Marino De Luca (da spinningpolitics)
Siamo partiti in quattro per seguire
il voto in Grecia. Telecamera, taccuino e zaino in spalla. Trentacinque
gradi e un vento piacevole da sud, dal mare. Non ci siamo trascurati
troppo nei sapori. Mezédes, Tzatzíki e Oúzo. È la Grecia che ti aspetti.
Nei colori, negli odori, nella faccia della gente. L’autostrada, tra
l’aeroporto Venizelos e la capitale, costellata da cartelloni
pubblicitari vuoti. Completamente grigi. Ma la crisi è più nelle parole
che negli occhi. Occhi che parlano ancora bene “l’ospitalità”.
Seguiamo Syriza, fenomeno politico
degli ultimi mesi. Dal quasi niente al quasi tutto in pochi anni. Il più
grande partito della sinistra che lascia comunisti e socialisti ben
isolati. I primi nell’esasperazione di una coerenza ideologica, i
secondi nella responsabilità di una gestione “criminale” della cosa
pubblica. La Grecia al voto, questa volta, è quella che non ti aspetti.
Impaurita, attenta e disillusa. La Grecia che non si autodetermina, o
forse sì. La Grecia che subisce la mobilitazione internazionale e le
impennate dei mercati finanziari. “Siamo tutti greci” ci dicono.
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La Grecia è un test. Un
doppio esperimento “storico” per l’Europa così come la conosciamo. Da
una parte il tentativo di verificare e collaudare lo schema
economico-politico della finanziarizzazione del capitale mondiale.
Dall’altra, il tentativo di ricostruire una nuova architettura di
democrazia sociale attraverso l’unione dei partiti antisistema. Il
laboratorio Grecia rappresenta la linea del fronte tra queste due forze
in guerra. La vittoria di uno dei due modelli implicherebbe la
condizione minima, ma non necessaria, per l’estensione dell’impianto al
resto dell’Europa.
Ritorna così in modo sfumato il concetto di classe nella trasformazione dei partiti.
“Non ci si raggruppa perché si hanno le stesse opinioni. Ma perché si
appartiene alla stessa classe sociale; ci si raggruppa perché si è
operai, o borghesi o contadini”. La fine di questa idea aveva decretato
la fine del partito di massa nella sua forma di rappresentante assoluto
dell’infrastruttura sociale. Successivamente si consolidavano concetti
come conversione e volatilità che spazzavano via i teoremi sulla
mobilitazione. Gli elettori diventavano consumatori da “catturare”. E
ancora. Il partito si professionalizzava e subito dopo si cartellizzava
intorno alla figura dello Stato. Il partito cartello, nuova forma di
un’organizzazione istituzionalizzata.
Ma la crisi precarizza, si sa. Manifesta “uno sviluppo che la società non riesce ancora a metabolizzare positivamente”.
Uno sviluppo che supera l’equilibrio delle relazioni sociali, creando
una contraddizione, un disagio sociale e un impoverimento. Non riuscendo
più a produrre per gli altri, gli individui diventano incapaci di
riprodurre se stessi. Il futuro, così come lo leggiamo, non può che
spingere verso una crescita della “proletarizzazione” di tutta
l’amalgama “postmaterialista”. Ma ancora più importante, non può che
riversarsi in una neopolarizzazione intorno al fattore crisi. Prendiamo
il caso della “classe intermedia” in Grecia. Rasa al suolo negli ultimi
anni e spinta verso la soglia di povertà. I meccanismi di resistenza li
conosciamo. Rabbia, paura e sacrifici. Negli ultimi mesi, però, si è
sviluppata una consapevolezza del nuovo “ruolo” sociale e una maggiore
interiorizzazione della condizione economica. Diventa difficile parlare
di classe, ma più facile di condizione precaria. Una condizione che
presuppone una forma di contrapposizione sociale e politica al sistema
in generale e al “cartello” dei partiti nello specifico.
Il partito cartellizzato affonda così le proprie radici nello Stato.
Scrive le regole e soprattutto stabilisce le sovvenzioni. Il
finanziamento diventa cosa buona e giusta e “lo Stato una struttura
istituzionalizzata di sostegno, che agisce a favore di chi è dentro ed
esclude chi è fuori”. I soggetti all’interno tendono verso un modello di
collusione e di cooperazione interpartitica e i ruoli sfumano in una
compenetrazione. Ancora qui la Grecia ci viene in aiuto. Anche se
lontani da una vera e propria tradizione politica di cooperazione, i due
principali partiti Pasok e Nuova Democrazia hanno sviluppato negli
ultimi 40 anni un sistema clientelare e di lottizzazione. Complice anche
un complicatissimo sistema elettorale a base proporzionale che
penalizza fortemente il secondo partito e gli altri partiti minori. Il
reciproco interesse alla sopravvivenza spinge i partiti a non competere.
Un ulteriore esempio da manuale è il caso italiano di “clientelismo
condiviso” dei principali partiti, comprese le forze comuniste,
tradizionalmente all’opposizione.
Le elezioni a questo punto possono
diventare un feticcio e la democrazia un elemento di legittimazione
molto vicino al concetto amministrativo di prestazione pubblica. Le
forze contrastanti sono ignorate o successivamente cooptate in cambio di
una fedeltà formale. I nuovi partiti emergenti cercano di “rompere” con
la politica tradizionale, spesso nella retorica di un cambiamento che
occulta un sentimento di avvicendamento strategico. Ma spesso ci si
rifugia nella radicalità del sistema. Basti pensare al successo del
Fronte Nazionale in Francia o alla stessa Alba Dorata in Grecia.
L’opposizione assume caratteri propriamente non democratici e sempre più
posizioni reazionarie.
Syriza rappresenta come da copione una sfida ai partiti cartello, ma non solo.
La rottura oltre che dal tratto profondamente competitivo è data dalla
volontà – vista come demagogia dai principali partiti e dal sistema
internazionale – di rompere il legame con lo Stato. La sfida
internazionale è certamente ritrattare il memorandum e gli
accordi con la UE, ma lo scontro nazionale è nella riduzione coatta
della dipendenza finanziaria statale. “Votiamo Syriza perché rappresenta
il cambiamento”. E Syriza cambia forma. Da 12 forze politiche punta a
diventare un grande partito di massa. A questo punto due strade sono
cautamente ipotizzabili. La prima, il partito anticartello riesce a
rompere il legame con lo Stato e a preparare il ritorno di una nuova
forma di partito di massa. La seconda, il partito si cartellizza e si
immette come forza di cambiamento all’interno del sistema già noto. In
tutte e due i casi, ovviamente, incombe l’incognita crisi.
Se i più potenti uomini del pianeta
discutono di Syriza vuol dire che qualcosa è successo. Forse Obama non
sa chi è Tsipras o dove si trova geograficamente la Grecia, ma
sicuramente conosce Syriza. Nella sua forma a metà strada tra salto nel
vuoto e rivoluzione democratica.
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