lunedì 18 marzo 2013

Crisi finanziaria e governo dell'economia (parte I)

di Alberto Bagnai da costituzionalismo

Abstract – La crisi dei subprime è stata il detonatore della crisi dell’eurozona. Fra le concause di queste due crisi molti annoverano difetti di regolamentazione dei mercati finanziari. In questo lavoro, più che considerare l’aspetto microeconomico della questione, ci soffermiamo su quello macroeconomico. L’asimmetria del sistema monetario internazionale rende ineluttabili copiosi afflussi di capitali verso gli Stati Uniti, aprendo la strada a un loro impiego inefficiente (come i mutui subprime) e quindi a ricorrenti shock reali sul resto dell’economia globale. L’asimmetria e la scarsa fondatezza teorica ed empirica delle regole europee rendono inevitabile l’accumulazione di debito privato nei paesi della periferia, fragilizzando l’intera Unione rispetto a shock esterni, come previsto dalla teoria delle Aree Valutarie Ottimali. Purtroppo, le riforme delle regole proposte nel dibattito corrente, quando non sono evidentemente insostenibili sotto il profilo politico, sembrano andare in direzione di un aggravamento di questi mali.
« L'obscurité n'est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir. »
Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.

1. Introduzione

Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici, geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime - omos - ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto - orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?
Rinuncio fin da ora al secondo obiettivo: vivrò senza sensi di colpa la mia faziosità, sapendo di rivolgermi a un pubblico che ha gli strumenti critici per difendersi qualora le mie tesi non lo convincano, e soprattutto qualora lo convincano. Per lo stesso motivo rinuncerò al parlare oscuro (utile, come ci ricorda Stendhal, quando si parla a giovanotti ansiosi di sfoggiare il proprio sapere): parlando a un pubblico maturo sceglierò la strada della semplicità, sperando di non compromettere il rigore dei miei argomenti. Rivolgendomi a dei giuristi la linea di attacco più naturale mi sembra quella di riflettere sulle relazioni fra la crisi e le regole, scritte o non scritte, che governano il sistema finanziario internazionale. Avrete notato che in questo periodo gli economisti (non tanto quelli accademici, quanto i “tecnici” e le istanze politiche che li esprimono) stanno chiamando al soccorso i costituzionalisti: le attuali strategie di contrasto alla crisi propongono l’iscrizione in costituzione di regole di politica finanziaria particolarmente rigide, come il pareggio del bilancio. Per i giuristi, chiamati a giocare, se pure in un ruolo notarile, la parte dei salvatori, ci sarebbe di che inorgoglirsi, ma credo ci sia soprattutto di che riflettere. Quale e quanta razionalità esprimono queste richieste?
Più in generale, l’evidenza ci suggerisce che la crisi attuale dipende dall’irrazionalità di certi movimenti internazionali di capitali, e diventa urgente chiedersi quanto questo disordine sia reso possibile, quando non esasperato, dalla “costituzione materiale” del sistema monetario internazionale, e da alcune regole di rilevanza “regionale” (nell’accezione che il termine ha in economia internazionale): e qui, ovviamente, mi riferisco all’Unione Economica e Monetaria (UEM) europea.
Non possiamo certo riformare il mondo in venti cartelle, ma dare una rappresentazione accessibile e documentata dei problemi di fondo è un obiettivo degno di essere perseguito. Se sia raggiungibile o addirittura raggiunto lo giudicheranno i lettori. Articolerò il tentativo in cinque paragrafi. Nel secondo valuterò la compatibilità dei principali “fatti stilizzati” che descrivono il funzionamento del sistema finanziario mondiale con alcuni principi basilari del pensiero economico. Nel terzo li rileggerò alla luce dell’analisi keynesiana dell’instabilità dei mercati finanziari, illustrando poi le tappe della controriforma teorica che ha portato ad affermare la superiorità delle regole fisse sugli interventi discrezionali in politica economica: una controriforma che costituisce in qualche modo il sostrato della costruzione europea, tutta regole e parametri. Nel quarto mi concentrerò sulle criticità determinate dalla struttura asimmetrica del sistema monetario internazionale. Nel quinto studierò la relazione fra alcune regole proposte dal Trattato sull’Unione Europea e la cosiddetta crisi dei debiti “sovrani”. È segno di buona volontà e onestà intellettuale concludere un lavoro indicando prospettive. Ci proverò (temo con scarso successo) nel paragrafo di conclusioni.

2. Omodossia

«Il est démontré, disait-il, que les choses ne peuvent être autrement : car tout étant fait pour une fin, tout est nécessairement pour la meilleur fin»
Voltaire, Candide, I, 45.

2.1 Il bicchiere mezzo vuoto e quello mezzo pieno

Se stiamo parlando di crisi finanziaria è perché qualcuno ha preso in prestito dei soldi che non riesce a restituire, e la crisi è internazionale perché creditore e debitore risiedono in paesi diversi. Per definizione quindi il problema esiste perché esistono i movimenti internazionali di capitali, cioè perché i risparmi accumulati in un paese possono essere impiegati in un altro paese (sottolineo, en passant, che questo non è di per sé un dato distintivo della moderna globalizzazione, ma qualcosa che è sempre successo)[1]. Ci sarà utile qualche precisazione terminologica.
Gli economisti parlano di importazione di capitali quando i capitali affluiscono in un paese. Questo significa in parole povere che il paese in questione si sta indebitando con l’estero, e quindi accumula passività (perché si presume che i capitali in questione non siano regalie, ma crediti, che, per chi li riceve, sono debiti). Notiamo che all’afflusso di capitale farà riscontro il deflusso di un reddito nei periodi successivi, visto che sui debiti si paga un interesse. La fuoriuscita di capitali è invece un’esportazione di capitali: in questo caso il paese sta accumulando crediti, cioè attività, e al deflusso di un capitale farà riscontro il successivo afflusso di redditi, visto che sulle somme prestate si esige il pagamento di un interesse.
Nessun paese ha solo debiti o solo crediti: la posizione creditoria/debitoria di un paese viene quindi valutata in termini netti (attivo meno passivo). La variazione di questa posizione netta sull’estero (cioè l’accreditamento/indebitamento estero netto di un paese) è il saldo delle “partite correnti” della bilancia dei pagamenti. Concorrono ad esso il saldo commerciale e quello dei redditi, il che significa, in buona sostanza, che un paese si indebita con l’estero se spende (per importazioni e pagamenti di interessi) più di quello che guadagna (per esportazioni e riscossione di interessi); di converso, un paese, per avere risorse da prestare all’estero, dovrà aver guadagnato (esportando) più di quanto ha speso (importando)[2]. Questo dato contabile abbastanza ovvio (anche ognuno di noi si indebita se spende più di quanto guadagna) ha una conseguenza: un paese importatore netto di beni (cioè con deficit delle partite correnti) è anche un importatore netto di capitali, e simmetricamente un paese esportatore netto di beni è anche esportatore netto di capitali. Ciò raccorda le dinamiche finanziarie (indebitamento/accreditamento) a quelle reali (acquisto/vendita di beni).
La comunicazione dei fatti economici tende a essere sempre schermata da valutazioni moralistiche. Il medesimo fenomeno può essere presentato surrettiziamente come positivo o negativo a seconda di quale termine (sempre tecnicamente corretto) si decida di adottare. Esempio: quando i giornali lamentano il fatto che il nostro paese non è sufficientemente attrattivo per i capitali esteri, stanno in effetti deplorando che il nostro paese non si stia indebitando abbastanza con l’estero. Insomma, da prospettive diverse lo stesso fenomeno si presenta in modo molto diverso. In effetti, nessuna variabile economica, e quindi tanto meno l’indebitamento con l’estero (movimenti internazionali di capitale in entrata), è di per sé “buona” o “cattiva”. È banalmente una questione di misura: il troppo stroppia. Sarebbe bello poter dare una valutazione più paludata in vesti scientifiche, ma purtroppo non è possibile. Uno dei limiti, ampiamente riconosciuti e ammessi, della scienza economica è proprio quello di non essere riuscita a fornire una definizione scientificamente fondata da un lato, e operativa dall’altro, del concetto di sostenibilità del debito[3]. Ne è prova il fatto che Nigel Chalk e Richard Hemming intitolano la loro rassegna “la sostenibilità in teoria e in pratica”, proprio per sottolineare questo insanabile scollamento fra teoria economica e indicatori utilizzati in pratica da istituzioni e mercati. Questo limite riconosciuto va ovviamente tenuto ben presente ogni qual volta vengano proposte regole di politica economica che hanno per scopo quello di garantire la “sostenibilità” delle finanze pubbliche, concetto che, come abbiamo visto, può apparire univoco solo a chi non lo ha studiato in termini scientifici.
Un’ultima precisazione: un paese non coincide con il suo settore pubblico e quindi, ad esempio, il debito estero dell’Italia (cioè i soldi che il “sistema paese” riceve dal resto del mondo), non coincide con il debito pubblico dell’Italia (cioè con i soldi che il governo prende a prestito, in Italia e all’estero). È un dato ovvio, ma conviene precisarlo, perché i mezzi di comunicazione ci bombardano con un messaggio fuorviante: nei loro resoconti il debito è tutto pubblico, un po’ come nel dizionario dei luoghi comuni di Flaubert gli agenti di borsa sono tutti ladri, gli architetti tutti imbecilli, le imperatrici tutte belle. Non mi intendo di architetti o imperatrici, ma certamente il debito non è tutto pubblico, e in particolare i capitali che viaggiano da un paese all’altro lo fanno principalmente per sovvenire a esigenze finanziarie del settore privato. In altre parole, indebitamento (deficit) pubblico e indebitamento (deficit) estero non sono “gemelli”. Di norma e in media un punto di indebitamento pubblico si scarica sull’estero solo per un terzo, il che significa che di norma e in media i due terzi degli afflussi di capitale di un paese sono assorbiti dal (cioè sono debito del) settore privato[4].

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