di
Peter Radford (dal Real-World
Economics Review Blog)
traduzione
di Domenico D'Amico
Visto
che Washington e l'industria dei media sono totalmente assorbiti dal
fiscal cliff [1], il resto di noi può tranquillamente sedersi
e tirare avanti a campare. Possiamo anche cominciare a discutere dei
fattori che hanno veramente eroso l'economia. Alcuni hanno appena
notato che l'equilibrio tra profitti e salari è completamente fuori
scala. E di molto. Talmente fuori che il nostro futuro dipende dal
concepire una strada per ritrovare un equilibrio migliore.
Si
tratta di un concetto di cui ho trattato diverse volte negli ultimi
anni. Permettetemi una sintesi:
Per
un lungo periodo dopo la II Guerra Mondiale, almeno fino alla fine
degli anni 70, operava negli USA un “contratto sociale” non
scritto ma chiaro.
Questo
dinamismo non era un elemento dell'aggressione ai concorrenti
dell'America – essi erano anche nostri mercati – ma più una
funzione del feedback positivo all'interno dell'economia. I salari in
crescita alimentavano la domanda, che alimentava i profitti, che
creavano opportunità per l'impresa, altri posti di lavoro e altra
domanda. L'economia procedeva su un sentiero di auto-alimentazione,
almeno fino a quando profitti e salari non si fossero esclusi a
vicenda.
Non
era né il paradiso dei lavoratori né il sogno dei capitalisti. Era
un compromesso.
Un
compromesso che portò a due conseguenze.
La
prima fu il crescente compiacimento di una classe media dall'inedita
ricchezza e autonomia. La seconda fu la rabbia repressa nella
comunità d'affari, a cui veniva impedito di “massimizzare” i
profitti.
La
genialità della trasformazione del Partito Repubblicano da parte di
Reagan fu questa: sfruttarne una per gestire l'altra.
Durante
il periodo di stagnazione e alta inflazione alla fine degli anni 70
Reagan riuscì a concepire una strategia antigovernativa che parlasse
alla frustrazione della classe media. I giorni felici degli anni 50 e
60 avevano fatto posto a dubbi sempre crescenti. La classe media,
ormai abituata agli aumenti di stipendio, stava affrontando un
periodo di incertezza economica che stonava col supposto Sogno
Americano. A qualcuno bisognava dare la colpa. Reagan trovò la causa
perfetta per il problema: il big government [troppo stato]. La
sua adozione delle politiche di sostegno all'offerta [supply side
economics] – deregolamentazione insieme a tagli fiscali – era
intesa a scongiurare la stagnazione togliendo di mezzo lo stato e
liberando il potere della magia del mercato.
I
suoi sforzi venivano sostenuti da un esercito di think tank di destra
e lobbisti pesantemente finanziati dal big business. Entrambi
i partiti al Congresso si infatuarono della deregolamentazione.
La
sostanza intellettuale di questa svolta a destra venne fornita da
economisti ortodossi che affermavano, in accordo con la consolidata
tradizione classica, che il libero mercato è sempre preferibile
all'intervento dello stato. Le affinità elettive tra economisti
ortodossi e un Partito Repubblicano in nuova ascesa erano talmente
potenti da eliminare dal tavolo qualsiasi alternativa. I Democratici
furono spinti alla sottomissione dall'incredibile popolarità di
Reagan e del suo messaggio positivo. Non ci fu alcuna effettiva
opposizione alla svolta a destra. Anche i media si adeguarono. Il
risultato fu che l'America è stata dominata dalla politica della
magia dei mercati per quattro interi decenni, inclusa l'era di
Clinton.
Un'ulteriore
componente di questa svolta a destra fu la rapida adozione da parte
del settore affaristico di tecniche manageriali altamente distruttive
che si potrebbero raggruppare sotto l'etichetta “valore
dell'azionista”. Queste tecnologie fornirono la legittimazione per
una serie di pratiche dirigenziali tutt'ora all'opera. La conseguenza
più importante di queste pratiche fu quella di fare del profitto
sempre crescente la motivazione morale degli affari. Nient'altro
aveva importanza. E il profitto doveva aumentare qualsiasi fosse il
contesto. Nel caso di un ristagno dei ricavi, ci si aspettava che la
dirigenza tagliasse i costi per mantenere i profitti in crescita. Il
costo sociale non aveva importanza. L'impatto sull'economia in
generale non aveva importanza. Una di queste tecniche – la “teoria
dell'agenzia” [agency theory] [2] – diede perfino legittimità al
concetto che i manager dovessero avere una quota dei profitti che
ottenevano. Questo avrebbe dovuto far coincidere gli interessi della
dirigenza e quelli degli azionisti. È ciò che ha dato slancio
all'attuale cultura del bonus. Si può sostenere che essa abbia
minato il peso degli azionisti, avendo permesso ai manager di
attribuire a se stessi maggiori profitti di quanto avrebbero ottenuto
altrimenti. Questa panoplia di moderne tecniche di management era
meno efficiente di quanto suggerissero le sue radici ortodosse. Non
di meno, conquistò il dominio su una comunità d'affari più potente
e meno regolata.
La
vicenda è ben nota. Talmente ben nota che, a quanto pare, alcune
delle conseguenze del reaganismo sono state ignorate o accolte con un
moto di sorpresa.
Per
quel che ci riguarda, la conseguenza più grande è stata la
demolizione del contratto sociale postbellico. Uno dei capisaldi di
quel contratto era stata la capacità dei sindacati di organizzarsi e
contrastare il big business. A questo si è provveduto con
leggi contro il sindacato – in un processo che continua tutt'oggi
come si vede dal voto in Michigan di questa settimana [3] In tal modo
i lavoratori hanno perso il loro potere contrattuale, e gli affari
consolidarono il loro predominio in tutte le questioni economiche.
Non
c'è da stupirsi se si scopre che i profitti hanno schiacciato i
salari come componente della ricchezza. I profitti si impennano. I
salari languono.
Coloro
che vivono vendendo la propria forza lavoro hanno la sorte peggiore.
Non solo i vantaggi di un'economia in crescita non vanno nella loro
direzione, ma subiscono anche un maggior onere fiscale. Coloro che
vivono alla grande grazie al capitale godono di privilegi mai visti
da decenni. Godono di ogni possibile esenzione, e la loro fetta del
PIL è in continuo aumento.
L'equilibrio
è definitivamente spezzato.
Enormi
variazioni nella diseguaglianza di reddito ne sono la conseguenza.
I
lavoratori non ottengono più alcun beneficio dal loro aumento di
produttività. I capitalisti sì.
Lo
si chiami come si vuole, questo è conflitto di classe. Solo che qui
in America chi lo chiama così non fa molta strada.
Eppure
le ultime elezioni presidenziali sono stato il secco memento di un
conflitto che sta montando. L'intero processo si è polarizzato
attraverso accuse di comportamento classista. I Repubblicani,
sconvolti dalla sconfitta, si sono concentrati quasi completamente su
accuse del genere. La vittoria di Obama, hanno insinuato, è derivata
da un'insurrezione di scrocconi – i poveri, i deboli, i giovani e
gli anziani, tutti coloro che hanno interesse a conservare il big
government che i Repubblicani stanno ancora cercando di demolire.
È stata ingaggiata una grande battaglia. Ma la nostra élite è
strenuamente impegnata nella negazione di una tale evenienza.
Preferisce ancora credere nella mitica America creata dalla visione
panglossiana di Reagan [4].
Negano
che capitalismo e democrazia siano perpetuamente in conflitto.
Negano
che il contratto sociale sia stato violato.
Negano
che la nostra democrazia sia stata corrotta.
Negano
che la nostra crescente diseguaglianza sia una minaccia per la
stabilità sociale.
Negano
che la nostra economia dipenda dal circolo virtuoso che porta a una
maggiore domanda attraverso maggiori salari.
Negano
che tutti i privilegi e sconti fiscali distribuiti al big business
non hanno portato vantaggi alla società.
Negano
tutto questo, in altre parole, per rendere tollerabile la loro
bancarotta intellettuale e morale.
Ma
c'è un raggio di luce in tutta questa oscurità. I robot non fanno
la spesa. È la gente a farla. E per farla ha bisogno di un salario.
I
Repubblicani hanno dichiarato guerra al big government,
tentando di “affamare la bestia”, togliendogli i fondi da
destinare alle questioni sociali. Analogamente, gli affaristi hanno
affamato un'altra bestia: la classe media. Deprimendo i salari e
spremendo il lavoro per moltiplicare i profitti, la comunità
affaristica ha fiaccato il meccanismo stesso che la nutre. Ha
sottratto alla forza lavoro i fondi necessari per mandare avanti
l'impresa. Ha scoraggiato la domanda. Ha affamato se stessa.
Per
rimetterci in carreggiata dobbiamo tornare al contratto sociale
postbellico. Dobbiamo abbandonare il reaganismo. Dobbiamo rimettere
l'affarismo nel vaso da cui è uscito.
Com'è
che si dice?
Potere
al popolo?
Note
del traduttore
[1]
Fiscal cliff: si tratta di uno spauracchio politico che, come al
solito, evita agli yanqui di affrontare i loro veri problemi
economici e sociali. In brevissima sintesi: alla fine del 2012
avverrà una convergenza tra fattori che potrebbero determinare
grossi guai al bilancio statale, la fine dei tagli ai più ricchi (di
bushiana memoria) e l'arrivo dei tagli alla spesa pubblica che, si
sa, sono cose indispensabili in momenti di crisi. Questo sarebbe il
“precipizio fiscale” all'orizzonte.
[2]
la agency theory analizza il rapporto (e le eventuali differenze di
comportamento) tra due tipi particolari di controparti (ad es.
azionisti e manager o azionisti e creditori). [Investopedia]
“La relazione di agenzia è definita da Jensen e Meckling come "un
contratto in base al quale una o più persone (principale) obbliga
un'altra persona (agente) a ricoprire per suo conto una data
mansione, che implica una delega di potere all'agente". Tale
definizione è molto generale, e comprende qualsiasi relazione tra
due individui, in cui uno dei due delega parte del proprio potere
all'altro. Il contratto di agenzia, però, presenta alcuni rischi,
dovuti al comportamento opportunistico delle parti, che tendono a
massimizzare la propria utilità (tale comportamento opportunistico
non è eliminabile, può essere tuttavia limitato).” [Wikipedia]
[3]
Il progetto di legge “Right to work” sta per essere approvato
definitivamente da Camera e Senato (a maggioranza Repubblicana) del
Michigan. Il “diritto a lavorare” è il termine orwelliano della
legge, che prevede l'eliminazione dei prelievi automatici dalla busta
paga dei contributi per i sindacati che rappresentano i lavoratori di
una categoria o di un'impresa (che contrattano per loro anche se non
iscritti). Sulla carta è un piccolo totem liberale: perché dovrei
pagare per un sindacato a cui non ho scelto di aderire? I Radicali
italiani ci fecero anche un referendum nel 1995. Come si fa a non
essere d'accordo? Il prelievo forzoso è una violazione patente della
“libertà” del lavoratore! Chissà perché, tuttavia, nella
realtà la conseguenza è che il sindacato va a puttane, e il singolo
lavoratore si ritrova “libero” di contrattare col datore di
lavoro, in condizione di schiacciante inferiorità. Sarà un caso che
negli stati dove vigono le leggi del tipo “right to work” i
salari tendono a scendere. Anche da noi c'è stata un po' di aria
fritta spesa sul “diritto al lavoro” della Costituzione e il
“diritto a lavorare” dei liberali alle vongole (© Travaglio).
Alla fine dei conti è la manifestazione coerente del “liberalismo
reale”: il “diritto al lavoro” è un oggetto sociale,
collettivo, mentre il “diritto a lavorare” riguarda il singolo
individuo. Dato che il liberalismo è, nella sua più autentica
radice, l'ideologia di un Herrenvolk
(© Losurdo), ovviamente considera deleterio che la moltitudine suina
(© Edmund Burke) si possa accozzare per limitare il potere della
razza padrona.
[4]
Nell'originale la visione di Reagan viene anche definita
dall'aggettivo “drippy” (sgocciolante), per riferirsi al concetto
di “trickle down economy”, una formula reaganiana che vuol far
credere che se si concedono privilegi ai ricchi qualcosa “colerà
giù” fino ai meno fortunati. Qualcosa come la mensa del Ricco
Epulone.
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