibile con la teoria marxiana del
(plus)valore-lavoro. È vero che il capitale monopolistico non può
produrre plusvalore in eccesso alla situazione di libera concorrenza,
se gli altri fattori rimangono invariati. Vi sono però due processi a
cui accennano i due marxisti americani che possono essere chiamati in
soccorso. Il primo processo ha a che vedere con l’andamento nel tempo della
forza produttiva del lavoro all’interno del capitalismo monopolistico.
Qualora si potesse sostenere che la forza produttiva tende a crescere
nel mondo del capitale monopolistico più di quanto non avverrebbe in
libera concorrenza, per esempio attraverso l’adozione di una tecnologia
migliore, la supposta contraddizione con la teoria marxiana del
(plus)valore svanirebbe. E ciò non soltanto è congruente con il rigetto
da parte dei due autori di ogni critica «romantica» alle forme
imperfette della concorrenza, secondo cui il monopolio comporterebbe
l’arretratezza, ma è coerente con il rapporto intellettuale di Sweezy
con Schumpeter, pur nella reciproca distanza.
Il secondo processo ha a che vedere con
il salario. Il caso di Marx è quello in cui il capitalista che gode di
una posizione oligopolistica è in grado di aumentare i propri salari
trasferendo il maggiore costo del lavoro sui propri prezzi. L’aumento
del salario delle imprese oligopolistiche spinge ad un aumento del
salario delle altre imprese, che vedono così una diminuzione del
proprio profitto. Può però considerarsi anche un altro meccanismo.
L’aumento delle dimensioni di impresa dà luogo ad un abbattimento dei
costi unitari, e consente di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi
di organizzazione del lavoro, il che fa crescere la forza produttiva
del lavoro. Se a questo punto il salario reale e l’intensità
capitalistica crescono nella stessa proporzione, il saggio del profitto
non muta. Il salario reale può essere spinto verso l’alto dalla forza
sindacale, sino ad eccedere gli incrementi di produttività; ma nel
capitale monopolistico i prezzi sono «fatti»dalle imprese. Il possibile
conflitto salariale potrebbe a questo punto essere «accomodato»
dall’autorità monetaria, la quale favorisce quella risposta
inflazionistica da parte delle imprese che è consentita dalla
particolare struttura di mercato, permettendo loro di difendere, o
persino ampliare, i margini di profitto.
Mentre in una situazione di libera
concorrenza il salario reale segue da vicino i movimenti del salario
monetario, le cose stanno diversamente in condizioni di monopolio. Ora
l’incremento della forza produttiva si porta dietro una crescita del
salario monetario che però può essere (più che) eroso dai prezzi.
L’aumento tendenziale del plusvalore che ne discende può essere tanto
più rilevante quanto più, nel capitalismo contemporaneo, il salario
dipende dal conflitto tra le classi sociali, e non da una sussistenza
data. Il problema di trovare uno sbocco al surplus si pone a questo
punto in termini sempre più gravi. Se la domanda per investimenti e
consumi dei capitalisti non è sufficiente ad assorbire il surplus, si
apre un vuoto di domanda, che, se non è colmato per altre vie, rende
soltanto potenziali e non reali i maggiori profitti insiti
nell’accrescimento del sovrappiù.
La difficoltà di realizzo può essere
risolta secondo modi «esterni» o «interni». Limitandoci a ricordare per
il primo versante i già accennati filoni leniniano e luxemburghiano,
concentriamoci sui secondi. Tra i modi «interni» vi sono i seguenti:
spese per pubblicità; formazione di ceti che siano «puri» consumatori
improduttivi; ampliamento delle burocrazie pubbliche e private;
intermediazione commerciale pletorica, espansione della borghesia
finanziario-speculativa. Di qui si origina una domanda di consumo che,
se ha come sorgente ultima il plusvalore, viene immediatamente da ceti
alleati al capitale che si sono appropriati di parte del profitto
lordo. Va anche considerata la spesa pubblica, finanziata in disavanzo,
quando dà luogo alla produzione di valori d’uso che non rientrano
nella riproduzione del capitale. Svolge qui un ruolo centrale la spesa
militare. Commenta Napoleoni nella voce «Capitale» della Enciclopedia Europea Garzanti:
“L’esempio di queste pratiche configura
un capitalismo che è aggressivo verso l’esterno, e che ha rilevanti
elementi di «improduttività» all’interno, dove la «produttività» è
determinata secondo i criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra
parte, il termine di riferimento è costituito dalle potenzialità
implicite nello stesso capitale monopolistico, e non dai risultati
conseguiti dal capitalismo concorrenziale, che aveva una dinamica
certamente meno accentuata. Il capitale monopolistico, che pure ha
modificato sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo
capitalismo, è dunque soggetto ad una particolare instabilità, dovuta
alla compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla
possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica,
derivante dalla difficoltà di realizzazione.”
Nello sviluppo che Napoleoni propone delle tesi del Capitale monopolistico
il punto di vista è integralmente immanente, in contrasto con le
interpretazioni più consuete del libro di Baran e Sweezy. La sua
lettura del capitalismo monopolistico viene prolungata in una
interpretazione della crisi degli anni Settanta dove la variabile
chiave è un aumento del salario relativo (cioè, relativamente al
plusvalore) come reazione all’aumento dello sfruttamento. Secondo
Napoleoni, il capitalismo monopolistico è sfuggito ad una nuova grande
crisi da realizzo mediante l’espansione di un’area di «rendita» (che
Baran e Sweezy avrebbero definito «spreco») la quale, se ha reso la
massa del profitto appropriato dalle imprese minore di quella
potenziale, ne ha però garantito gli sbocchi di mercato. Nel nuovo
contesto, un più alto salario, aggiungendosi alla rendita, potrebbe
comprimere il profitto effettivo. Qualora l’inflazione come meccanismo
di recupero del profitto si rivelasse un’arma spuntata, incapace di
moderare l’aumento delle retribuzioni reali, il salario come costo si
andrebbe ad aggiungere al prelievo costituito dalla rendita: la caduta
del profitto si confermerebbe, determinando una crisi strutturale del
rapporto capitalistico. Se invece l’arma dell’inflazione si rivelasse
efficace, potrebbe avvenire che gli stessi ceti improduttivi diventino
la principale sorgente d’inflazione, determinando così per altra via
una compressione del profitto e la crisi capitalistica. La pressione
dal salario e dalla rendita potrebbe in teoria darsi congiuntamente.
Una riflessione del genere non la si
trova in Baran e Sweezy, ma è a mio parere importante per intendere
appieno la nuova grande crisi capitalistica che mette fine al
cosiddetto «fordismo». Negli anni Sessanta e Settanta il gruppo della
«Monthly Review» giudicava la classe operaia «centrale» integrata, e
scommettevano sui movimenti alla «periferia». Napoleoni era al
contrario convinto che alla fine degli anni Sessanta e neiprimi anni
Settanta si fosse data una acutizzazione del conflitto di classe
nel«centro» stesso del capitalismo. La posizione di Sweezy potrebbe a
prima vista essere assimilata a quella espressa da Kalecki in un
articolo sulla «riforma fondamentale» del capitalismo scritto con
Tadeusz Kowalik. Quella di Napoleoni potrebbe invece sembrare in
continuità con il Kalecki del 1943-44, che negava la possibilità di un
capitalismo di piena occupazione e alti salari come situazione
permanente. Una realtà del genere avrebbe eroso le basi del dispotismo
capitalistico nei luoghi di produzione. I due scritti di Kalecki
sembrano in contraddizione. Nel 1943 il capitalismo keynesiano è
giudicato impossibile, se visto come regime stabile. Nel 1970 la tesi
appare quella di una ormai compiuta stabilizzazione del capitalismo
postbellico, grazie alle politiche economiche keynesiane. Le cose
stanno un po’ diversamente. Nel 1970 i due economisti polacchi
affermano che si sarebbe avuta una «limitata» e «temporanea»
stabilizzazione del capitalismo rispetto all’instabilità drammatica,
politica ed economica, che si era data nell’interludio tra le due
grandi guerre mondiali. Nulla di meno, ma nulla di più: e anche qualche
cosa di largamente condivisibile. Il che non toglie (come Kowalik oggi
riconosce) che Kalecki,come anche Sweezy, sottostimassero le
contraddizioni del capitalismo «centrale»di quegli anni. Su questo
all’epoca lo sguardo di Napoleoni fu più lucido.
La «Monthly Review» e gli anni della «finanziarizzazione»
Si sbaglierebbe a sottovalutare il
seguito dell’elaborazione di Sweezye della «Monthly Review». Come ho
sostenuto con Halevi, il gruppo fu in grado di percepire nitidamente –
molto più nitidiamente del resto del marxismo e del postkeynesismo –
una delle strade di risposta del sistema alla crisi. Dalla fine degli
anni Settanta Sweezy, quasi sempre insieme a Harry Magdoff, apportò un
arricchimento essenziale alla teoria del capitalismo monopolistico,
cogliendo con grande tempestività il ruolo cruciale del debito e della
finanza. In questi scritti – si tratta per lo più di articoli poi
raccolti in volume – si coglie bene il ruolo tanto patologico quanto
funzionale all’accumulazione di questa rinnovata «finanziarizzazione»,
in undialogo a distanza con Hyman P. Minsky.
Già nella seconda metà degli
anni Settanta Sweezy e Magdoff segnalano che l’esplosione del debito,
sia pubblico che privato, introduce meccanismi qualitativamente nuovi, e
segna una discontinuità. I due autori sono pronti a cogliere, al di là
dell’integrazione, la frammentazione della classe lavoratrice, in modi
che mettono in difficoltà la tradizione ricevuta del marxismo, e a
sottolineare come prima necessità la lotta contro queste tendenze
disgregatrici. Nella raccolta del 1977 viene chiarito il nesso che
porta dal capitalismo monopolistico all’indebitamento. Il pezzo
centrale di quel testo si intitola: «Banche: pattinando sul ghiaccio
sottile». Benchè alquanto tecnico, è uno scritto preveggente.
L’espansione dei crediti non era, in prima battuta, dovuta ad
aspettative ottimistiche. Semmai, era diventato lo strumento per far
denaro scommettendo sulla capacità di ripagare i debiti in futuro
nonostante i vincoli posti alla liquidità e la circostanza che
l’orizzonte temporale degli investimenti nello stock di capitale, come
anche del «ritorno» in termini di flussi di cassa, era più lungo di
quanto non fosse quello della restituzione dei prestiti. I due marxisti
identificano, in altri termini, la tendenza ad un «accorciamento»
dell’indebitamento. Pochi anni dopo, nella raccolta del 1981,
individuavano, in tempo reale, l’incremento sistematico del rapporto
tra consumo delle famiglie e reddito disponibile. Si tratta di fenomeni
che discendevano – ma anche, rispondevano – alla tendenza
stagnazionistica, e dunque si avvitavano su se stessi per impedire che
quella tendenza si realizzasse a pieno.
Nella raccolta del 1987 Magdoff e Sweezy sintetizzavano così il loro discorso:
“Tra le forze contrastanti la tendenza
alla stagnazione nessuna è stata così importante, e al tempo stesso
meno compresa dagli analisti economici, della crescita – che inizia
negli anni Sessanta e che rapidamente prende da allora velocità con la
grave recessione degli anni Settanta – dell’indebitamento su scala
nazionale (governo, imprese, individui) ad un ritmo che eccede di gran
lunga quello dell’economia reale. Ne è risultato il costituisi di una
superstruttura finanziaria enorme e fragile in una misura che non ha
precedenti, e che è soggetta a tensioni e scosse che sempre di più
minacciano l’intera economia.”
Si può a questo punto apprezzare quanto Sweezy osserva in una intervista pubblicata dalla «rivista del manifesto» in occasione dei suoi novantanni:
“Il capitalismo si modifica
continuamente; non è mai uguale a se stesso. Questa integrazione
globale di produzione e finanza in una teoria generale del processo
capitalista sta ancora muovendo i primissimi passi; non viene mai
trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono alcuni accenni e anche
Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera e propria
elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta fase storica
che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta avvenendo
oggi. Sia io sia Harry Magdoff sentiamo di essere forse troppo vecchi e
non abbastanza agili intellettualmente per occuparci della questione.
Quello che possiamo fare è incoraggiare i più giovani a riflettervi e
magari a saltare fuori con qualche idea.”
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