Questa è una domanda che non dovremmo
mai porci perché è una trappola. Racchiudere l'economia dentro le
mure domestiche del pater familias, facendo la trasposizione
del bilancio dello stato in quello della serva, è un colossale
inganno, e questo lo capisce anche chi economista non è. L'economia
non è una scienza esatta, bensì un congegno che ci permette
(dovrebbe permetterci) di fare in modo che la produzione e lo scambio
delle merci creino le condizioni ottimali per soddisfare i bisogni di tutti. È
un artificio dove non conta la partita doppia, conta sfamare la
gente. È
così da sempre, da sempre lo stato si regge sul deficit, e adesso
vorrebbero farci credere che l'economia è quella scienza per cui se
io ho cento non posso spendere più di cento, trascurando di dirci
che in ogni caso di quel cento il 20% della popolazione si accaparra
ottanta e il restante 80% il 20. Vivono di deficit gli Stati Uniti,
vive di grande deficit il Giappone, che tuttalpiù adesso deve
guardarsi dalle trappole della liquidità, abbiamo vissuto noi di
deficit fino a 20 anni fa. Adesso ci dicono che non è più
possibile, che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Alcuni apparentemente saggi ci dicono che la spesa pubblica è il
forziere nelle mani di chi alimenta il suo potere con clientele e
prebende. Ma qui sta il punto: non si può identificare la spesa
pubblica con il parassitismo. Chi ha detto che la spesa pubblica deve per forze essere sinonimo di corruzione e spreco? La spesa pubblica può essere una buona
spesa senza per questo diventare lo strumento di ricatto di una
classe politica parassita e spendacciona.
Siamo
arrivati al paradosso che le destra oggi ha assunto il monopolio sia
delle politiche austeritarie che di quelle antiausteritarie. C'è una
destra degli oligarchi, in piena sintonia con una sinistra
socialdemocratica, che segue i diktat imposti dall'alto e c'è una
destra, spesso la trasmutazione transitoria di quella delle
oligarchie, che cavalca il malcontento popolare e assume la paternità
di politiche espansive e di deficit spending. Questo è il dato
saliente della politica italiana ed europea in generale, il concetto
di spesa e l'uso strumentale che se ne fa, non dove si prendono i
soldi, i soldi sono un'entità astratta, non si prendono, si creano e
si spendono.
In Italia abbiamo un grosso problema: ci troviamo al
punto di dover scegliere fra civiltà e sopravvivenza senza sapere
che l'una non sussiste senza l'altra. Seppellire (politicamente)
Berlusconi e la sua subcultura mediatica è un dovere di civiltà, ma
se la civiltà diventa il paravento dell'inciviltà, e cioè l'alibi
per fare un favore alla oligarchie, allora molta gente sarà
propensa, seguendo la pancia, a scegliere la sopravvivenza a scapito
della civiltà, e sfido chiunque a dargli torto. Tutti persino
Grillo, e persino un giornale come il Fatto cadono nella trappola dei
conti in ordine e della partita doppia, commettendo l'ingenuità di
sfidare un governo mostruoso come quello Letta sul terreno della
spesa, un terreno che ci sta inghiottendo nelle sue sabbie mobili.
Alla fine si crea una gran confusione e le uniche forze che chiedono
a gran voce un'inversione di rotta dell'economia e un Europa dei
popoli e non delle banche, vengono messe all'angolo, schiacciate dall'illusione grilliana e dalla
macchina da guerra di una destra dalla doppia faccia e in grado di
adattarsi plasticamente agli umori del popolo.
Il
fallimento del liberismo è sotto gli occhi di tutti, tanto che
persino il FMI oggi raccomanda per l'Europa ricette che sono tutto
l'opposto di quelle liberiste che ha imposto finora in America Latina, eppure quando
una simile mostruosità, come quella del Fiscal Compact è avviata è
difficile fermarla, ma se la sinistra vuole ritrovare un'identità,
non può fare altro che segnare un discrimine netto e profondo con
quelle politiche economiche che contraddicono la sua natura
egualitaria e il suo senso di giustizia.
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