RACCONTA E ANCORA RACCONTA
Nanolitografie di Barack Obama (mezzo millimetro) realizzate con nanotubi di carbonio
Essendo tutt'altro che immune agli effluvi di speranza che si levano dall'intero globo, in amorosa e simbolica rispondenza al primo african american insediatosi (a breve) nella Casa Bianca, mi sento quasi colpevole a occuparmi, di nuovo e ancora, di voluttuariaggini come il cinema coreano.
Ma, insomma, la vita va avanti. Assicurazioni e banche intascano i soldi del bailout e li distribuiscono agli azionisti o li ficcano nel materasso, entro il 2011 gli USA lasceranno l'Iraq lasciandovi megafortezze altro che la Bastiani, e Tremonti (davanti alla Commissione Bilancio) contesta chi dice che le iniziative del governo sono solo finanziarie: e il nucleare cos'è, se non economia reale?
Tanto è in arrivo una nuova Grande Depressione (citata, scusate tanto l'autopromozione, nella primissima pagina del nostro romanzo).
Ma veniamo alle cose davvero importanti.
Dubito che, almeno su questo pianeta, ci sia qualcuno che apprezzi la prassi dell'industria cinematografica janqui di riadattare film stranieri per il mercato interno. Tuttavia, di per sé il remake non è maligno. Da che mondo è mondo le storie vengono narrate e ri-narrate (sorvoliamo sull'eterno interrogativo, se esistano storie che non siano il ri-racconto di un racconto). Il fatto che una delle versioni della storia di Medea, per millanta ragioni, passi oggi per quella autentica, non ci autorizza a dimenticare le altre (Christa Wolf docet). E nemmeno siamo costretti a scegliere tra l'Oreste di Eschilo e quello di Euripide, anche se Aristofane ci fa sapere che il dibattito sul tema remake è antichissimo.
Quindi la questione non è se sia una bella cosa rielaborare un racconto adattandolo all'epoca o al gusto locali: lo si fa e basta. Ma possiamo legittimamente attribuire un valore (più o meno aleatorio) al remake che abbiamo davanti. Certo, con l'avvento della figura dell'autore nella cultura occidentale le cose si sono complicate, tanto da rendere problematico affermare che il Faust di Mann sia una rielaborazione di Goethe, o che l'Ulisse di Joyce racconti di nuovo l'Odissea. Ma, visto che parliamo di remake cinematografici, mettiamo da parte queste difficoltà...
Occorre comunque chiarire l'ovvio: il remake, nel linguaggio corrente, indica un film che trae la sua origine da un altro film. Questo significa che, colloquialmente, non possiamo definire She's the Man un remake della Dodicesima Notte di Shakespeare, così come Cruel Intentions non è un remake delle Relazioni Pericolose di Laclos, o My Fair Lady di Pigmalione, non più di quanto chiameremmo Romeo and Juliet un remake di Matteo Bandello.
She's the Man
Cruel Intentions
Nel cinema statunitense il remake non riguarda solo i film stranieri, al contrario. L'intrattenimento di massa non può certo rinunciare a una buona storia, e se il pubblico cambia, così cambiano anche le penne del racconto. Un esempio per tutti: Prima Pagina. Tra la prima versione, del 1931, e quella successiva del 1940 (quella con Cary Grant)) di Howard Hawks, assistiamo a uno spostamento di genere: il giornalista che vuole sposarsi è uomo in Milestone, donna in Hawks. Le due versioni successive del racconto ripetono il cambio: il celebre film di Billy Wilder con Lemmon e Matthau presenta la versione maschile, mentre il remake di Ted Kotcheff (con Kathleen Turner e Burt Reynolds) torna a quella femminile (e infatti non si rifà affatto a Wilder, ma a Hawks).
Quello che ci interessa, visto che stavamo parlando della nostra possibilità di valutare le singole versioni di un racconto, è come sembri “normale”, nel film del 1940, che la giornalista di punta sia una donna, e come sembri altrettanto scontato, nel 1974 di Wilder, che sia un uomo, per arrivare al 1988 di Kotcheff, con una “normalissima” anchorwoman da prima serata. Avrebbe senso parlare di sessismo, se non fosse che sia Wilder sia Hawks sono una delizia per il palato, mentre l'aver recuperato la protagonista femminile non salva Kotcheff dalla mediocrità.
His Girl Friday
Ma, anche volendoci andar piano coi giudizi di valore, è indubbio che parecchi remake janqui (adesso parliamo dei film stranieri) facciano gridare l'ottava musa come un Bondi che scoprisse che Silvio non l'ha mai veramente amato.
Qui le questioni etiche o ideologiche non vengono trascese dall'arte del racconto. Tanto per dire, tanto in Nikita quanto nel remake la protagonista, a un certo punto, ha un assaggio di vita “normale”, può quasi far finta di non essere un sicario del governo, e conosce un bravo ragazzo che, ovvio, si innamora di lei. Ma il rapporto è travagliato, lei porta scritto in faccia “madonna, se sono traumatizzata”, e di certo non gli può spiattellare “senti, tesoro, sono un'ammazza-poliziotti trasformata dai servizi segreti in un killer di stato, passami l'insalata”... Ora, nell'originale francese il ragazzo in questione, di fronte al segreto grondante dolore della ragazza, assume un atteggiamento di totale apertura e accettazione: le offrirà il cuore (e il suo aiuto) senza condizioni o contropartite. Ma nel rifacimento janqui, probabilmente, questo sarà sembrato poco equanime. Il ragazzo in questione rivendica il suo diritto di avere un ruolo nel rapporto. Omme 'e mmerda. Più che il politically correct, qui emerge lo spicciolo pragmatismo dei manuali USA di savoir vivre, emerite merdate del genere “non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso”.
Tanto per ridire, nel film di Colin Serrau si giunge a una (utopistica) transvalutazione dei ruoli familiari e di genere, fino alla aggregazione di una sorta di neo-famiglia innervata (ecco, di nuovo) dall'accettazione e dal dono di sé. Gli janqui hanno trovato la cosa talmente inaccettabile da dover girare un seguito in cui la situazione scandalosa della povera bambina (una famigliola con mamma e tre papà, non scherziamo: i compagnucci della parrocchietta resteranno traumatizzati) venisse sistemata da un matrimonio riparatore (per quanto non col genitore biologico dell'infante)!
Non ci posso credere, tutto questo sproloquio solo per arrivare al vero argomento di questo post: il remake statunitense di My Sassy Girl.
Non è colpa mia. La natura mi ha fatto logorroico, e il Dottore (che, ricordiamolo, pratica la psichiatria) non è in grado, o non vuole aiutarmi. O forse gli Illuminati tramano contro di me. Va a sapere.
Dicevamo, il remake di My Sassy Girl.
Io non sono uno di quei fanatici che tirano fuori il sovrapposto quando parlano dei film janqui di derivazione orientale. The Ring? Ti sparo in testa! Dark Water? Ti sparo in faccia! Pulse? Ti sparo in bocca! The Eye? Ti sparo negli occhi! La Casa sul Lago del Tempo? Ti sparo nel culo!
Difatti, e so benissimo di rischiare la vita nel dirlo, certi remake possono essere meglio dell'originale. Qui lo dico e qui lo denego, ma, insomma, d'accordo che mettere la bionda Watts al posto di Natsushima sia una limpida metafora del manco tanto velato razzismo che sottende (coesiste e consiste) al protezionismo culturale che genera tanti di questi rifacimenti, ma il Ring rifatto, ammettiamolo, è più impressionante. E direi la stessa cosa per The Grudge, se non fosse che il regista (Takashi Shimizu) è lo stesso, quindi fa categoria a sé.
Con My Sassy Girl USA, invece, sono in una botte di ferro.
Sì, questo film fa pena.
My Sassy Girl
Avevo forse esagerato nel paragonare sfavorevolmente Elisha Cuthbert a Jeon Ji-hyeon (protagoniste delle due Sassy Girl), ma solo in moderazione. L'inerzia, la legnosità che l'attrice janqui sfoggia in questo remake ha del misterioso. Intendo dire che in altre prove, sia televisive sia cinematografiche, l'abbiamo vista recitare passabilmente. Qui no, sembra convinta che una specie di broncio pensieroso sia capace di veicolare le tempeste interiori di una ragazza piuttosto bipolare col cuore parecchio spezzato. Conseguenza, la sua figura perde l'ombra di commossa comicità dell'originale coreano. Ma fosse solo questo. Anche qui, come detto più sopra, si assiste a una insopportabile avarizia sociale da parte degli adattatori statunitensi. Cos'è, era troppo far vomitare la ragazza sul parrucchino di un tizio in metro? Cos'è, mettersi le scarpe di lei, per giunta in pubblico, con la ragazza che corricchia e ridacchia, è troppo degradante per il maschio USA? Non voglio dire che un rifacimento si debba giudicare dagli elementi narrativi che mancano (rispetto alla precedente versione), al contrario, bisognerebbe guardare a ciò che c'è in più e di diverso...
Ma la Sassy Girl USA sembra realizzata sforbiciando pezzi da quella coreana. La deprivazione emotiva, in fin dei conti, rende inspiegabile la storia tra i due protagonisti, lui non è veramente un bamboccione, lei non è veramente instabile... E quello che c'è in più, nella Sassy USA, è un profluvio di spiegazioni psicologiche (del comportamento di lei) che farebbero la gioia di un sociologo da rotocalco.
Accidenti, dico io. Perché, perché lo fate?
Mirrors (remake di Into the Mirror)
The Uninvited (remake di A Tale of Two Sisters)
Attendete.
Tremate.
Molla il mio parrucchino!
Domenico D'Amico