sabato 14 aprile 2012

Ribellarsi e ribellarsi ancora, finché gli agnelli diventeranno leoni (repost 7 Agosto 2011)

di Franco Cilli

La premessa è sempre la solita: “siamo un gruppo di cittadini, associazioni, movimento, partito, bocciofila ecc pacifici, nonviolenti, noi non siamo come…”. I supposti violenti sono a seconda delle stagioni autonomi, centri sociali, black block, NO TAV cattivi per distinguerli da quelli buoni e così via. Ormai abbiamo introiettato il mantra della non violenza e il condizionamento è tale che rispondiamo con un riflesso pavloviano a qualsiasi insensata accusa di violenza, disposti persino a barattare una vetrina rotta con la violenza ben peggiore e più sistematica degli stati. Siamo in larga parte supini alla logica di chi maledice la violenza dei cittadini, mentre benedice al contempo la violenza degli stati, sempre legittima purché quest’ultimi mostrino la patente di democratici ( ma chi gliela data questa patente a costoro?). I buoni liberali come i radicali, cioè fra le persone peggiori al mondo, si dichiarano non violenti, ma non pacifisti, avvalorando così il principio della necessità di una dialettica “democratica” e non violenta fra cittadini e stato, in concorrenza per l’affermazione di spazi di libertà, e avvalorando al tempo stesso l’idea dell’assenza di un principio di regolamentazione analogo fra stato e stato. Da hobbesiani militanti i "radicali" sono convinti che i rapporti fra stati sovrani siano subordinati al rispetto di una gerarchia di valori che vede gli stati democratici detentori del diritto dell’uso della violenza laddove questi si ritengano aggrediti o addirittura nella versione neocon, laddove la costituzione degli stati stessi non corrisponda ai criteri di democrazia. Appare evidente che tale teoria si basi su un puro arbitrio, assegnando agli stati che si autoproclamano democratici il diritto di vita o di morte su altri stati non ritenuti tali. In altre parole se dico che l’Iraq non è uno paese democratico, non sono tenuto a nessun rispetto di un patto di non belligeranza con il medesimo, nel momento in cui avverto che la mia sicurezza può essere da esso minacciata, ed anzi ho l’autorità morale se non addirittura il dovere di “esportare” la democrazia in questo paese. La regola vale anche se si inventano frottole sulle armi di distruzione di massa e sulla complicità con Al-Qaeda: se un paese democratico per eccellenza dice che la sua sicurezza è minacciata la sua parola vale molto di più di quella di un paese che non appartiene al club delle democrazie, soprattutto se i suoi cittadini hanno la pelle un po’ scura ed evocano l’immagine del selvaggio da colonizzare. In base a questa logica se rompi una vetrina o semplicemente ti difendi dall’aggressione da parte del braccio armato militare dello stato, sei un potenziale terrorista assassino, se invece inneggi alla guerra santa contro l’islam invasore e benedici le “guerre democratiche”, sei uno che ha un’opinione tuttalpiù discutibile, ma pur sempre legittima. Non ci sto, queste teorie sono un atroce inganno prima che un’aberrazione logica. O si afferma il principio che la violenza deve necessariamente essere commisurata ai rapporti di forza, sebbene mascherati ipocritamente da un’etica dei valori o da presunti patti sociali, o si è costretti a svincolare il discorso della violenza da categorie astratte e riportarlo alla cruda realtà dei fatti, considerando torti e ragioni dentro una logica puramente discorsiva e non delegata ad organismi istituzionali, assegnando di conseguenza le responsabilità a secondo dei casi. Il che conduce ad evidenti aporie, dove l’unico sbocco possibile è una rivoluzione politico-sociale con un cambio radicale del concetto di rappresentanza, prefigurando una graduale omologazione della "società civile" con le istituzioni pubbliche. Il sogno spinoziano del potere delle moltitudini.
Tornando con i piedi per terra sul pianeta Italia voglio dire che i sensi di colpa per colpe che non abbiamo, o che tuttalpiù vanno condivise ampiamente con uno stato stragista come il nostro, hanno indotto in molti di noi la passività e la remissività del colpevole, innescando un gioco al rialzo sul tema della non violenza. Si è fatto a gara in questi anni a dichiararsi più non violenti di un monaco buddista lobotomizzato (frase già usata, ma di effetto), credendo che qualsiasi distinguo o potesse essere visto come una giustificazione alla violenza. Personalmente sono nauseato da tanta remissività, considerato con chi abbiamo a che fare. Non ho nessuna intenzione di disquisire sulla legittimità dell’uso della violenza, è un discorso che appartiene al passato e non ha più senso farlo, un passato in cui l'espressione dell'interesse di classe approdava alla concezione della violenza come "levatrice della storia" e necessario dipositivo tattico. Oggi la violenza di classe è ancora un dato piaccia o non piaccia, ma non possiamo ripercorrere sentieri già percorsi e riproporre simmetrie fra lavoro e capitale che hanno portato solo al disastro. Le simmetrie ci sono, ma è il concetto di contropotere che va riformato. Ad ogni modo non intendo minimamente ratificare il principio che l’onere del conflitto sociale sia unicamente a carico della società civile. Reclamo il diritto all’autodifesa da parte dei più deboli, e non in virtù della violazione di un ipotetico patto fra cittadini e stato, un patto che nessuno di noi ha sottoscritto, bensì in ragione dell’unica cosa che ci rende umani: la nostra coscienza, quella scintilla che ci mostra in maniera “ chiara ed evidente” l’immagine di una realtà piegata agli interessi dei pochi, una realtà costellata di ingiustizie e di miserie. Mi rendo conto che il discorso è come si dice complesso e non privo di contraddizioni. È facile obiettare che se il metro di giudizio che guida l’azione è la coscienza del singolo, allora chiunque si può sentire autorizzato a qualsiasi gesto. Purtuttavia questa obiezione è un inganno evidente: la coscienza non è prerogativa del singolo individuo, ma è una consapevolezza e una percezione collettiva della realtà, maturata nella storia dei popoli e delle genti ed è questa percezione che da un senso alla realtà che ci circonda, quel senso condiviso che ci rende capaci di distinguere il giusto dall’ingiusto e il folle da sano.
Ribellarsi secondo coscienza è giusto è sacrosanto, difendersi è un diritto ed un dovere verso di noi e verso gli altri.
In buona sostanza mi sento di dire che se non raddrizzeremo la schiena, reclamando il diritto alla ribellione ed evitando di avallare una finta distinzione fra buoni e cattivi, all’avanzare della crisi e all’aumentare conseguente della repressione da parte dello stato o di chi per esso, saremo condannati alla stanca ripetizione di rituali consunti che non incideranno di una virgola sulla decisioni prese sopra le nostre teste e il peso della società civile sarà pari a zero. 
Come ribellarsi senza fare e farsi del male è un dibattito aperto.

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