Luca Casarini da Globalproject
Vorrei
provare a dare uno sguardo alle elezioni francesi da un punto di vista
interessato, e quindi per scelta parziale. Mi interessa capire che cosa
indicano i risultati dal punto di vista della società, più che da quello
della politica istituzionale.
Cominciando dal primo dato: numero dei
votanti attorno all’80%, tre punti sotto il 2007. Se pensiamo che questo
è il tempo della massima sfiducia nei partiti e nelle istituzioni, che
la disaffezione alla politica si accompagna al deficit di sovranità e di
democrazia che oggi è palese in Europa, che dalla crisi non solo
nessuno sa come uscirne ma anzi, le soluzioni sono peggiori del
problema, beh alla fine questo dato è ancora più dirompente. Cosa
significa? Che la gente, in Francia come in Italia e in tutta Europa,
alla fine a votare ci va. E in massa. Non resta a casa quasi nessuno, e
probabilmente coloro che avranno gridato i mesi
prima che “a votare non ci vado, sono tutti uguali, etc.” saranno stati
i primi, di buon mattino, ad infilare la scheda nell’urna. Ci piaccia o
no, questa è la realtà. Questo è il comportamento della “classe”
difronte alle elezioni nel pieno della delegittimazione del sistema
della rappresentanza. Mi si dirà che gli apparati di cattura del
consenso capaci di produrre opinione pubblica e di formare immaginari,
sono potentissimi. Che la gente ci va perché ha paura, perché cerca
qualcosa per uscire dalla crisi, perché l’hanno convinta, perché,
perché, perché. Non me ne frega niente, o meglio, tutto molto
interessante. Ma il dato di realtà, ciò che fanno tutti, milioni e
milioni, la stragrande maggioranza delle persone in carne ed ossa,
operai, impiegati, studenti, disoccupati, e quindi quel metaforico 99% a
cui ci si riferisce sempre, è che votano. Da queste parti, in Europa, è
così. Traduzione: la sfiducia e l’ostilità verso
il sistema della rappresentanza non si traduce in un suo rifiuto da
parte dei cittadini. Quindi potremmo anche dire che la crisi della
rappresentanza genera molte cose nella società, nel rapporto con i
partiti, come ad esempio la percezione diffusa della fine del loro ruolo
di rappresentanza degli interessi sociali, ma al voto si va lo stesso.
Ma dunque perché tutti vanno a votare?
E qui la seconda considerazione:
ci vanno quando è in gioco un cambio di governo possibile. Cioè nessuno
vota il partito per essere rappresentato in Parlamento, ma perché si
schiera, o auspica di contribuire a far si che uno schieramento, vada al
governo. La crisi della rappresentanza in questo caso è piena: nessuno
crede più che con il diritto di Tribuna in Parlamento del proprio
partitino, possa realmente cambiare qualcosa. Non ci credono nel dal
basso del corpo elettorale, né dall’alto dei gruppi dirigenti.In questo
senso è finito il parlamentarismo. La grande
massa degli elettori vota per il governo, non per essere rappresentata.
Una riflessione la merita però anche il cosiddetto voto di protesta, il
“voto della collera” come è stato definito in Francia. Differente, a
destra e a sinistra, per qualità, prospettive e quantità. L’estrema
destra fa il pieno di voti come non mai, con Marine Le Pen, come qui
probabilmente lo farà Grillo. Le storie diverse di queste formazioni,
non devono ingannare: è il populismo becero, tendenzialmente xenofobo e
arrogante, che ha sia nella versione antieuropeista e nazionalista della
Le Pen, sia nella versione tecnoqualunquista di Grillo, una matrice
comune. E’ il populismo demagogico, quello di chi la spara più grossa,
al quale già la Lega ci aveva abituato. I populismi hanno origini e
carismi diversi, a seconda dell’aggregatore che li organizza, ma alla
fine tendono ad incontrarsi tutti, e tutti sugli stessi punti: gli
immigrati basta cacciarli, dall’euro
basta uscire, l’europa basta che sia un campo di combattimento tra
patrie o stati o visioni tecnologiche, e così via. Sarebbe un errore
pensare che Marine Le Pen è più “nazista” di Grillo: sono e diverranno
sempre più populisti di destra, e raccoglieranno consensi perché in
questa chiave leggeranno la crisi. Ed è più facile oggi convincere con
questi argomenti “il popolo”, che non con la solidarietà, la democrazia,
il bene comune. La quantità di voti, come dimostra la Francia e
dimostrerà l’Italia tra poco, è molto più alta verso queste formazioni
che a sinistra.
O per dirla meglio: il populismo di sinistra, che
pure
caratterizza spesso la narrazione facilona costruita dalla propaganda
per ricevere il voto, è troppo timido, ha troppi problemi di coscienza
per sfondare: il complotto delle banche e della finanza sono discorsi
che trovi a destra come a sinistra, ma se non ci aggiungi che gli
zingari vanno cacciati dai quartieri,
che i posti di lavoro devono essere riservati agli autoctoni, che gli
immigrati portano le malattie etc, etc., le preferenze si orienteranno
per il populismo più forte, più radicale, senza mediazioni. E questo
riguarda le prospettive della polarizzazione a sinistra, de “la rive
gauche”. Anche qui c’è una grande differenza con la destra. Melenchon,
con il suo risultato inferiore a ciò che era stato previsto (addirittura
doppiato da quel Front National che doveva battere) non ha
potuto far altro che annunciare il suo sostegno, per il secondo turno,
ad Hollande. Intanto perché parte di coloro che l’avevano votato, al
secondo turno comunque voteranno contro Sarkozy. Il secondo motivo è che
solo in coalizione ci sono chances. Invece la destra non ha di questi
problemi. L’appello della Le Pen “ai patrioti di destra e di sinistra”
rivela un disegno più complesso sull’interpretazione appunto del voto di
protesta. Un disegno che dimostra come la prospettiva del populismo di
destra possa contare su una maggiore ampiezza di percorso. E anche su
una maggiore indipendenza da Sarkozy. Infatti la sconfitta di Sarkò non
sarebbe poi così male per il FN, che diventerebbe il polo rinnovato sul
quale riorganizzare una destra disintegrata dopo l’avventura
fallimentare “dell’ungherese”.
Tutto
questo che cosa ci dice, sempre da quel punto di vista parziale di cui
sopra? Che ad esempio in questa fase la grande questione è come
organizzare FUORI dalla dinamica e dalla finalità elettorale, un blocco
sociale capace di leggere la crisi e affrontarla “da sinistra” senza
cadere nel populismo. Assistiamo a tempi nei quali la vicenda elettorale
viene utilizzata come motore per organizzare il soggetto sociale e
politico. Ciò che accade in Francia e che si ripeterà probabilmente in
Italia su quel versante, ci dimostra che invece il problema non si
aggira: è fuori e prima che il soggetto politico e sociale deve prendere
forma, organizzarsi attraverso processi che hanno al centro la capacità
di esercitare una forza attraverso il conflitto contro la governace
della crisi. E’ evidente che ciò che accadrà in Francia e in Germania, e
tantopiù in Italia dal punto di vista delle elezioni, deve
interessarci, ma potremo non esserne travolti o
ubriacati solo se ancoriamo nella società reale e non solo in funzione
delle elezioni, la costruzione di nuova soggettività.
Le elezioni, come
fanno anche gli elettori, vanno prese per quello che sono: non vi sono
rappresentabili interessi generali, non vi sono parlamenti in cui
sperare di avere qualche posto per fare “da sponda alle lotte sociali”.
Vi sono lotte sociali e governi, e si scontrano o dialetizzano
direttamente. Vi sono dinamiche di governance che possono incepparsi a
causa di contraddizioni che rivelano diverse tendenze
intercapitalistiche, di gestione della crisi. Se uno legge le
dichiarazioni di questi giorni che il board del Fondo Monetario ha fatto
uscire attaccando la conduzione tedesca delle politiche di austerity,
comprende che non siamo in presenza di una granitica ed omogenea
espressione di interessi comuni, quando parliamo della governance. Vi
sono linee di tendenza diverse, che
dipendono da molte questioni. Il FMI auspica l’introduzione degli
Eurobond, la fine del rigorismo della Bundesbank, il ritorno a politiche
monetarie espansive che invertano la recessione. E perché, forse che
Madame Lagarde si è scoperta socialista? Semplicemente se l’Europa non è
più in grado di acquistare merci americane e cinesi, costituisce un
problema. Perché l’Europa non è solo la Germania che esporta. E quindi
Hollande, paradossalmente, forse è più sostenuto che non avversato in
questo momento, da una delle grandi centrali della governance globale
che auspica un cambio in Europa, della politica imposta dalla
Germania.
Questi cambi, questi inceppamenti e fibrillazioni sulla
dimensione del comando, a chi sta fuori possono far bene. Senza mai
pensare che risolvano, in radice, i problemi. Solo una combinazione di
molti fattori, fuori e dentro le istituzioni, e fuori e dentro l’Europa,
possono determinare cicli di cambiamento, fasi di
indebolimento della dinamica di controllo sui processi di crisi e
quindi momenti di espansione dell’alternativa. Ma se non si consolidano
nella società vittorie concrete, come ad esempio quella sull’articolo
18, sul salario e il reddito, non vi sarà nessun cambiamento per via
elettorale. Soprattutto non vi sarà se si pensa di poter rappresentare
per via elettorale, ciò che si muove fuori dai palazzi. Non è più
possibile farlo, se mai lo è stato. Oggi chi sceglie di presentarsi alle
elezioni, dovrebbe avere il coraggio di dire perché lo fa. E se ci
racconta che è per uscire dalla Nato o nazionalizzare le banche, ci sta
prendendo per il culo. Alla gente invece, quella vera, non la
imbroglierà. Perché voteranno Grillo, che insieme all’uscita dall’euro
propone la cacciata dei Rom. La prima non la otterrà mai, ma la seconda è
sempre a portata di mano.
Da fuori possiamo e dobbiamo interloquire con
chi sceglie di proporsi alle elezioni
come alternativo a ciò che esiste ora. Ma senza tanti discorsi. Su
questioni concrete. Come concreta è la constatazione che con il 2% dei
voti, o il 4 non stai discutendo con niente, ma solo con qualcuno che ha
il problema della rappresentanza propria.
mercoledì 25 aprile 2012
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