giovedì 21 giugno 2012

Alexis Tsipras: il greco all’attacco del cartel party


 Marino De Luca (da spinningpolitics)
 
Siamo partiti in quattro per seguire il voto in Grecia. Telecamera, taccuino e zaino in spalla. Trentacinque gradi e un vento piacevole da sud, dal mare. Non ci siamo trascurati troppo nei sapori. Mezédes, Tzatzíki e Oúzo. È la Grecia che ti aspetti. Nei colori, negli odori, nella faccia della gente. L’autostrada, tra l’aeroporto Venizelos e la capitale, costellata da cartelloni pubblicitari vuoti. Completamente grigi. Ma la crisi è più nelle parole che negli occhi. Occhi che parlano ancora bene “l’ospitalità”.
Seguiamo Syriza, fenomeno politico degli ultimi mesi. Dal quasi niente al quasi tutto in pochi anni. Il più grande partito della sinistra che lascia comunisti e socialisti ben isolati. I primi nell’esasperazione di una coerenza ideologica, i secondi nella responsabilità di una gestione “criminale” della cosa pubblica. La Grecia al voto, questa volta, è quella che non ti aspetti. Impaurita, attenta e disillusa. La Grecia che non si autodetermina, o forse sì. La Grecia che subisce la mobilitazione internazionale e le impennate dei mercati finanziari. “Siamo tutti greci” ci dicono.
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La Grecia è un test. Un doppio esperimento “storico” per l’Europa così come la conosciamo. Da una parte il tentativo di verificare e collaudare lo schema economico-politico della finanziarizzazione del capitale mondiale. Dall’altra, il tentativo di ricostruire una nuova architettura di democrazia sociale attraverso l’unione dei partiti antisistema. Il laboratorio Grecia rappresenta la linea del fronte tra queste due forze in guerra. La vittoria di uno dei due modelli implicherebbe la condizione minima, ma non necessaria, per l’estensione dell’impianto al resto dell’Europa.


Ritorna così in modo sfumato il concetto di classe nella trasformazione dei partiti. “Non ci si raggruppa perché si hanno le stesse opinioni. Ma perché si appartiene alla stessa classe sociale; ci si raggruppa perché si è operai, o borghesi o contadini”. La fine di questa idea aveva decretato la fine del partito di massa nella sua forma di rappresentante assoluto dell’infrastruttura sociale. Successivamente si consolidavano concetti come  conversione e volatilità che spazzavano via i teoremi sulla mobilitazione. Gli elettori diventavano consumatori da “catturare”. E ancora. Il partito si professionalizzava e subito dopo si cartellizzava intorno alla figura dello Stato. Il partito cartello, nuova forma di un’organizzazione istituzionalizzata.
Ma la crisi precarizza, si sa. Manifesta “uno sviluppo che la società non riesce ancora a metabolizzare positivamente”. Uno sviluppo che supera l’equilibrio delle relazioni sociali, creando una contraddizione, un disagio sociale e un impoverimento. Non riuscendo più a produrre per gli altri, gli individui diventano incapaci di riprodurre se stessi. Il futuro, così come lo leggiamo, non può che spingere verso una crescita della “proletarizzazione” di tutta l’amalgama “postmaterialista”. Ma ancora più importante, non può che riversarsi in una neopolarizzazione intorno al fattore crisi. Prendiamo il caso della “classe intermedia” in Grecia. Rasa al suolo negli ultimi anni e spinta verso la soglia di povertà. I meccanismi di resistenza li conosciamo. Rabbia, paura e sacrifici. Negli ultimi mesi, però, si è sviluppata una consapevolezza del nuovo “ruolo” sociale e una maggiore interiorizzazione della condizione economica. Diventa difficile parlare di classe, ma più facile di condizione precaria. Una condizione che presuppone una forma di contrapposizione sociale e politica al sistema in generale e al “cartello” dei partiti nello specifico.
Il partito cartellizzato affonda così le proprie radici nello Stato. Scrive le regole e soprattutto stabilisce le sovvenzioni. Il finanziamento diventa cosa buona e giusta e “lo Stato una struttura istituzionalizzata di sostegno, che agisce a favore di chi è dentro ed esclude chi è fuori”. I soggetti all’interno tendono verso un modello di collusione e di cooperazione interpartitica e i ruoli  sfumano in una compenetrazione. Ancora qui la Grecia ci viene in aiuto. Anche se lontani da una vera e propria tradizione politica di cooperazione, i due principali partiti Pasok e Nuova Democrazia hanno sviluppato negli ultimi 40 anni un sistema clientelare e di lottizzazione. Complice anche un complicatissimo sistema elettorale a base proporzionale che penalizza fortemente il secondo partito e gli altri partiti minori. Il reciproco interesse alla sopravvivenza spinge i partiti a non competere. Un ulteriore esempio da manuale è il caso italiano di “clientelismo condiviso” dei principali partiti, comprese le forze comuniste, tradizionalmente all’opposizione.
Le elezioni a questo punto possono diventare un feticcio e la democrazia un elemento di legittimazione molto vicino al concetto amministrativo di prestazione pubblica. Le forze contrastanti sono ignorate o successivamente cooptate in cambio di una fedeltà formale. I nuovi partiti emergenti cercano di “rompere” con la politica tradizionale, spesso nella retorica di un cambiamento che occulta un sentimento di avvicendamento strategico. Ma spesso ci si rifugia nella radicalità del sistema. Basti pensare al successo del Fronte Nazionale in Francia o alla stessa Alba Dorata in Grecia. L’opposizione assume caratteri propriamente non democratici e sempre più posizioni reazionarie.
Syriza rappresenta come da copione una sfida ai partiti cartello, ma non solo. La rottura oltre che dal tratto profondamente competitivo è data dalla volontà – vista come demagogia dai principali partiti e dal sistema internazionale – di rompere il legame con lo Stato. La sfida internazionale è certamente ritrattare il memorandum e gli accordi con la UE, ma lo scontro nazionale è nella riduzione coatta della dipendenza finanziaria statale. “Votiamo Syriza perché rappresenta il cambiamento”. E Syriza cambia forma. Da 12 forze politiche punta a diventare un grande partito di massa. A questo punto due strade sono cautamente ipotizzabili. La prima, il partito anticartello riesce a rompere il legame con lo Stato e a preparare il ritorno di una nuova forma di partito di massa. La seconda, il partito si cartellizza e si immette come forza di cambiamento all’interno del sistema già noto. In tutte e due i casi, ovviamente, incombe l’incognita crisi.
Se i più potenti uomini del pianeta discutono di Syriza vuol dire che qualcosa è successo. Forse Obama non sa chi è Tsipras o dove si trova geograficamente la Grecia, ma sicuramente conosce Syriza. Nella sua forma a metà strada tra salto nel vuoto e rivoluzione democratica.

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