di Guido Viale da ComeDonChisciotte
Lo scontro sul Tav porta alla luce la vera natura di questo governo; un consesso di presunti tecnici che però non sa confrontarsi con quei 360 tecnici veri - praticamente tutti quelli che in Italia hanno una competenza in materia - che hanno chiesto un ripensamento su un progetto tanto inutile. D'altronde, per averne una conferma, basta pensare ai numeri di Monti sui futuri effetti dei primi decreti del Governo: PIL +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti +18 (e quando mai? Mai). Neanche il mago Otelma... Il governo Monti ha sì una politica economica: quella di riportare in pari il bilancio a suon di tasse, tagli al welfare e svendita dei servizi pubblici (la polpa: il saccheggio dei beni comuni). E di affidare la cosiddetta crescita a qualche liberalizzazione pasticciata e marginale e al finanziamento di alcune Grandi Opere incluse nella legge obiettivo, senza neanche un criterio per definirne le priorità: il Tav Torino-Lione è l'emblema di questo modo di fare. Ma quello che al governo Monti è inviso e del tutto estraneo è il concetto stesso di politica industriale (che cosa, con che cosa, per chi, come e dove produrre). Cioè l'idea che per fare fronte alla crisi, alla disoccupazione, al degrado ambientale e sociale, ai cambiamenti climatici (a cui Monti non ha mai fatto nemmeno cenno: sono cose che per lui non esistono) occorra intervenire sia dal lato dell'offerta (promuovendo produzioni e soprattutto riconversioni produttive di imprese altrimenti votate alla sparizione), sia dal lato della domanda: creando o sostenendo il mercato delle produzioni che hanno un futuro. In entrambi i casi si tratta di settori decisivi per la riconversione ecologica del sistema produttivo e dei consumi, ma anche per difendere l'occupazione; per creare e sostenere impieghi di qualità, per valorizzare gli studi altrimenti sprecati di centinaia di migliaia di giovani senza prospettive e le competenze difficilmente recuperabili di lavoratori anziani o solo maturi espulsi dalle imprese insieme al loro bagaglio di esperienza. I settori decisivi in questo processo sono quelli delle fonti rinnovabili, dell'efficienza energetica, dell'agricoltura e dell'industria alimentare ecologiche e di prossimità, del riciclo totale di scarti e rifiuti, della salvaguardia degli assetti idrogeologici, del recupero edilizio, della mobilità sostenibile e flessibile. Ma innanzitutto è essenziale un recupero di democrazia. Non è possibile - dicevano i sindacati firmatari del diktat di Pomigliano - difendere i diritti in fabbrica senza le fabbriche. Giusto. Ma è vero anche, e soprattutto, l'inverso: senza democrazia in fabbrica e nel paese le fabbriche scompaiono. E infatti, mentre il governo e partiti che lo appoggiano si impuntano sul Tav, facendone la bandiera di un approccio senza futuro ai problemi dell'economia, dei territori e della convivenza, Marchionne fa capire (ammiccando e negando, come si conviene a chi procede per gradi su un cammino già tracciato) che trasferirà negli Usa la direzione e quel che resta del "cervello" della Fiat; che chiuderà uno a uno i suoi stabilimenti e che trasformerà in "fabbriche cacciavite" per il mercato americano (se, e solo se, laggiù la bonanza dura) gli impianti che restano; che dovranno comunque competere con quelli di Polonia, Turchia, Serbia e Brasile, dove i salari sono al minimo vitale, l'ambiente è alla mercé del profitto e lo Stato ci mette un mucchio di soldi. Poi vanno alla malora due dei gruppi residui del sistema industriale italiano (Finmeccanica e Fincantieri) travolti da ruberie impunite e da un'assoluta mancanza di progettualità. Chiudono a un ritmo sempre più rapido migliaia di fabbriche e di imprese piccole e medie, di cui nessuno parla, aggiungendo centinaia di migliaia di disoccupati a quelli già per strada e a quelli a cui sta scadendo la cassa integrazione. Per questo lo scontro in atto sul Tav è l'emblema di un conflitto che riguarda tutto il paese e che mette una di fronte all'altra, da un lato, una politica economica rovinosa e inconcludente, che abbina uno spreco indecoroso di risorse pubbliche a un'avarizia distruttiva nella spesa per il sostegno al reddito, per l'istruzione, la cultura, la ricerca, i servizi pubblici. E dall'altro lato, la volontà di salvaguardare e valorizzare le competenze e la qualità delle risorse umane e del territorio che quella politica sta condannando a un esito greco. Per questo la partecipazione del movimento NoTav alla manifestazione della Fiom di oggi non è un fatto marginale: è il riconoscimento della connessione indissolubile tra la lotta dei metalmeccanici - e di tutto il mondo del lavoro sotto attacco - e quella della Valsusa - e di tutti i territori su cui ha messo le mani la speculazione. Ma è anche la conferma di una estraneità ormai consumata tra l'universo politico e istituzionale italiano e tutto il resto della cittadinanza attiva di questo paese: dei suoi problemi, delle sue sofferenze, delle sue aspettative; e soprattutto dei progressi nella costruzione di un'alternativa concreta. Ma a chi compete mettere in campo un progetto realistico di politica industriale, orientata alla conversione ecologica e innanzitutto alla riconversione produttiva delle imprese condannate a morte? Se il governo e i partiti che lo sostengono non dimostrano alcuna volontà, o capacità, o anche solo una vaga idea, di una impresa del genere, bisogna cominciare, e seriamente, dal basso: lavorando alla convocazione, in ogni territorio dove se ne presenti la possibilità, a partire da quelli - e sono ormai la maggioranza - dove la crisi sta mettendo alle corde un'intera comunità, di una serie di "conferenze di produzione". Comitati, movimenti, sindacati, associazioni, imprese pubbliche, private, cooperative o sociali, professioni e amministrazioni locali. Per mettere in campo idee, progetti, condizioni di fattibilità e promuovere la conversione ecologica del proprio territorio. Certo, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare; ma se non si comincia a dire - dopo aver studiato il problema (e nei territori le competenze tecniche per farlo certo non mancano) e dopo aver messo in chiaro le divergenze ed eventualmente separato le strade - a dirlo tutti insieme, resteremo per sempre nelle mani dei fautori del Tav. Invece bisogna tradurre quelle idee e quei progetti in piattaforme rivendicative dettagliate nei confronti del governo - di qualsiasi governo - e poi esigere che su quei progetti vengano impegnati i fondi dispersi nelle Grandi opere, nelle spese militari, nei tesoretti della politica, nei contributi a pioggia questo e quello (e sono tanti!). Che cosa si farà alla Fiat quando Marchionne avrà abbandonato Mirafiori, o Pomigliano, o entrambi? Aspetteremo un produttore fantasma di Suv come a Termini Imerese o all'Irisbus? Non si può mettere in campo una produzione di microcogeneratori, come quelli che alla Fiat erano stati inventati quarant'anni fa e che la Volkswagen si è messa a produrre e a collocare l'anno scorso? Oppure produrre pompe di calore, rotori eolici, impianti solari termodinamici e simili (tutte cose per le quali non è difficile ricostruire un'impiantistica e un knowhow adeguati)? E che cosa si farà in Fincantieri quando la Costa non ordinerà più altri gerontocomi da crociera e lo Stato cesserà di far costruire navi da guerra? Non c'è forse un grande bisogno di trasferire su mare larga parte del trasporto di lunga percorrenza, costoso e inquinante, che corre da un capo all'altro della penisola? O di mettere in cantiere una produzione di pale eoliche di altura (due proposte che la Fiom aveva tentato di lanciare nel luglio scorso, senza che un solo sindaco, una sola associazione, e persino un solo sindacalista dei cantieri sotto scacco mostrasse il minimo interesse per la questione)? E che cosa si può fare per risanare Finmeccanica? Concentrarsi sull'industria delle armi e svendere l'unica fabbrica di quei treni di cui c'è un disperato bisogno? E come rinnovare il parco dei mezzi pubblici? Di esempi se ne possono fare mille, ma fare proposte non tocca a me. Ma nemmeno solo alla Fiom, né solo agli operai delle fabbriche in crisi. E' alla convocazione delle conferenze di produzione che va lanciata la sfida.
Fonte: www.ilmanifesto.it 9.03.2012
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