da gennarocarotenuto.it
Dopo il default, quello vero, quello del 2001 provocato dal
fallimento strutturale del modello neoliberale, l’Argentina di Néstor
Kirchner e poi di Cristina Fernández, aveva raggiunto accordi col 92.4%
dei creditori per la ristrutturazione del debito. Restavano un manipolo
dei più avvoltoi dei fondi speculativi, quelli che dagli anni ’80
reaganiani in qua si arricchiscono sulla fame dei popoli spostando
capitali da un angolo all’altro del mondo e mandando in rovina
l’economia reale con un click.
A quelli, ai fondi speculativi che detengono il 7.6% del debito
argentino, la corte suprema di un paese terzo, gli Stati Uniti, aveva
dato ragione, obbligando il paese a pagare non le condizioni pattuite
col 92.4% restante dei creditori, ma fino all’ultimo dollaro. In buona
sostanza quel tribunale ha affermato che, nonostante quel debito fosse
palesemente usuraio, contratto da un governo corrotto e violatore dei
diritti fondamentali della popolazione, costruito per portare un paese
alla rovina e spolparlo fino alle ossa e nonostante 9 creditori su 10
avessero accettato l’idea di aver già speculato abbastanza
sull’Argentina, considerando infine equo quanto proposto dal legittimo
governo di Buenos Aires, questa dovesse comunque pagare quel debito
ingiusto pena un capestro che vorrebbe far ripiombare nel caos un paese
di 40 milioni di abitanti.
L’Argentina, pur restando in una situazione complessa sulla quale s’è
più volte scritto, in questo decennio ha rialzato la testa in tanti
modi, innanzitutto tornando ad essere un paese più giusto, con lo Stato
che ha ripreso il suo posto, con una politica dei diritti umani modello
per tutto il mondo e tornando ad essere un attore dell’economia
internazionale. Lo ha fatto dopo che i 13 anni del cambio uno a uno col
dollaro, preteso dall’FMI e accettato supinamente dai governi
fondomonetaristi e costato la morte per fame di migliaia di bambini,
l’avevano di fatto esclusa dall’economia reale, quella produttiva, nella
quale un paese avanzato come l’Argentina produce di suo ed esporta sui
mercati.
È in questo contesto che matura questo strano default che è una
continuazione della guerra economica per strangolare il paese e
seguitare a speculare. Di questa guerra sono complici le istituzioni
finanziarie internazionali, le compagnie di rating, i fondi speculativi.
L’Argentina in questi anni ha compiuto alla lettera i propri impegni di
pagamento. Ancora lunedì, tre giorni fa, ha versato al Club di Parigi
ben 650 milioni di dollari. Ora quello che c’è in ballo con questa
sentenza non è tanto sedare gli appetiti degli avvoltoi ma rimettere in
discussione oltre 500 miliardi di dollari che i vecchi creditori
potrebbero pretendere con ricorsi a cascata una volta riaperta la porta.
L’obbiettivo è sempre quello: porre fine all’anomalia latinoamericana,
di governi che nell’ultimo decennio si sono allontanati dall’ortodossia
monetarista e riprendere possesso da padroni di quello che dalle
dittature genocide alla notte neoliberale hanno considerato loro.
L’Argentina però non solo ha agito in queste settimane con serietà e
coerenza per ottenere condizioni giuste e legali e depositando al Banco
Mellon di New York la somma dovuta come garanzia. L’Argentina, che era
completamente isolata nel 2001, oggi non è sola. Ha la solidarietà di
tutta l’America latina integrazionista, dal Brasile al Venezuela, ma
anche di paesi come il Messico e la Francia, oltre che di grandi paesi
come la Cina e istituzioni come il G77 e perfino della Unctad. Il mondo è
cambiato non solo in peggio in questi tredici anni, gli avvoltoi che
volano sul cielo di Buenos Aires vogliono riportarlo agli anni ’90.
giovedì 31 luglio 2014
mercoledì 30 luglio 2014
Da Renzi dialogo zero. E il senato va nel caos
di Daniela Preziosi da Il Manifesto
Riforme. Il premier non accetta mediazioni, Grasso spiana il dibattito, votazioni a passo di carica. Strilli, canguri, voti a tamburo battente, regole stracciate. Così nasce la nuova Costituzione
Succede quello che si temeva, sperava, paventava, organizzava e tentava di sventare da giorni. Il governo sembrava pronto a discutere con le opposizioni sulle riforme costituzionali? Era uno scherzo, un sapiente lavoto di spin. Oppure Renzi ha capito di avere la maggioranza ed ha cambiato idea. Si doveva discutere sulla democrazia diretta, l’equilibrio dei poteri, i referendum? Si fa il braccio di ferro, e la discussione diventa caos.
La mattina del giorno che doveva essere quello della mediazione, il capofila dei dissidenti Pd Vannino Chiti espone in aula il suo ramoscello di pace: per non disperdersi «in migliaia di emendamenti», si può concentrare la discussione sulle «proposte fondamentali» entro l’8 agosto, per poi rimandare l’approvazione finale a settembre «così da consentire ai cittadini di percepire la serietà e del confronto parlamentare». La ministra Boschi tace. Sel, 5 stelle, Lega, spiegano che se c’è un gesto di buona volontà gli emendamenti ostruzionistici — solo quelli — si possono ritirare. Ma il gesto non arriva. La ministra Boschi anzi sceglie con cura le parole per far saltare i nervi alle opposizioni: «Il governo ha dato prova di collaborazione e volontà di mediazione» in questi mesi «ma non può sottostare al ricatto ostruzionista» non è concepibile, «che sia la minoranza ad affermare le proprie ragioni a scapito della maggioranza». Mediazione fallita. La riunione dei capigruppo poi sancisce la fine del dialogo fra sordi. Sel offre il ritiro di 1475 emendamenti ma, spiegherà poi in aula De Petris «evidentemente si voleva girare un altro film».
Alle tre del pomeriggio l’aula riattacca i lavori. Ma c’è un fatto nuovo: Pietro Grasso, quello che il Pd aveva duramente contestato per aver accettato alcuni voti segreti («i regolamenti sono chiari», si era giustificato), quello a cui da giorni le opposizioni si rivolgono con rispetto e gratitudine, si è trasformato. È un’altra persona. Va avanti tutta. Per primo fa approvare, su richiesta del Pd, un emendamento sulla parità di genere. Poi parte il braccio di ferro dei voti segreti. Si inizia con l’1.29 di Sel. È il primo voto segreto che Grasso ha ammesso, lo rende obbligatorio una citazione delle minoranze lingustiche. Ma Grasso è pronto a spacchettarlo, l’aula si infiamma, i grillini urlano il loro grido di battaglia «non-si può», «non-si-può». Grasso interrompe, alla ripresa il disordine è peggio, De Petris ritira l’emendamento e lo trasforma in un ordine del giorno. È una tecnica ostruzionistica, la ripeterà varie volte. Arriva l’emendamento 1.28, dice che le camere debbono essere elette con il «suffragio universale diretto»: se passa, salta l’elezione indiretta del senato. Si vota se votare, come in un aula magna occupata dagli studenti. Il librone bianco e rosso dei regolamento è il best seller su tutti i banchi. Il forzista Schifani fa l’elogio del voto segreto ma poi è dice sì a quello palese, i grillini fanno l’elogio del voto palese ma poi sono per quello segreto. Il centrista dissidente Di Maggio attacca: «La maggioranza teme il voto segreto, delle due l’una: o non è una maggioranza o ha i suoi parlamentari ricattati».
A questo punto è Chiti a rispondere: «Il voto segreto non tutela i senatori del Pd, non ne abbiamo bisogno». Avanti a singhiozzo, a strilli, a strappi. Il forzista Paolo Romani: «Prendiamo atto che così non si può andare avanti. Decidiamo una volta per tutte come si fa il voto segreto». Grasso non intende prendersi la responsabilità di decidere — che pure gli spetta per regolamento. Va avanti. Parte il cannoneggamento contro Sel. Arriva il sottosegretario Lotti e dichiara: l’atteggiamento di Sel «preclude ogni alleanza futura, soprattutto sul territorio. Non so voi, ma io un accordo politico con chi distrugge la Carta non lo farei». Sel buttata fuori da tutte le alleanze? Il vendoliano De Cristofaro replica in aula: «Non ci ricattate. Una resa senza condizioni non ci sarà». Accanto a lui c’è il senatore Dario Stefàno, già candidato alle primarie della Puglia. La Lista Tsipras fa sapere che oggi i senatori di Sel sono attesi al loro sit in al Pantheon. Intanto Grasso procede a passo di carica con il «canguro», la tecnica di accorpamento degli emendamenti. Nessuno capisce quello che vota, M5S chiede uno stop: «Ci ha fatto saltare d’un salto 600 pagine». A fine serata mancano ancora più di 4mila emendamenti. Renzi sa che alla fine la riforma passerà, ma vuole scaricare la figuraccia sulle opposizioni, «la palude». In serata scrive su facebook: «La nostra determinazione è più forte dei loro giochetti. Andiamo avanti pronti a discutere con tutti ma non ci faremo mai ricattare da nessuno».
Riforme. Il premier non accetta mediazioni, Grasso spiana il dibattito, votazioni a passo di carica. Strilli, canguri, voti a tamburo battente, regole stracciate. Così nasce la nuova Costituzione
Alle 16 e 50 il senato entra ufficialmente nel più totale inarrestabile inemendabile caos. Così va avanti fino a notte. L’aula esplode, i 5 stelle battono le mani sui banchi e urlano «non-si-può»,«non-si-può», le cravatte verdi dei leghisti garriscono come bandiere; dalla parte opposta dell’emiciclo la senatrice De Petris si sbraccia per intervenire. I democratici sonnecchiano ma i grillini li provocano: «Vi ha scritto il compitino Renzi». E allora quelli: «è a voi che lo scrive Grillo»; il torinese Esposito, era un dalemiano prima del ciclone Renzi, «smettetela di dire che siamo ricattati»; il capogruppo Pd Zanda «Andremo fino in fondo, vogliamo lavorare in pace»; dai banchi grillini si alza un cartello sarcastico «Grasso cedi la poltrona a Zanda». E Petrocelli (M5S): «Grasso si sta comportando come lo zerbino della maggioranza, se oggi non ci sono stati i tumulti, occhio a domani».
Succede quello che si temeva, sperava, paventava, organizzava e tentava di sventare da giorni. Il governo sembrava pronto a discutere con le opposizioni sulle riforme costituzionali? Era uno scherzo, un sapiente lavoto di spin. Oppure Renzi ha capito di avere la maggioranza ed ha cambiato idea. Si doveva discutere sulla democrazia diretta, l’equilibrio dei poteri, i referendum? Si fa il braccio di ferro, e la discussione diventa caos.
La mattina del giorno che doveva essere quello della mediazione, il capofila dei dissidenti Pd Vannino Chiti espone in aula il suo ramoscello di pace: per non disperdersi «in migliaia di emendamenti», si può concentrare la discussione sulle «proposte fondamentali» entro l’8 agosto, per poi rimandare l’approvazione finale a settembre «così da consentire ai cittadini di percepire la serietà e del confronto parlamentare». La ministra Boschi tace. Sel, 5 stelle, Lega, spiegano che se c’è un gesto di buona volontà gli emendamenti ostruzionistici — solo quelli — si possono ritirare. Ma il gesto non arriva. La ministra Boschi anzi sceglie con cura le parole per far saltare i nervi alle opposizioni: «Il governo ha dato prova di collaborazione e volontà di mediazione» in questi mesi «ma non può sottostare al ricatto ostruzionista» non è concepibile, «che sia la minoranza ad affermare le proprie ragioni a scapito della maggioranza». Mediazione fallita. La riunione dei capigruppo poi sancisce la fine del dialogo fra sordi. Sel offre il ritiro di 1475 emendamenti ma, spiegherà poi in aula De Petris «evidentemente si voleva girare un altro film».
Alle tre del pomeriggio l’aula riattacca i lavori. Ma c’è un fatto nuovo: Pietro Grasso, quello che il Pd aveva duramente contestato per aver accettato alcuni voti segreti («i regolamenti sono chiari», si era giustificato), quello a cui da giorni le opposizioni si rivolgono con rispetto e gratitudine, si è trasformato. È un’altra persona. Va avanti tutta. Per primo fa approvare, su richiesta del Pd, un emendamento sulla parità di genere. Poi parte il braccio di ferro dei voti segreti. Si inizia con l’1.29 di Sel. È il primo voto segreto che Grasso ha ammesso, lo rende obbligatorio una citazione delle minoranze lingustiche. Ma Grasso è pronto a spacchettarlo, l’aula si infiamma, i grillini urlano il loro grido di battaglia «non-si può», «non-si-può». Grasso interrompe, alla ripresa il disordine è peggio, De Petris ritira l’emendamento e lo trasforma in un ordine del giorno. È una tecnica ostruzionistica, la ripeterà varie volte. Arriva l’emendamento 1.28, dice che le camere debbono essere elette con il «suffragio universale diretto»: se passa, salta l’elezione indiretta del senato. Si vota se votare, come in un aula magna occupata dagli studenti. Il librone bianco e rosso dei regolamento è il best seller su tutti i banchi. Il forzista Schifani fa l’elogio del voto segreto ma poi è dice sì a quello palese, i grillini fanno l’elogio del voto palese ma poi sono per quello segreto. Il centrista dissidente Di Maggio attacca: «La maggioranza teme il voto segreto, delle due l’una: o non è una maggioranza o ha i suoi parlamentari ricattati».
A questo punto è Chiti a rispondere: «Il voto segreto non tutela i senatori del Pd, non ne abbiamo bisogno». Avanti a singhiozzo, a strilli, a strappi. Il forzista Paolo Romani: «Prendiamo atto che così non si può andare avanti. Decidiamo una volta per tutte come si fa il voto segreto». Grasso non intende prendersi la responsabilità di decidere — che pure gli spetta per regolamento. Va avanti. Parte il cannoneggamento contro Sel. Arriva il sottosegretario Lotti e dichiara: l’atteggiamento di Sel «preclude ogni alleanza futura, soprattutto sul territorio. Non so voi, ma io un accordo politico con chi distrugge la Carta non lo farei». Sel buttata fuori da tutte le alleanze? Il vendoliano De Cristofaro replica in aula: «Non ci ricattate. Una resa senza condizioni non ci sarà». Accanto a lui c’è il senatore Dario Stefàno, già candidato alle primarie della Puglia. La Lista Tsipras fa sapere che oggi i senatori di Sel sono attesi al loro sit in al Pantheon. Intanto Grasso procede a passo di carica con il «canguro», la tecnica di accorpamento degli emendamenti. Nessuno capisce quello che vota, M5S chiede uno stop: «Ci ha fatto saltare d’un salto 600 pagine». A fine serata mancano ancora più di 4mila emendamenti. Renzi sa che alla fine la riforma passerà, ma vuole scaricare la figuraccia sulle opposizioni, «la palude». In serata scrive su facebook: «La nostra determinazione è più forte dei loro giochetti. Andiamo avanti pronti a discutere con tutti ma non ci faremo mai ricattare da nessuno».
domenica 27 luglio 2014
Le balle economiche di Renzie
dal blog di Beppe Grillo
Pubblicare i post di Beppe Grillo non è mia abitudine vista la mole di contatti del blog e i contenuti non sempe condivisibili, ma questo mi sembra un utile riassunto
"Il Governo Renzi, impegnato al braccio di ferro sulle riforme costituzionali care alla P2, nasconde la testa sotto la sabbia negando l’evidenza di dati ed indicatori economici sempre più preoccupanti ed allarmanti, che necessitano di una robusta ed inevitabile manovra autunnale di aggiustamento, evidente anche agli studenti ai primi anni dei corsi di economia per corrispondenza, da 24 a 36 miliardi di euro.
Debito-Pil: in Italia nel primo trimestre 2014, il rapporto tra debito pubblico e Pil, che secondo i parametri europei dovrebbe attestarsi al 60%, è salito al 135,6% dal 132,6% del trimestre precedente. Con un aumento del 5,4% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, quando si attestava al 130,2%. A maggio 2014 il debito è cresciuto a 2.166,3 miliardi di euro, con un incremento di 92 mld di euro rispetto a 12 mesi prima. Nell'UE e nella zona euro in rapporto al Pil, il debito italiano è secondo solo a quello greco, che alla fine del primo trimestre era al 174,1%.
Crescita economica: Il Def del Governo aveva stabilito un rapporto Debito/Pil al 134,9%, basato sulla proiezione di crescita del Pil per il 2014, pari allo 0,8% ed un rapporto di indebitamento netto del 2,6% sul Pil. Sia Bankitalia (+0,2%) che FMI (+0,3%), nel prevedere una crescita più bassa, ritengono inevitabile un buco nei conti che dovrà essere ripianato.
Spesa pubblica: invece di diminuire è aumentata nei primi 5 mesi del 2014, passando da 181,9 miliardi di euro a 206,7 con un incremento di 25 miliardi di euro.
Privatizzazioni: il Def, che dava conto di esborsi al Fondo Salvastati o Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) per 92,552 miliardi di euro nel biennio 2012 (36,932 mld euro) e 2013 (55,620), aveva stabilito proventi da privatizzazioni pari allo 0,7% del Pil (quindi per 10,9 miliardi di euro), diventati una chimera.
Disoccupazione: a maggio (Istat) sale ancora il tasso di disoccupazione che si porta al 12,6% rispetto al 12,5% del mese precedente. I giovani senza lavoro sono il 43%, con 2,3 milioni di occupati in meno sotto i 35 anni dal 2004.
Fisco: la pressione fiscale, pari al 43,8%,per le imprese arriva al 68,6 % sui profitti, dati che non hanno eguali in tutta Europa e non sono riscontrabili neppure tra i grandi paesi industriali extra Ue.
Consumi: Prosegue il tracollo delle vendite al dettaglio calate del 3,5% su base annua. L’andamento nell’indicare una fase recessiva, conferma che la voce “Consumi interni privati” costituisce circa il 60% del PIL Italiano, per cui se non si riprende questo indicatore, difficilmente il PIL si “riprende”.
Sofferenze bancarie: 168,5 miliardi di euro a maggio, con un apporto sofferenze impieghi pari all’8,9%;
Conti Correnti: i costi di gestione dei conti correnti, più elevati della media Ue di un +225%, dove sono attestati a 114 euro, 257 euro in più su ogni conto fissato in Italia a 371 euro contro 114 (+225%), che si traduce in costi complessivi di 6,7 miliardi di euro in più l’anno a carico di famiglie ed imprese.
Tassi mutui: la presunta maggiore solidità delle banche italiane, è stata pagata da correntisti ed utenti dei servizi bancari, che continuano a pagare su ogni mutuo trentennale di 100.000 euro (fissato oggi al tasso del 5,11% in Italia contro 3,79% dell’area euro), uno spread di circa 30.000 euro in più alla scadenza dei mutuatari europei.
RCAuto: dal 1994 (ultimi 20 anni), i costi delle polizze (per una cilindrata media) sono aumentati di oltre il 254%, non giustificati dall’andamento dell’incidentalità’. Tra il 2008 e il 2013 in Italia gli automobilisti hanno pagato 231 euro annui in più rispetto alla media Ue (con un aggravio di circa 8,5 miliardi di euro l’anno a carico dei cittadini)”.
Corruzione: Corruption Perceptions Index 2013, la lista dei 177 Paesi più corrotti al mondo, redatta dalla Ong Trasparency International, assegna all’Italia il 69esimo posto nella classifica, tra il Montenegro e il Kwait. Tra gli indici presi come riferimento, attraverso un punteggio che va da 0 (molto corrotto) a 100 (non corrotto), nella percezione della corruzione, c'è l'analisi del settore pubblico, seguita dall'abuso di potere, dagli scarsi livelli di integrità e gli accordi segreti. Fattori che non solo opacizzano la governance di un Paese, ma che lo indeboliscono anche dal punto di vista economico e sociale.
Per queste ragioni in autunno, arriverà una manovra lacrime e sangue, da 24 a 30 miliardi di euro per tappare il dissesto dei conti pubblici, sui quali incombono fiscal compact e pareggio di bilancio".
Elio Lannutti
Pubblicare i post di Beppe Grillo non è mia abitudine vista la mole di contatti del blog e i contenuti non sempe condivisibili, ma questo mi sembra un utile riassunto
"Il Governo Renzi, impegnato al braccio di ferro sulle riforme costituzionali care alla P2, nasconde la testa sotto la sabbia negando l’evidenza di dati ed indicatori economici sempre più preoccupanti ed allarmanti, che necessitano di una robusta ed inevitabile manovra autunnale di aggiustamento, evidente anche agli studenti ai primi anni dei corsi di economia per corrispondenza, da 24 a 36 miliardi di euro.
Debito-Pil: in Italia nel primo trimestre 2014, il rapporto tra debito pubblico e Pil, che secondo i parametri europei dovrebbe attestarsi al 60%, è salito al 135,6% dal 132,6% del trimestre precedente. Con un aumento del 5,4% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, quando si attestava al 130,2%. A maggio 2014 il debito è cresciuto a 2.166,3 miliardi di euro, con un incremento di 92 mld di euro rispetto a 12 mesi prima. Nell'UE e nella zona euro in rapporto al Pil, il debito italiano è secondo solo a quello greco, che alla fine del primo trimestre era al 174,1%.
Crescita economica: Il Def del Governo aveva stabilito un rapporto Debito/Pil al 134,9%, basato sulla proiezione di crescita del Pil per il 2014, pari allo 0,8% ed un rapporto di indebitamento netto del 2,6% sul Pil. Sia Bankitalia (+0,2%) che FMI (+0,3%), nel prevedere una crescita più bassa, ritengono inevitabile un buco nei conti che dovrà essere ripianato.
Spesa pubblica: invece di diminuire è aumentata nei primi 5 mesi del 2014, passando da 181,9 miliardi di euro a 206,7 con un incremento di 25 miliardi di euro.
Privatizzazioni: il Def, che dava conto di esborsi al Fondo Salvastati o Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) per 92,552 miliardi di euro nel biennio 2012 (36,932 mld euro) e 2013 (55,620), aveva stabilito proventi da privatizzazioni pari allo 0,7% del Pil (quindi per 10,9 miliardi di euro), diventati una chimera.
Disoccupazione: a maggio (Istat) sale ancora il tasso di disoccupazione che si porta al 12,6% rispetto al 12,5% del mese precedente. I giovani senza lavoro sono il 43%, con 2,3 milioni di occupati in meno sotto i 35 anni dal 2004.
Fisco: la pressione fiscale, pari al 43,8%,per le imprese arriva al 68,6 % sui profitti, dati che non hanno eguali in tutta Europa e non sono riscontrabili neppure tra i grandi paesi industriali extra Ue.
Consumi: Prosegue il tracollo delle vendite al dettaglio calate del 3,5% su base annua. L’andamento nell’indicare una fase recessiva, conferma che la voce “Consumi interni privati” costituisce circa il 60% del PIL Italiano, per cui se non si riprende questo indicatore, difficilmente il PIL si “riprende”.
Sofferenze bancarie: 168,5 miliardi di euro a maggio, con un apporto sofferenze impieghi pari all’8,9%;
Conti Correnti: i costi di gestione dei conti correnti, più elevati della media Ue di un +225%, dove sono attestati a 114 euro, 257 euro in più su ogni conto fissato in Italia a 371 euro contro 114 (+225%), che si traduce in costi complessivi di 6,7 miliardi di euro in più l’anno a carico di famiglie ed imprese.
Tassi mutui: la presunta maggiore solidità delle banche italiane, è stata pagata da correntisti ed utenti dei servizi bancari, che continuano a pagare su ogni mutuo trentennale di 100.000 euro (fissato oggi al tasso del 5,11% in Italia contro 3,79% dell’area euro), uno spread di circa 30.000 euro in più alla scadenza dei mutuatari europei.
RCAuto: dal 1994 (ultimi 20 anni), i costi delle polizze (per una cilindrata media) sono aumentati di oltre il 254%, non giustificati dall’andamento dell’incidentalità’. Tra il 2008 e il 2013 in Italia gli automobilisti hanno pagato 231 euro annui in più rispetto alla media Ue (con un aggravio di circa 8,5 miliardi di euro l’anno a carico dei cittadini)”.
Corruzione: Corruption Perceptions Index 2013, la lista dei 177 Paesi più corrotti al mondo, redatta dalla Ong Trasparency International, assegna all’Italia il 69esimo posto nella classifica, tra il Montenegro e il Kwait. Tra gli indici presi come riferimento, attraverso un punteggio che va da 0 (molto corrotto) a 100 (non corrotto), nella percezione della corruzione, c'è l'analisi del settore pubblico, seguita dall'abuso di potere, dagli scarsi livelli di integrità e gli accordi segreti. Fattori che non solo opacizzano la governance di un Paese, ma che lo indeboliscono anche dal punto di vista economico e sociale.
Per queste ragioni in autunno, arriverà una manovra lacrime e sangue, da 24 a 30 miliardi di euro per tappare il dissesto dei conti pubblici, sui quali incombono fiscal compact e pareggio di bilancio".
Elio Lannutti
venerdì 25 luglio 2014
Controriforma del Senato
dal blog di Tonino D'Orazio
Ovvero abolizione di parte della Costituzione verso la prima tappa del presidenzialismo previsto dalla P2 dei massoni eversivi di Gelli. Ma non è che nella famosa cupola, rimasta segreta, della P2 non vi siano i maggiori attori attuali?
Ancora un piccolo sforzo e la P2 targata DC andrà in porto, del resto la ministro Boschi non a caso cita Fanfani, un democristiano destroide, per rafforzare il suo(nefasto) ragionamento per far approvare il nuovo corso che porterà i senatori non ad essere scelti e votati dai cittadini, ma nominati dai poteri forti o dai capi bastone (anche con tanti inquisiti da salvare), il tutto grazie all’accordo renzi-berlusconi,un accordo che porterà altri disastri e rovina per i cittadini, lavoratori e pensionati. Il democristiano citato dalla Boschi, non solo è un suo (e di Renzi ) corregionale, ma addirittura un suo “compaesano”. Entrambi aretini. Non si può non ricordare in questo caso, come disse Dante, “di Arezzo, manco l’aria è bona”.
Né poteva mancare l’intervento a gamba tesa di re Giorgio a sostegno del suo ragazzo, forse ha fretta di vedere il risultato della decostituzionalizzazione prima di morire, dopo avervi lavorato per benino per 10 anni. E’ un giudizio sui risultati non sul lesa maestà con piccole diplomatiche indisposizioni.
Non a caso l’altra destra, Roberto Calderoni, quando e’ il suo turno di intervenire in aula al Senato dice:”Abbiamo riportato sui binari un treno che andava per conto suo” e rilancia il presidenzialismo, caro a Berlusconi che ci spera ancora, e ultimo tassello della P2.
Piccola differenza di posizioni nel PD:
- Bozza Chiti: i deputati vengono ridotti a 400, i senatori vengono ridotti a 106 ancora eletti direttamente dal popolo. Resta il voto e si risparmia sui costi della politica.
- Bozza Renzi: i deputati restano 630, i senatori vengono ridotti a 148 non eletti ma nominati dai 1100 consiglieri regionali dei quali quasi la metà (521) sono attualmente indagati.
Viene tolto il voto e i costi della politica aumentano, in quanto bisognerebbe pagare le trasferte ai senatori part-time ogni volta che si recano a Roma. Oltre al fatto che in realtà il Senato non conterà più nulla, viene messo su un binario morto e la sua abolizione è prevista sicuramente nella prossima urgentissima e necessaria riforma per rilanciare il paese. S’intravede già il pungolo del canuto Napoletano ad accelerare.
Comunque i “dissidenti” hanno annunciato che non voteranno contro il testo. Mezza faccia salvata. Stanno solo scherzando, nella commedia dell’arte la parodia è un elemento fondamentale.
Certo non si può cambiare la Costituzione così, a tutta velocità, con un gruppo di potere che si è consolidato grazie ad un colossale conflitto di interessi, e leggi anticostituzionali, così non è più democrazia. I potenti, favoriti dai loro servi, si rinserrano nella loro roccaforte. La democrazia si trasforma non solo di fatto ma anche di diritto in un’ oligarchia. Una specie di democrazia monarchica. Quando si dice riforme!
L’importante è tenere fuori il popolo. Come si fa? Referendum: serviranno 800.000 firme. Dopo le prime 400.000 la Corte costituzionale (sempre più politicizzata. A quando la sua semi-abolizione?) darà un parere preventivo di ammissibilità. Potranno riguardare o intere leggi o una parte purché essa abbia un valore normativo autonomo (!). Insomma hanno reso più difficile il ricorso ai referendum, cioè il ricorso alla democrazia diretta. (Ricordate i consigli di Junker per Grecia, Austria e Cipro?).
Per i Ddl di iniziativa popolare: salgono da 50.000 a 250.000 le firme necessarie per presentare un ddl di iniziativa popolare. Però i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame, clausola che oggi non esiste, e speriamo senza “ghigliottina”.
Di nuovo la Boschi: “ma noi sappiamo che su questa riforma c’è un consenso ampio anche dal mondo accademico. La riforma non è un’approssimazione casuale, ma poggia su spalle solide”. Quale mondo accademico, quali spalle? Quello dei baroni universitari ormai asserviti al regime dalla Gelmini in poi e entrati “in affare e gestione” con la Confindustria? Guardate lo sfacelo in corso degli atenei. Ma gli altri noti costituzionalisti che non sono d’accordo? Qual’è veramente il vecchio che avanza? Mi devo sentire conservatore perché difendo la Costituzione?
La Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, alla quale rimane qualche pudore democratico sedimentato nel passato: “Invito i colleghi, fermo restando che quest’aula è sovrana (ma va!) a riflettere sui toni che imprimiamo al nostro dibattito perché rischiamo di perdere per strada la pulizia (non c’era parola o lapsus più appropriati) dell’opera alla quale siamo chiamati, il rigore del disegno costituzionale. Le parole, se utilizzate con violenza, rischiano di diventare inutili. Le parole “regime”, “deriva autoritaria”, “violenza sulla Costituzione” se pronunciate in quest’aula sono macigni”. E’ quasi una demonizzazione della realtà, quella vera, non quella costruita ad hoc per chiacchieroni e babbei. Sembra invitare la Boldrini ad una nuova “tagliola”. Giusto per confermare che se si fa una volta, l’abuso e la deregolamentazione, si può fare sempre. Problema di assuefazione, tanto i media sono lì per giustificare e pipa. Magari la stessa opposizione non è democratica, è un nemico da abbattere.
Sempre nell’ambito della parodia, può un partitino come Sel, legato al carro del PD, sine qua non, proporre 6.000 emendamenti e alzare il polverone? Aiutano a giustificare la “tagliola” di Boldrini?
Per FI, Romani, non senza umorismo, si è soffermato sull’esigenza di “precisare meglio” alcuni punti del testo del nuovo articolo 57 della Costituzione e non propongono “cambiamenti rilevanti”. Ritenendo l’elezione dei futuri senatori da parte dei Consigli regionali, semplicemente “una piccola modifica sintattica”. Da doppiopettisti ormai conosciuti propongono intanto circa mille emendamenti.
Bisognerà pure ascoltare cos’ha da dire l’unica opposizione vera esistente, piaccia o no, nelle sedi parlamentari. Magari quelli che sostengono il valore della Costituzione repubblicana e antifascista ne potranno ritrovare il filo, Anpi compreso. M5S propone: l’elezione diretta ( che è il dettame della Corte Costituzionale, nulla di rivoluzionario) e il referendum senza quorum (affinché non si sprechino le opportunità di partecipazione quando il governo (magari il Parlamento!) fa quello che non va bene. Infatti i testi presentati dal M5S spaziano dall’introduzione dell’elezione diretta dei senatori, alla riduzione del 50% del numero dei deputati e dei senatori e nel dimezzare le loro indennità. Propone poi di rafforzare gli strumenti di democrazia diretta con referendum propositivi e abrogativi senza quorum. Tra gli emendamenti, anche uno per introdurre lo strumento del “recall”, con cui i cittadini possono togliere la fiducia ai singoli parlamentari fedifraghi o simoniaci della rappresentanza. Di questi tempi sembra un concetto amorale, abituati a scandalizzarci massimo per 30 secondi.
In realtà cosa nasconde questa fretta di riforma del Senato se non uno sfacelo economico e etico in atto e un narcisismo evidente da comando.
Una riforma al mese, pagamento di tutti i debiti della PA con le imprese entro 15 giorni, censimento sul patto di stabilità entro il 10 marzo, legge sul conflitto di interessi entro i primi 100 giorni, 4 miliardi per l’edilizia scolastica entro aprile, Job Act pronto per l’incontro con la Merkel, 1 miliardo per i giovani entro maggio, legge elettorale e porcata inclusa entro maggio, riforma del Senato entro luglio, giù le tasse per pensionati e partite IVA, 15 mila nuove assunzioni nella PA, pagamento tasse con un SMS, abolizione del 730, crescita entro l’anno (ipotesi duratura e rimandata da 10 anni! Eppure funziona ancora! Perché dimentichiamo che per pochi la crescita è raddoppiata e c’è ancora), nessuna nuova manovra finanziaria. Quest’ultima è incredibile, aspettiamo che ce lo “chieda l’Europa” così Renzi e il Partito Unico non ne hanno responsabilità e tutti i mass media saranno adoranti mentre lui farà finta di battere i pugni sul tavolo, almeno i suoi gli crederanno. Anzi tutto il Partito Unico (FI-PD) dovrà credergli. Vedremo cosa dirà quando dovrà applicare il dictat del FMI (preannunciato e ribadito da tempo), sul prelievo del 10% sui conti correnti dei cittadini che hanno la sfortuna di doverci lasciare qualche soldo, gli altri sono volati via da tempo. Un po’ come a Cipro dove la sperimentazione ha funzionato, e poi politicamente non è successo nulla. Allora si vede che se lo meritavano.
Dopo tutti questi annunci fini a se stessi e chiaramente falliti, (vero o no?), la sola cosa che Renzie sta facendo veramente è estendere l’immunità parlamentare ai sindaci e ai consiglieri, mantenerlo per Parlamento e futuro Senato perché ha troppi amici nei guai, a destra e sinistra, innalzare furbescamente le tasse e togliere il diritto di voto diretto. Oltre già a far ridere tutta l’Europa, che ovviamente ritenendolo semplicemente un italiano e non uno statista rivoluzionario della provvidenza come da noi, aspetta che “a da passà a nuttate” del semestre italiano, con tutte le sue chiacchiere. Qualcuno gli avrà pur detto che il suo 40% rappresenta solo 20 italiani su 100. Oltre alle proposte più strampalate e inesperte per la direzione delle Commissioni. Dove andrebbe bene sia la Mongherini che qualche vigile urbano toscano per la carica europea della rappresentanza delle politiche internazionali. Per quel che vale è forse meglio metterci direttamente qualche segretaria amministrativa anglosassone della Cia o della Nato. O la notissima e esperta amica Mongherini.
Ovvero abolizione di parte della Costituzione verso la prima tappa del presidenzialismo previsto dalla P2 dei massoni eversivi di Gelli. Ma non è che nella famosa cupola, rimasta segreta, della P2 non vi siano i maggiori attori attuali?
Ancora un piccolo sforzo e la P2 targata DC andrà in porto, del resto la ministro Boschi non a caso cita Fanfani, un democristiano destroide, per rafforzare il suo(nefasto) ragionamento per far approvare il nuovo corso che porterà i senatori non ad essere scelti e votati dai cittadini, ma nominati dai poteri forti o dai capi bastone (anche con tanti inquisiti da salvare), il tutto grazie all’accordo renzi-berlusconi,un accordo che porterà altri disastri e rovina per i cittadini, lavoratori e pensionati. Il democristiano citato dalla Boschi, non solo è un suo (e di Renzi ) corregionale, ma addirittura un suo “compaesano”. Entrambi aretini. Non si può non ricordare in questo caso, come disse Dante, “di Arezzo, manco l’aria è bona”.
Né poteva mancare l’intervento a gamba tesa di re Giorgio a sostegno del suo ragazzo, forse ha fretta di vedere il risultato della decostituzionalizzazione prima di morire, dopo avervi lavorato per benino per 10 anni. E’ un giudizio sui risultati non sul lesa maestà con piccole diplomatiche indisposizioni.
Non a caso l’altra destra, Roberto Calderoni, quando e’ il suo turno di intervenire in aula al Senato dice:”Abbiamo riportato sui binari un treno che andava per conto suo” e rilancia il presidenzialismo, caro a Berlusconi che ci spera ancora, e ultimo tassello della P2.
Piccola differenza di posizioni nel PD:
- Bozza Chiti: i deputati vengono ridotti a 400, i senatori vengono ridotti a 106 ancora eletti direttamente dal popolo. Resta il voto e si risparmia sui costi della politica.
- Bozza Renzi: i deputati restano 630, i senatori vengono ridotti a 148 non eletti ma nominati dai 1100 consiglieri regionali dei quali quasi la metà (521) sono attualmente indagati.
Viene tolto il voto e i costi della politica aumentano, in quanto bisognerebbe pagare le trasferte ai senatori part-time ogni volta che si recano a Roma. Oltre al fatto che in realtà il Senato non conterà più nulla, viene messo su un binario morto e la sua abolizione è prevista sicuramente nella prossima urgentissima e necessaria riforma per rilanciare il paese. S’intravede già il pungolo del canuto Napoletano ad accelerare.
Comunque i “dissidenti” hanno annunciato che non voteranno contro il testo. Mezza faccia salvata. Stanno solo scherzando, nella commedia dell’arte la parodia è un elemento fondamentale.
Certo non si può cambiare la Costituzione così, a tutta velocità, con un gruppo di potere che si è consolidato grazie ad un colossale conflitto di interessi, e leggi anticostituzionali, così non è più democrazia. I potenti, favoriti dai loro servi, si rinserrano nella loro roccaforte. La democrazia si trasforma non solo di fatto ma anche di diritto in un’ oligarchia. Una specie di democrazia monarchica. Quando si dice riforme!
L’importante è tenere fuori il popolo. Come si fa? Referendum: serviranno 800.000 firme. Dopo le prime 400.000 la Corte costituzionale (sempre più politicizzata. A quando la sua semi-abolizione?) darà un parere preventivo di ammissibilità. Potranno riguardare o intere leggi o una parte purché essa abbia un valore normativo autonomo (!). Insomma hanno reso più difficile il ricorso ai referendum, cioè il ricorso alla democrazia diretta. (Ricordate i consigli di Junker per Grecia, Austria e Cipro?).
Per i Ddl di iniziativa popolare: salgono da 50.000 a 250.000 le firme necessarie per presentare un ddl di iniziativa popolare. Però i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame, clausola che oggi non esiste, e speriamo senza “ghigliottina”.
Di nuovo la Boschi: “ma noi sappiamo che su questa riforma c’è un consenso ampio anche dal mondo accademico. La riforma non è un’approssimazione casuale, ma poggia su spalle solide”. Quale mondo accademico, quali spalle? Quello dei baroni universitari ormai asserviti al regime dalla Gelmini in poi e entrati “in affare e gestione” con la Confindustria? Guardate lo sfacelo in corso degli atenei. Ma gli altri noti costituzionalisti che non sono d’accordo? Qual’è veramente il vecchio che avanza? Mi devo sentire conservatore perché difendo la Costituzione?
La Finocchiaro, capogruppo Pd al Senato, alla quale rimane qualche pudore democratico sedimentato nel passato: “Invito i colleghi, fermo restando che quest’aula è sovrana (ma va!) a riflettere sui toni che imprimiamo al nostro dibattito perché rischiamo di perdere per strada la pulizia (non c’era parola o lapsus più appropriati) dell’opera alla quale siamo chiamati, il rigore del disegno costituzionale. Le parole, se utilizzate con violenza, rischiano di diventare inutili. Le parole “regime”, “deriva autoritaria”, “violenza sulla Costituzione” se pronunciate in quest’aula sono macigni”. E’ quasi una demonizzazione della realtà, quella vera, non quella costruita ad hoc per chiacchieroni e babbei. Sembra invitare la Boldrini ad una nuova “tagliola”. Giusto per confermare che se si fa una volta, l’abuso e la deregolamentazione, si può fare sempre. Problema di assuefazione, tanto i media sono lì per giustificare e pipa. Magari la stessa opposizione non è democratica, è un nemico da abbattere.
Sempre nell’ambito della parodia, può un partitino come Sel, legato al carro del PD, sine qua non, proporre 6.000 emendamenti e alzare il polverone? Aiutano a giustificare la “tagliola” di Boldrini?
Per FI, Romani, non senza umorismo, si è soffermato sull’esigenza di “precisare meglio” alcuni punti del testo del nuovo articolo 57 della Costituzione e non propongono “cambiamenti rilevanti”. Ritenendo l’elezione dei futuri senatori da parte dei Consigli regionali, semplicemente “una piccola modifica sintattica”. Da doppiopettisti ormai conosciuti propongono intanto circa mille emendamenti.
Bisognerà pure ascoltare cos’ha da dire l’unica opposizione vera esistente, piaccia o no, nelle sedi parlamentari. Magari quelli che sostengono il valore della Costituzione repubblicana e antifascista ne potranno ritrovare il filo, Anpi compreso. M5S propone: l’elezione diretta ( che è il dettame della Corte Costituzionale, nulla di rivoluzionario) e il referendum senza quorum (affinché non si sprechino le opportunità di partecipazione quando il governo (magari il Parlamento!) fa quello che non va bene. Infatti i testi presentati dal M5S spaziano dall’introduzione dell’elezione diretta dei senatori, alla riduzione del 50% del numero dei deputati e dei senatori e nel dimezzare le loro indennità. Propone poi di rafforzare gli strumenti di democrazia diretta con referendum propositivi e abrogativi senza quorum. Tra gli emendamenti, anche uno per introdurre lo strumento del “recall”, con cui i cittadini possono togliere la fiducia ai singoli parlamentari fedifraghi o simoniaci della rappresentanza. Di questi tempi sembra un concetto amorale, abituati a scandalizzarci massimo per 30 secondi.
In realtà cosa nasconde questa fretta di riforma del Senato se non uno sfacelo economico e etico in atto e un narcisismo evidente da comando.
Una riforma al mese, pagamento di tutti i debiti della PA con le imprese entro 15 giorni, censimento sul patto di stabilità entro il 10 marzo, legge sul conflitto di interessi entro i primi 100 giorni, 4 miliardi per l’edilizia scolastica entro aprile, Job Act pronto per l’incontro con la Merkel, 1 miliardo per i giovani entro maggio, legge elettorale e porcata inclusa entro maggio, riforma del Senato entro luglio, giù le tasse per pensionati e partite IVA, 15 mila nuove assunzioni nella PA, pagamento tasse con un SMS, abolizione del 730, crescita entro l’anno (ipotesi duratura e rimandata da 10 anni! Eppure funziona ancora! Perché dimentichiamo che per pochi la crescita è raddoppiata e c’è ancora), nessuna nuova manovra finanziaria. Quest’ultima è incredibile, aspettiamo che ce lo “chieda l’Europa” così Renzi e il Partito Unico non ne hanno responsabilità e tutti i mass media saranno adoranti mentre lui farà finta di battere i pugni sul tavolo, almeno i suoi gli crederanno. Anzi tutto il Partito Unico (FI-PD) dovrà credergli. Vedremo cosa dirà quando dovrà applicare il dictat del FMI (preannunciato e ribadito da tempo), sul prelievo del 10% sui conti correnti dei cittadini che hanno la sfortuna di doverci lasciare qualche soldo, gli altri sono volati via da tempo. Un po’ come a Cipro dove la sperimentazione ha funzionato, e poi politicamente non è successo nulla. Allora si vede che se lo meritavano.
Dopo tutti questi annunci fini a se stessi e chiaramente falliti, (vero o no?), la sola cosa che Renzie sta facendo veramente è estendere l’immunità parlamentare ai sindaci e ai consiglieri, mantenerlo per Parlamento e futuro Senato perché ha troppi amici nei guai, a destra e sinistra, innalzare furbescamente le tasse e togliere il diritto di voto diretto. Oltre già a far ridere tutta l’Europa, che ovviamente ritenendolo semplicemente un italiano e non uno statista rivoluzionario della provvidenza come da noi, aspetta che “a da passà a nuttate” del semestre italiano, con tutte le sue chiacchiere. Qualcuno gli avrà pur detto che il suo 40% rappresenta solo 20 italiani su 100. Oltre alle proposte più strampalate e inesperte per la direzione delle Commissioni. Dove andrebbe bene sia la Mongherini che qualche vigile urbano toscano per la carica europea della rappresentanza delle politiche internazionali. Per quel che vale è forse meglio metterci direttamente qualche segretaria amministrativa anglosassone della Cia o della Nato. O la notissima e esperta amica Mongherini.
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domenica 20 luglio 2014
Il destino di un Blog
Tempo fa mi ero riproposto di chiudere il blog, uno spazio dove ho soggiornato volentieri, mitigando la mia insoddisfazione per il mondo e la mia ossessione per l'essenziale. Ma a causa di quella irrefrenabile premura, frutto della psicologia umana, fisiologicamente soggetta al gioco al rilancio e alla legge della ricompensa, quello spazio non mi bastava. Occorreva un salto di qualità o chiudere.
Il blog aveva pochi visitatori, sebbene alcuni post avessero un grande risalto nel web, ed è per questo che doveva per forza chiudere.
Oggi sono costretto ad ammettere che la mia ossessione per l'essenziale e per la logica elementare applicata alla politica così come alla scienza, abbisogna ancora uno sfogo, e che sebbene piccolo un blog può andare avanti a prescindere. Continuerò di tanto in tanto a scrivere, ignorando i dati dell'audience, lasciando spazio a tutti coloro che avessero cose interessanti da dire e volessero inviarci un contributo. Cercherò di trovare una formula originale, che induca le persone a visitare il sito per la sua paritcolarità. Allo stesso tempo però mi appresto a tagliare il nastro del sito doppiocieco, che esordirà a breve, uno spazio riservato per la maggior parte alla pubblicazione dei migliori articoli della stampa estera, tradotti interamente da me, Domenico ed altri collaboratori.
A presto
Il blog aveva pochi visitatori, sebbene alcuni post avessero un grande risalto nel web, ed è per questo che doveva per forza chiudere.
Oggi sono costretto ad ammettere che la mia ossessione per l'essenziale e per la logica elementare applicata alla politica così come alla scienza, abbisogna ancora uno sfogo, e che sebbene piccolo un blog può andare avanti a prescindere. Continuerò di tanto in tanto a scrivere, ignorando i dati dell'audience, lasciando spazio a tutti coloro che avessero cose interessanti da dire e volessero inviarci un contributo. Cercherò di trovare una formula originale, che induca le persone a visitare il sito per la sua paritcolarità. Allo stesso tempo però mi appresto a tagliare il nastro del sito doppiocieco, che esordirà a breve, uno spazio riservato per la maggior parte alla pubblicazione dei migliori articoli della stampa estera, tradotti interamente da me, Domenico ed altri collaboratori.
A presto
martedì 15 luglio 2014
La dispotica austerity dei banchieri
di Giuseppe Allegri da il Il Manifesto
«Come uscire dalla crisi economica con le ricette del diavolo». È il sottotitolo volutamente provocatorio del pamphlet Mefistofele (Utet, p. 220, euro 13,90), scritto da Elido Fazi, editore di professione, economista postkeynesiano di formazione e passione. E c’è tanto di dedica a Jens Weidmann, «potente neoliberista presidente della Bundesbank, che di solito fa il bello e cattivo tempo in Europa», sostenitore di un’interpretazione diabolica del Faust di Goethe. Infatti il dispotico banchiere utilizzò il testo del patto Faust-Mefistofele per scagliarsi contro la storica affermazione di Mario Draghi, del luglio 2012: «la Bce farà tutto quello che è necessario (whatever it takes) per salvare l’euro». Anche «dare iniezioni di liquidità monetaria». Un grave peccato morale, per Weidmann, convinto che l’atto di creare moneta sia figlio del diavolo Mefistofele, poiché «degenera in inflazione e distrugge il sistema monetario», come, appunto, insegnerebbe il Faust di Goethe.
All’origine di questa interpretazione c’è l’ideologia del debito (dei privati e dei sovrani) inteso come colpa, visto che Schuld in tedesco significa sia debito che colpa, peccato. E allora, nella sempre più incerta «Europa tedesca», solo l’imposizione di austere misure di risanamento dei conti pubblici sembra possa assolvere dalla colpa del debito. Mentre echeggia il terrore dell’inflazione, intesa come «la» tragedia che attraversò gli anni Venti tedeschi, verso il consenso al nazionalsocialismo, che pure Fazi ci ricorda arrivò con le elezioni del 1932, quando la Repubblica di Weimar era già precipitata in un periodo di deflazione. Deflazione che avvolge parte dell’Europa e sicuramente l’Italia, da quindici anni in stagnazione e perciò ora sospesa sul baratro di una Grande Depressione. Con il serio rischio di diventare un paese loser: un «Giappone europeo». Quel Giappone uscito da una deflazione ventennale solo con la massiccia iniezione di moneta imposta nella primavera 2013 dal nuovo premier Shinzo Abe, padre di quella che verrà ribattezzata Abenomics.
Elido Fazi segue questa tendenza e smonta l’ideologia monetarista che ha reso l’Europa ostaggio dell’incubo inflazionistico, sacrificando qualsiasi ipotesi di politiche pubbliche capaci di invertire il ciclo economico depressivo. C’è una storia millenaria che permette di rifiutare il pensiero unico imposto dai «tecnocrati della triste scienza», allievi dei Chicago Boys, consiglieri di Pinochet, Reagan e Thatcher.
Così si risale al sesto secolo avanti Cristo, con Solone che «introduce una radicale e coraggiosa riforma finanziaria, il cui primo punto è la cancellazione, parziale o totale, dei debiti, con la restituzione delle terre sequestrate dai creditori», quella ristretta oligarchia del denaro che aveva messo in ginocchio i piccoli coltivatori diretti. Nell’antica Grecia, come negli Stati Uniti degli anni Trenta del Novecento, con Roosevelt. Solone è quindi il «primo governante a essere cosciente che la moneta è un bene comune della società e che la sua creazione non può essere lasciata all’avidità dei finanzieri privati». È questa la chiave di volta per considerare la moneta e «il credito al servizio di tutti i cittadini di un paese o un’area come l’eurozona, e non soltanto al servizio di una élite finanziaria o di alcuni paesi che, oltretutto, meno ne hanno bisogno». Perché la moneta esiste per legge, non per natura, per dirla già con Aristotele. È un’istituzione creata dagli esseri umani che si associano per godere di un maggior grado di benessere individuale e collettivo. E Fazi ci narra come, proprio a partire da politiche monetarie espansive, sia possibile rifiutare l’austero rigore depressivo, per affermare una moneta comune intesa come ricchezza comune.
Ecco tornare Mefistofele (quello di Fazi, contro Weidmann), che nel Faust consiglia al sovrano dell’Impero indebitato di creare moneta dal nulla, Fiat money, «come per magia», per risanare le finanze, ma soprattutto per dare solidarietà, gioia, serenità alla cittadinanza. Nell’allegoria carnascialesca narrata da Goethe il carro diabolico è trainato dal dio della ricchezza, Pluto, e da quello delle arti e della profezia, Apollo, perché solo dall’incontro di ricchezza e poesia è possibile pensare una vita degna. Le «crisi epocali» esigono economisti poeti, come il Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti, uscito a ridosso del grande crollo del 1929 e ricordato in chiusura da Fazi. Nel cuore oscuro di un’Europa oppressa da avari banchieri e ottusi nazionalisti è difficile rintracciare economisti adeguatamente visionari, in grado di adottare le ricette del diavolo. Tanto che Renzi, nella polemica con Weidmann, non è certo sembrato diabolico. Mentre al vertice della Bce pare Goethe sia letto con passione.
«Come uscire dalla crisi economica con le ricette del diavolo». È il sottotitolo volutamente provocatorio del pamphlet Mefistofele (Utet, p. 220, euro 13,90), scritto da Elido Fazi, editore di professione, economista postkeynesiano di formazione e passione. E c’è tanto di dedica a Jens Weidmann, «potente neoliberista presidente della Bundesbank, che di solito fa il bello e cattivo tempo in Europa», sostenitore di un’interpretazione diabolica del Faust di Goethe. Infatti il dispotico banchiere utilizzò il testo del patto Faust-Mefistofele per scagliarsi contro la storica affermazione di Mario Draghi, del luglio 2012: «la Bce farà tutto quello che è necessario (whatever it takes) per salvare l’euro». Anche «dare iniezioni di liquidità monetaria». Un grave peccato morale, per Weidmann, convinto che l’atto di creare moneta sia figlio del diavolo Mefistofele, poiché «degenera in inflazione e distrugge il sistema monetario», come, appunto, insegnerebbe il Faust di Goethe.
All’origine di questa interpretazione c’è l’ideologia del debito (dei privati e dei sovrani) inteso come colpa, visto che Schuld in tedesco significa sia debito che colpa, peccato. E allora, nella sempre più incerta «Europa tedesca», solo l’imposizione di austere misure di risanamento dei conti pubblici sembra possa assolvere dalla colpa del debito. Mentre echeggia il terrore dell’inflazione, intesa come «la» tragedia che attraversò gli anni Venti tedeschi, verso il consenso al nazionalsocialismo, che pure Fazi ci ricorda arrivò con le elezioni del 1932, quando la Repubblica di Weimar era già precipitata in un periodo di deflazione. Deflazione che avvolge parte dell’Europa e sicuramente l’Italia, da quindici anni in stagnazione e perciò ora sospesa sul baratro di una Grande Depressione. Con il serio rischio di diventare un paese loser: un «Giappone europeo». Quel Giappone uscito da una deflazione ventennale solo con la massiccia iniezione di moneta imposta nella primavera 2013 dal nuovo premier Shinzo Abe, padre di quella che verrà ribattezzata Abenomics.
Elido Fazi segue questa tendenza e smonta l’ideologia monetarista che ha reso l’Europa ostaggio dell’incubo inflazionistico, sacrificando qualsiasi ipotesi di politiche pubbliche capaci di invertire il ciclo economico depressivo. C’è una storia millenaria che permette di rifiutare il pensiero unico imposto dai «tecnocrati della triste scienza», allievi dei Chicago Boys, consiglieri di Pinochet, Reagan e Thatcher.
Così si risale al sesto secolo avanti Cristo, con Solone che «introduce una radicale e coraggiosa riforma finanziaria, il cui primo punto è la cancellazione, parziale o totale, dei debiti, con la restituzione delle terre sequestrate dai creditori», quella ristretta oligarchia del denaro che aveva messo in ginocchio i piccoli coltivatori diretti. Nell’antica Grecia, come negli Stati Uniti degli anni Trenta del Novecento, con Roosevelt. Solone è quindi il «primo governante a essere cosciente che la moneta è un bene comune della società e che la sua creazione non può essere lasciata all’avidità dei finanzieri privati». È questa la chiave di volta per considerare la moneta e «il credito al servizio di tutti i cittadini di un paese o un’area come l’eurozona, e non soltanto al servizio di una élite finanziaria o di alcuni paesi che, oltretutto, meno ne hanno bisogno». Perché la moneta esiste per legge, non per natura, per dirla già con Aristotele. È un’istituzione creata dagli esseri umani che si associano per godere di un maggior grado di benessere individuale e collettivo. E Fazi ci narra come, proprio a partire da politiche monetarie espansive, sia possibile rifiutare l’austero rigore depressivo, per affermare una moneta comune intesa come ricchezza comune.
Ecco tornare Mefistofele (quello di Fazi, contro Weidmann), che nel Faust consiglia al sovrano dell’Impero indebitato di creare moneta dal nulla, Fiat money, «come per magia», per risanare le finanze, ma soprattutto per dare solidarietà, gioia, serenità alla cittadinanza. Nell’allegoria carnascialesca narrata da Goethe il carro diabolico è trainato dal dio della ricchezza, Pluto, e da quello delle arti e della profezia, Apollo, perché solo dall’incontro di ricchezza e poesia è possibile pensare una vita degna. Le «crisi epocali» esigono economisti poeti, come il Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti, uscito a ridosso del grande crollo del 1929 e ricordato in chiusura da Fazi. Nel cuore oscuro di un’Europa oppressa da avari banchieri e ottusi nazionalisti è difficile rintracciare economisti adeguatamente visionari, in grado di adottare le ricette del diavolo. Tanto che Renzi, nella polemica con Weidmann, non è certo sembrato diabolico. Mentre al vertice della Bce pare Goethe sia letto con passione.
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lunedì 14 luglio 2014
Ucraina, genesi di un conflitto
di Rossana Rossanda da sbilanciamoci.info
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica
Stampa e Tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo che, dopo avere strappato la penisola di Crimea, se la vorrebbe mangiare tutta. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. E l’Europa sembra avere dimenticato storia, geografia e politica
L’Europa non è certo nata in chiave antiamericana ma,
date le dimensioni e il numero degli abitanti, almeno come grande
mercato autonomo e con una moneta forse concorrenziale; e per alcuni
anni questo è stata. Ma da qualche tempo ha sottolineato in modo
sbalorditivo un ruolo che una volta si sarebbe detto “atlantico”. Non
più sotto il vessillo anticomunista, il comunismo essendo scomparso da
un pezzo, ma antirusso.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
Qualche anno fa, Immanuel Wallerstein mi diceva che, spento ogni scontro ideologico, le nuove guerre sarebbero state commerciali. E quale altro senso dare al conflitto in corso a Kiev? Esso sembra avere per oggetto l’identità nazionale dell’Ucraina. Eccezion fatta per il manifesto, tutta la stampa e le tv disegnano il quadro di un’Ucraina povera ma democratica che si dibatterebbe nelle grinfie dell’orso russo; il quale le ha già strappato la penisola di Crimea e se la vorrebbe mangiare tutta. Manca poco che la Russia non sia definita un nuovo terzo Reich. In occasione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia, il presidente francese Hollande è stato accusato di aver invitato alle celebrazioni anche Putin - come se la battaglia di Stalingrado non avesse permesso agli Stati Uniti il medesimo sbarco, distraendo dal Nord Europa il grosso della Wehrmacht - nello stesso tempo invitando niente meno che dei reparti tedeschi a partecipare alla rievocazione del primo paracadutaggio alleato sul villaggio di Sainte-Mère-l’Eglise.
Da qualche giorno poi sappiamo che gli Stati Uniti, neppure il presidente Obama, ma il suo ex rivale Mc Cain - hanno ammonito la Bulgaria, la Serbia e gli altri paesi coinvolti in un progetto di gasdotto per trasportare il gas russo in Europa (con un tracciato che evitava l’Ucraina, perché cattiva pagatrice) a chiudere i cantieri in corso, preferendo un nuovo tragitto attraverso l’Ucraina a quello diretto per l’Europa occidentale. Stupore e modeste proteste di Bruxelles, convinta che si tratti di una minaccia simbolica. Che tuttavia va inserita nel quadro di un cambiamento delle esportazioni Usa, ormai indirizzate al commercio del gas di scisto, per altro non ancora avviato.
L’Europa teme dalla Russia rappresaglie per avere applaudito all’abbattimento del presidente ucraino filorusso Yanukovic da parte delle forze (piazza Maidan) che sono ora al governo a Kiev. Ma la storia dei rapporti tra Russia e Ucraina è tutt’altro che lineare. Il principato di Kiev è stato la prima forma del futuro impero russo, annesso da Caterina II alla Russia verso la metà del XVIII secolo, stabilendo in Crimea la sua più forte base navale. La sua cultura, il suo sviluppo e i suoi personaggi, da Gogol a Berdiaev, sono stati fra i protagonisti della letteratura russa del XIX secolo. L’intera letteratura russa resta segnata dalla guerra fra Russia, Inghilterra e Francia, che hanno cercato di mettervi le zampe sopra: si pensi soltanto a Tolstoi e alla topografia delle relative capitali ricche di viali e arterie che la commemorano (Sebastopoli). Ma il paese, che all’origine era stato percorso, come l’Italia, da una moltitudine di etnie, dagli Sciti in poi, ha stentato a unificarsi come nazione, distinguendosi per lotte efferate e non solo ideali fra diversi nazionalismi, spesso di destra. Il culmine è stato nella prima e seconda guerra mondiale: nella prima sotto la presidenza di Petliura, nazionalista di destra, quando l’Ucraina è stata l’ultimo rifugio dei generali “bianchi” Denikin e Wrangel, con lo scontro fra lui e la repubblica sovietica di Karkov. Solo con la vittoria definitiva dell’Urss si è consolidata la Repubblica sovietica nata a Karkov, destinata a diventare negli anni trenta il centro dell’industrializzazione. Industrializzazione sviluppatasi esclusivamente all’est (il bacino del Donbass, capoluogo Karkov), mentre l’ovest del paese restava per lo più agricolo (capoluogo Kiev, come di tutta la repubblica); e questo rimane alla base del contenzioso fra le due parti del paese. Nella seconda guerra mondiale, poi, l’occupazione tedesca ha incontrato il favore di una parte del panorama politico ucraino, un’eredità evidentemente ancora viva nei recenti fatti di piazza Maidan: il partito esplicitamente nazista circola ancora e non è l’ultima delle ragioni per cui il paese resta diviso fra la zona orientale e quella occidentale. Nel secondo dopoguerra, Kruscev dette all’Ucraina piena autonomia amministrativa, Crimea compresa, senza alcuna conseguenza politicamente rilevante perché restava un processo interno all’Unione Sovietica.
È soltanto dal 1991 e dal crollo dell’Urss che, anche su pressione polacca e lituana, il governo dell’Ucraina guarda all’Europa (e alla Nato) e incrementa lo scontro con la sua parte orientale. Sembra impossibile che in occidente non si sia considerato che l’Unione Sovietica non era solo una formula giuridica: scioglierla d’imperio e dall’alto, come è avvenuto nel 1991, significava creare una serie di situazioni critiche sia nelle culture che nei rapporti economici che attraversavano tutto quel vasto territorio. Da allora, Kiev non ha nascosto di puntare a un’unificazione etnica e linguistica anche forzosa delle due aree, fino a interdire l’uso della lingua russa agli abitanti dell’est cui era abituale.
L’Europa e la Nato non hanno mancato di appoggiare le politiche di Kiev, e poi l’insurrezione contro il presidente Yanukovic assai corrotto, costretto a tagliare la corda in Russia. Ma la zona orientale non lo rimpiange certo: non tollera il governo di Kiev e la sua complicità con la Nato, ma non perché abbia nostalgia di questo personaggio. Si è rivoltata contro la politica passata e recente di Kiev che ha tentato perfino di impedire l’uso della lingua russa, usata dalla maggioranza della popolazione all’est. L’Europa e la Nato, appoggiate da Polonia e Lituania, affermano che non si tratta di un vero e spontaneo sbocco nazionalista, ma di una ingerenza diretta della Russia, e così dicono stampa e televisione italiana. Non c’è dubbio che la Russia abbia voluto il ritorno della Crimea nel suo grembo, ma la proposta dell’est di andare a una federazione con l’ovest, garantendo l’autonomia di tutte e due le parti, è stata bocciata da Kiev e dal governo degli insorti. La decisione di votare in un referendum all’est contro Kiev è stata presa non da Putin, messo in imbarazzo, ma dalla popolazione dell’est che ha votato in questo senso al 98%. Non si tratta di un processo regolare (non accetteremmo che l’Alto Adige votasse una delle prossime domeniche la sua appartenenza all’Austria, senza alcun precedente negoziato diplomatico), ma non è stato neppure una manovra russa come l’Europa tutta ha sostenuto.
È sorprendente che perfino il poco che resta delle sinistre europee abbia sposato questa tesi e che in Italia le riserve di Alexis Tsipras sulle politiche di Bruxelles non abbiano alcuna eco. C’è perfino chi evoca in modo irresponsabile azioni armate contro Mosca. La deriva dei conflitti, anche militari, e non solo in Ucraina, rischia di segnare sempre di più un’Europa che ha dimenticato storia, geografia e politica.
UE, la Grosse Koalition dell’austerity. Renzi lascia o raddoppia?
La scelta di Juncker come prossimo presidente della Commissione Europea è
in totale continuità con le dannose politiche del rigore imposte in
questi anni dalla Troika. Il premier italiano da un lato sembra battere i
pugni contro i diktat di Berlino, dall’altro crede – sbagliando – che
più flessibilità nel Patto di Stabilità basti per migliorare la
situazione. Ma ci sarà un cambio di marcia solo se Renzi acquisirà
coraggio e consapevolezza dell’impossibilità di procedere con le regole
attuali.
di Vladimiro Giacché da Micromega
Salvo improbabili colpi di scena parlamentari, il democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker sarà il prossimo presidente della Commissione Europea. La designazione è avvenuta il 28 giugno al termine del Consiglio Europeo, con il voto contrario dell’Ungheria e quello, molto più pesante, della Gran Bretagna.
Non si tratta di una buona notizia. E non certo per il motivo malignamente avanzato dal giornale scandalistico britannico Sun, e prontamente rilanciato dall’equivalente tedesco Bild, ossia la presunta propensione all’alcol del presidente designato.[1]
I motivi di preoccupazione sono altri e più seri. In primo luogo, Juncker proviene da uno staterello noto ai più come paradiso fiscale, di fatto una città di 127.000 abitanti, che non ha mai espresso grandi statisti. Il precedente del lussemburghese Jacques Santer non è incoraggiante: la Commissione a sua guida fu travolta dagli scandali e dovette dimettersi con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale.
In secondo luogo, ed è questo il motivo fondamentale di preoccupazione, si tratta di una scelta che esprime una perfetta continuità con le disastrose politiche europee di gestione della crisi di questi ultimi anni. Sino al 2012 Juncker fu infatti presidente dell’Eurogruppo, ossia il gruppo di coordinamento dei ministri dell’economia e delle finanze dell’eurozona. In questa sua qualità condivise tutte le politiche adottate e tra l’altro si fece promotore della proposta di conferire il patrimonio statale greco a un istituto fiduciario non controllato dallo Stato ellenico, ma dai creditori stranieri, per privatizzare il tutto. Il modello cui ispirarsi fu indicato dallo stesso Juncker nella Treuhandanstalt, la società fiduciaria che nei primi anni Novanta aveva privatizzato l’intera economia della RDT (con risultati catastrofici e lasciando un buco di 250 miliardi di marchi dell’epoca).[2]
Anche quando si dimise dall’Eurogruppo, nell’aprile 2012, a suo dire per protesta contro le ingerenze franco-tedesche nella gestione della crisi (evidentemente se n’era accorto con qualche ritardo), Juncker non mancò di confermare la sua lealtà alla Germania proponendo quale successore il ministro delle finanze tedesco Schäuble.
Infine, questa nomina è frutto di uno scambio politico, per cui il socialdemocratico Martin Schulz sarà confermato alla guida dell’europarlamento anche coi voti dei popolari europei: le due nomine configurano insomma una vera e propria “grosse Koalition” a livello europeo tra popolari e socialdemocratici. Il rischio concreto è quello di una maggioranza formidabile in Parlamento per la prosecuzione delle politiche di austerity che hanno impoverito l’Italia e gran parte del continente.
Che su questa linea continui a collocarsi la parte più oltranzista dell’establishment tedesco è fuori di dubbio. Lo dimostrano le critiche rivolte a Matteo Renzi a Strasburgo da parte del capogruppo popolare al PE Manfred Weber (esponente della CSU bavarese, uscita malissimo dalle urne), che ha ribadito il rifiuto di ogni interpretazione “flessibile” delle regole europee. A Weber, Renzi ha fatto bene a ricordare che proprio alla Germania era stato consentito nel 2003 lo sforamento della regola del 3% del deficit per sostenere le riforme.
Avrebbe potuto aggiungere che l’Italia dal 2008 al 2012 è stata l’unico paese dell’eurozona che ha attuato unicamente politiche di bilancio restrittive (con un impatto negativo sul prodotto interno lordo pari a 5 punti percentuali), mentre la Germania nello stesso periodo ha attuato politiche espansive, con un impatto positivo sul pil pari al 6 per cento, grazie ai 69 miliardi di incentivi alle imprese e ai ben 259 miliardi di soldi pubblici spesi per salvare dal fallimento le banche tedesche (e se si includessero anche le garanzie si arriverebbe alla cifra strabiliante di 646 miliardi).[3]
Anche il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, parlando al consiglio economico della CDU (non proprio un punto a favore dell’autonomia della banca centrale tedesca…), si è permesso di ironizzare sul discorso di Renzi. E si è preso la risposta che si meritava: “noi rispettiamo lo statuto e il mandato della Bundesbank, ma deve rimanere fuori dal dibattito politico italiano”, ha detto Renzi; per poi aggiungere: “noi non andiamo ad indagare l’attività di vigilanza sulle Landesbanken e le Sparkassen”. Si tratta di un accenno, neppure troppo criptico, ai buchi nell’attività di vigilanza bancaria della Bundesbank, dimostrati oltre ogni ragionevole dubbio dai soldi che i contribuenti tedeschi hanno dovuto pagare per salvare le proprie banche, e in particolare le Landesbanken.
Del resto, la tutela esercitata dalle istituzioni tedesche nei confronti delle “loro” banche si è vista anche in occasione dei negoziati per la cosiddetta unione bancaria europea, in cui Schäuble ha ottenuto che la soglia oltre la quale scatta la vigilanza europea fosse altissima (30 miliardi euro di attivi), proprio per salvare le Sparkassen (una sola delle quali – su 417! – sarà vigilata dalla BCE). E, dulcis in fundo, alcune delle non molte banche tedesche che saranno controllate dalla BCE – 24 su 1.941 – non dovranno esibire agli ispettori europei i loro portafogli di mutui immobiliari: guarda caso, si tratta di Commerzbank e HSH Nordbank, banche tutt’altro che in buona salute.[4]
È senz’altro confortante che un Presidente del Consiglio italiano, per la prima volta da molto tempo, dismetta l’abito dello scolaretto e risponda per le rime agli arroganti di turno. Ma possiamo essere contenti di questi botta e risposta? Dipende.
Se il loro significato negoziale si esaurirà nella richiesta di un po’ di “flessibilità” in più nell’applicazione delle regole del “fiscal compact” – magari in cambio di qualche privatizzazione o della libertà di licenziare -, il risultato sarà inevitabilmente la prosecuzione delle politiche sbagliate degli ultimi governi e la rapida scomparsa dalla scena politica anche dell’attuale presidente del Consiglio, al pari dei tre precedenti.
Si tratta infatti di regole sbagliate, i cui vincoli hanno portato il nostro paese sull’orlo del baratro economico e completeranno l’opera non appena si tratterà non soltanto di mantenere strutturalmente il pareggio di bilancio,[5] ma addirittura di ridurre la parte del debito che eccede il 60% del pil addirittura del 5% annuo: una vera e propria mission impossible (sul Financial Times Wolfgang Münchau l’ha definita “folle”) che avrà quale unico plausibile risultato una prolungata depressione economica, mentre la situazione debitoria del nostro paese peggiorerà a causa della deflazione e del crollo del prodotto interno lordo.
Diversamente andranno le cose se il presidente del Consiglio italiano acquisirà consapevolezza dell’impossibilità (economica prima ancora che politica) di procedere con le regole attuali. Innanzitutto perché esse mirano a due obiettivi che non possono essere conseguiti. Il primo è la generalizzazione del modello mercantilistico tedesco (mentre il mercantilismo per funzionare ha bisogno di non essere generalizzato).[6]
Il secondo è il ridimensionamento per decreto dei debiti pubblici in una misura che non ha alcun precedente storico, e per di più in un ambiente deflazionistico (mentre tutte le riduzioni del debito sono avvenute tramite un insieme di misure che include l’inflazione). Nessuno di questi due obiettivi può essere raggiunto. E se si persevererà sulla strada intrapresa, il risultato sarà l’ulteriore impoverimento e desertificazione industriale e produttiva dei paesi della periferia dell’Europa, e l’implosione incontrollata e distruttiva dell’area monetaria dell’euro.
Bisogna cambiare strada. Molto dipenderà dalla volontà e capacità del nostro governo di modificare gli equilibri europei, eccessivamente alterati negli ultimi anni a favore della Germania. Una cosa è certa: ben difficilmente una Commissione Europea guidata da Juncker potrà essere un alleato.
NOTE
[1] Briten unterstellen Juncker massives Alkohol-Problem, “Bild”, 5 giugno 2014 http://www.bild.de/politik/ausland/jean-claude-juncker/sun-geruechte-alkohol-problem-36272124.bild.html .
[2] Sulla proposta di Juncker cfr. V. Giacché, Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013, pp. 272-4. Sulla Treuhand ivi pp. 75-119. Tra i molti testi sull’argomento si può vedere il documentatissimo libro inchiesta di D. Laabs, Der deutsche Goldrausch: Die wahre Geschichte der Treuhand, München, Pantheon, 2012.
[3] Le cifre sull’impatto delle manovre sul pil si trovano in: Istat, Rapporto Annuale 2014, Roma, maggio 2014, p. 210. Per i soldi spesi in Germania e in Europa a favore delle banche vedi M. Frühauf, “Milliardengrab Bankenrettung“, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.
[4] In argomento vedi: A. Ross, “German banks win lighter ECB scrutiny”, Financial Times, 10 marzo 2014; D. Becker et alii, “German banks: the laggards in the banking sector”, Kepler Cheuvreux - S&T: Banks, Paris, Kepler Cheuvreux, 11 aprile 2014, p. 57.
[5] Va ricordato che, “grazie” al fiscal compact, il tetto del 3% quale deficit massimo non esiste più: ormai la regola è lo 0%, da cui ci si può discostare soltanto in caso di ciclo negativo. E in effetti le recenti critiche della Commissione Europea all’Italia si appuntano sul fatto che il deficit, pur non avendo sforato il tetto del 3%, è ancora troppo alto. Sui criteri opinabili alla base di queste critiche si veda “Pacta servata sunt”, Rapporto CER. Aggiornamenti, Roma, Centro Europa Ricerche, 25 marzo 2014.
http://www.centroeuroparicerche.it/userfiles/RapportoCER-Aggiornamenti_PactaServataSunt_25-03-14.pdf .
[6] È interessante osservare come precisamente la preferenza fatta propria dalla Commissione Europea per il modello mercantilistico di sviluppo, che sacrifica i salari (e quindi la domanda interna) alla conquista di nuovi mercati all’estero, abbia impedito finora – contro le stesse regole europee – l’apertura di una procedura d’infrazione contro la Germania per squilibrio macroeconomico eccessivo, nonostante questo paese si avvii a sforare per il quinto (!) anno consecutivo il tetto massimo consentito del 6% di avanzo commerciale. In merito v. F. Fubini, “Berlino sfora il tetto del surplus commercial ma la UE non si muove”, la Repubblica, 5 luglio 20
di Vladimiro Giacché da Micromega
Salvo improbabili colpi di scena parlamentari, il democristiano lussemburghese Jean-Claude Juncker sarà il prossimo presidente della Commissione Europea. La designazione è avvenuta il 28 giugno al termine del Consiglio Europeo, con il voto contrario dell’Ungheria e quello, molto più pesante, della Gran Bretagna.
Non si tratta di una buona notizia. E non certo per il motivo malignamente avanzato dal giornale scandalistico britannico Sun, e prontamente rilanciato dall’equivalente tedesco Bild, ossia la presunta propensione all’alcol del presidente designato.[1]
I motivi di preoccupazione sono altri e più seri. In primo luogo, Juncker proviene da uno staterello noto ai più come paradiso fiscale, di fatto una città di 127.000 abitanti, che non ha mai espresso grandi statisti. Il precedente del lussemburghese Jacques Santer non è incoraggiante: la Commissione a sua guida fu travolta dagli scandali e dovette dimettersi con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale.
In secondo luogo, ed è questo il motivo fondamentale di preoccupazione, si tratta di una scelta che esprime una perfetta continuità con le disastrose politiche europee di gestione della crisi di questi ultimi anni. Sino al 2012 Juncker fu infatti presidente dell’Eurogruppo, ossia il gruppo di coordinamento dei ministri dell’economia e delle finanze dell’eurozona. In questa sua qualità condivise tutte le politiche adottate e tra l’altro si fece promotore della proposta di conferire il patrimonio statale greco a un istituto fiduciario non controllato dallo Stato ellenico, ma dai creditori stranieri, per privatizzare il tutto. Il modello cui ispirarsi fu indicato dallo stesso Juncker nella Treuhandanstalt, la società fiduciaria che nei primi anni Novanta aveva privatizzato l’intera economia della RDT (con risultati catastrofici e lasciando un buco di 250 miliardi di marchi dell’epoca).[2]
Anche quando si dimise dall’Eurogruppo, nell’aprile 2012, a suo dire per protesta contro le ingerenze franco-tedesche nella gestione della crisi (evidentemente se n’era accorto con qualche ritardo), Juncker non mancò di confermare la sua lealtà alla Germania proponendo quale successore il ministro delle finanze tedesco Schäuble.
Infine, questa nomina è frutto di uno scambio politico, per cui il socialdemocratico Martin Schulz sarà confermato alla guida dell’europarlamento anche coi voti dei popolari europei: le due nomine configurano insomma una vera e propria “grosse Koalition” a livello europeo tra popolari e socialdemocratici. Il rischio concreto è quello di una maggioranza formidabile in Parlamento per la prosecuzione delle politiche di austerity che hanno impoverito l’Italia e gran parte del continente.
Che su questa linea continui a collocarsi la parte più oltranzista dell’establishment tedesco è fuori di dubbio. Lo dimostrano le critiche rivolte a Matteo Renzi a Strasburgo da parte del capogruppo popolare al PE Manfred Weber (esponente della CSU bavarese, uscita malissimo dalle urne), che ha ribadito il rifiuto di ogni interpretazione “flessibile” delle regole europee. A Weber, Renzi ha fatto bene a ricordare che proprio alla Germania era stato consentito nel 2003 lo sforamento della regola del 3% del deficit per sostenere le riforme.
Avrebbe potuto aggiungere che l’Italia dal 2008 al 2012 è stata l’unico paese dell’eurozona che ha attuato unicamente politiche di bilancio restrittive (con un impatto negativo sul prodotto interno lordo pari a 5 punti percentuali), mentre la Germania nello stesso periodo ha attuato politiche espansive, con un impatto positivo sul pil pari al 6 per cento, grazie ai 69 miliardi di incentivi alle imprese e ai ben 259 miliardi di soldi pubblici spesi per salvare dal fallimento le banche tedesche (e se si includessero anche le garanzie si arriverebbe alla cifra strabiliante di 646 miliardi).[3]
Anche il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, parlando al consiglio economico della CDU (non proprio un punto a favore dell’autonomia della banca centrale tedesca…), si è permesso di ironizzare sul discorso di Renzi. E si è preso la risposta che si meritava: “noi rispettiamo lo statuto e il mandato della Bundesbank, ma deve rimanere fuori dal dibattito politico italiano”, ha detto Renzi; per poi aggiungere: “noi non andiamo ad indagare l’attività di vigilanza sulle Landesbanken e le Sparkassen”. Si tratta di un accenno, neppure troppo criptico, ai buchi nell’attività di vigilanza bancaria della Bundesbank, dimostrati oltre ogni ragionevole dubbio dai soldi che i contribuenti tedeschi hanno dovuto pagare per salvare le proprie banche, e in particolare le Landesbanken.
Del resto, la tutela esercitata dalle istituzioni tedesche nei confronti delle “loro” banche si è vista anche in occasione dei negoziati per la cosiddetta unione bancaria europea, in cui Schäuble ha ottenuto che la soglia oltre la quale scatta la vigilanza europea fosse altissima (30 miliardi euro di attivi), proprio per salvare le Sparkassen (una sola delle quali – su 417! – sarà vigilata dalla BCE). E, dulcis in fundo, alcune delle non molte banche tedesche che saranno controllate dalla BCE – 24 su 1.941 – non dovranno esibire agli ispettori europei i loro portafogli di mutui immobiliari: guarda caso, si tratta di Commerzbank e HSH Nordbank, banche tutt’altro che in buona salute.[4]
È senz’altro confortante che un Presidente del Consiglio italiano, per la prima volta da molto tempo, dismetta l’abito dello scolaretto e risponda per le rime agli arroganti di turno. Ma possiamo essere contenti di questi botta e risposta? Dipende.
Se il loro significato negoziale si esaurirà nella richiesta di un po’ di “flessibilità” in più nell’applicazione delle regole del “fiscal compact” – magari in cambio di qualche privatizzazione o della libertà di licenziare -, il risultato sarà inevitabilmente la prosecuzione delle politiche sbagliate degli ultimi governi e la rapida scomparsa dalla scena politica anche dell’attuale presidente del Consiglio, al pari dei tre precedenti.
Si tratta infatti di regole sbagliate, i cui vincoli hanno portato il nostro paese sull’orlo del baratro economico e completeranno l’opera non appena si tratterà non soltanto di mantenere strutturalmente il pareggio di bilancio,[5] ma addirittura di ridurre la parte del debito che eccede il 60% del pil addirittura del 5% annuo: una vera e propria mission impossible (sul Financial Times Wolfgang Münchau l’ha definita “folle”) che avrà quale unico plausibile risultato una prolungata depressione economica, mentre la situazione debitoria del nostro paese peggiorerà a causa della deflazione e del crollo del prodotto interno lordo.
Diversamente andranno le cose se il presidente del Consiglio italiano acquisirà consapevolezza dell’impossibilità (economica prima ancora che politica) di procedere con le regole attuali. Innanzitutto perché esse mirano a due obiettivi che non possono essere conseguiti. Il primo è la generalizzazione del modello mercantilistico tedesco (mentre il mercantilismo per funzionare ha bisogno di non essere generalizzato).[6]
Il secondo è il ridimensionamento per decreto dei debiti pubblici in una misura che non ha alcun precedente storico, e per di più in un ambiente deflazionistico (mentre tutte le riduzioni del debito sono avvenute tramite un insieme di misure che include l’inflazione). Nessuno di questi due obiettivi può essere raggiunto. E se si persevererà sulla strada intrapresa, il risultato sarà l’ulteriore impoverimento e desertificazione industriale e produttiva dei paesi della periferia dell’Europa, e l’implosione incontrollata e distruttiva dell’area monetaria dell’euro.
Bisogna cambiare strada. Molto dipenderà dalla volontà e capacità del nostro governo di modificare gli equilibri europei, eccessivamente alterati negli ultimi anni a favore della Germania. Una cosa è certa: ben difficilmente una Commissione Europea guidata da Juncker potrà essere un alleato.
NOTE
[1] Briten unterstellen Juncker massives Alkohol-Problem, “Bild”, 5 giugno 2014 http://www.bild.de/politik/ausland/jean-claude-juncker/sun-geruechte-alkohol-problem-36272124.bild.html .
[2] Sulla proposta di Juncker cfr. V. Giacché, Anschluss. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Reggio Emilia, Imprimatur, 2013, pp. 272-4. Sulla Treuhand ivi pp. 75-119. Tra i molti testi sull’argomento si può vedere il documentatissimo libro inchiesta di D. Laabs, Der deutsche Goldrausch: Die wahre Geschichte der Treuhand, München, Pantheon, 2012.
[3] Le cifre sull’impatto delle manovre sul pil si trovano in: Istat, Rapporto Annuale 2014, Roma, maggio 2014, p. 210. Per i soldi spesi in Germania e in Europa a favore delle banche vedi M. Frühauf, “Milliardengrab Bankenrettung“, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 16 agosto 2013.
[4] In argomento vedi: A. Ross, “German banks win lighter ECB scrutiny”, Financial Times, 10 marzo 2014; D. Becker et alii, “German banks: the laggards in the banking sector”, Kepler Cheuvreux - S&T: Banks, Paris, Kepler Cheuvreux, 11 aprile 2014, p. 57.
[5] Va ricordato che, “grazie” al fiscal compact, il tetto del 3% quale deficit massimo non esiste più: ormai la regola è lo 0%, da cui ci si può discostare soltanto in caso di ciclo negativo. E in effetti le recenti critiche della Commissione Europea all’Italia si appuntano sul fatto che il deficit, pur non avendo sforato il tetto del 3%, è ancora troppo alto. Sui criteri opinabili alla base di queste critiche si veda “Pacta servata sunt”, Rapporto CER. Aggiornamenti, Roma, Centro Europa Ricerche, 25 marzo 2014.
http://www.centroeuroparicerche.it/userfiles/RapportoCER-Aggiornamenti_PactaServataSunt_25-03-14.pdf .
[6] È interessante osservare come precisamente la preferenza fatta propria dalla Commissione Europea per il modello mercantilistico di sviluppo, che sacrifica i salari (e quindi la domanda interna) alla conquista di nuovi mercati all’estero, abbia impedito finora – contro le stesse regole europee – l’apertura di una procedura d’infrazione contro la Germania per squilibrio macroeconomico eccessivo, nonostante questo paese si avvii a sforare per il quinto (!) anno consecutivo il tetto massimo consentito del 6% di avanzo commerciale. In merito v. F. Fubini, “Berlino sfora il tetto del surplus commercial ma la UE non si muove”, la Repubblica, 5 luglio 20
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lunedì 7 luglio 2014
Ipocrisia e incoerenza cattolica
di Tonino D’Orazio
Cos’ha detto questa
mattina Bergoglio? Non c’è telegiornale, ogni giorno che non ci
descriva una frase a effetto di Bergoglio. Tutti si commuovono per la
sua saggezza a livello popolare, comprensibile, non escatologico come
il suo predecessore. Eppure non sono altro che ceffoni per la
coscienza cattolica che governa questo paese da secoli e più in
generale per il mondo cristiano intero.
Pensate cosa dice sugli
immigrati come esseri umani e pensate a Giovannardi o a CL di
Formigoni. Pensate a come la dignità umana, nell’assuefazione,
nella paura popolar-cattolica o nella stupidità dei leghisti, venga
legalmente calpestata davanti e dietro le nostre coste. Pensate alle
“leggi” repressive, degli ex-comunisti Napolitano-Turco o degli
ex-fascisti Bossi-Fini, cioè dei catto-comunisti veraci e dei
catto-fascsiti concordatari. Pensate al rinvio renziano del problema
immigrazione alle responsabilità europee.
Pensate a come la
cattolicissima Spagna, a Ceuta, vicino a Melilla, possedimento
frontaliero sulle coste marocchine, stia alzando ad oltre 6 metri di
altezza la barriera di filo spinato anti-immigrazione, oltre,
ovviamente a sparare sui clandestini che tentano di superarla con
proiettili di gomma (non viene mai indicata la durezza chimica del
proiettile). Piano piano il concetto di sparare è abbastanza caro e
popolare anche in Italia. Anche in quella bocca del Mediterraneo,
ormai da considerare cimitero di guerra, galleggiano cadaveri. In
tutto il Mediterraneo sicuramente il numero ufficiale degli annegati
va moltiplicato per dieci. E questa catastrofe sembra non interessare
più nessuno, non suscita già più indignazione, forse sempre più
paura sui numeri giornalieri, mentre tutti si commuovono davanti ai
Facebook vari e alle stupidaggini più banali, con gli animali
domestici (che non c’entrano nulla), super coccolati e super
nutriti, compresi.
Pensate ai cattolici o ai
cristiani nord-americani, di ogni tipo, oppure a tutti quelli che si
riferiscono direttamente a tutte le contraddizioni della bibbia,
utilizzando alla carte una volta un versetto e una volta
un’altro. Si occupano moltissimo, giustamente, di tutto quello che
rappresenta la pedofilia ecclesiastica, nel frattempo hanno costruito
(efficacemente dal 1994) il Boarder Wall, un muro anti-uomo di
metallo, reti ed elettricità sul confine con il Messico. Un muro
lungo più di mille Km, costellato da telecamere, rilevatori di
movimento, moderne squadre di vigilanza e, in alcuni punti (come in
California), la costruzione ha un doppio muro rinforzato dal ferro
spinato con una presenza militare 24h su 24, oltre all’acquisto di
veicoli altamente tecnologici, di aerei e droni non ancora armati.
Pensano di costruire altri 1.000 Km di recinzione in aggiunta, dotare
la frontiera di radar, di oltre 40.000 poliziotti, e di
riconoscimenti biometrici vari. Tutto ciò (ok repubblicani) in
cambio della GreenCard di permanenza (Obama) per i clandestini
attuali presenti da più di 10 anni. Il muro non ha impedito che sul
territorio statunitense vi siano oltre 11 milioni di immigrati
irregolari (di cui oltre la metà di origine ispanica) e che la
lingua “non ufficiale”, ma parlata a maggioranza, di varie città
sul confine, Los Angeles compresa, come il nome e la storia tradisce,
sia lo spagnolo. La testa di ponte era ed è la lingua e la religione
cattolica. Aree dove metodisti e protestanti anglosassoni del nord
sono veramente minoritari e sconfitti.
Pensate al muro
vergognoso da aparteit (segregazione) di Gerusalemme mentre
davanti a Bergoglio si abbracciano Abu Mazen e Shimon Peres. “Pace
e coesistenza tra i due popoli.” Già, lo diciamo tutti da almeno
50 anni su uno strato tale di morti da ricordare l’olocausto in
ruolo scambiato. Ma ogni volta sembra tutto appena nuovo e di buon
inizio. Se nel passato non fosse stato per il “palestinese”
Andreotti, mai i cattolici sarebbero stati presenti in quell’area
in termini di equilibrio. Oggi non più, ci hanno fatto scegliere
Israele e i loro crimini con coscienza tranquilla di sapere che i
cattivi sono sempre le vittime, anche quando tentano di difendersi
con archi e frecce. Nel frattempo Israele continua a occupare
strutturalmente e a costruire altre mille ville per i coloni,
impoverendo e continuando il genocidio sottile della popolazione
locale. Insomma non bastano immagini, slogans, frasi shock
e preghiere condivise. Non ci si può nascondere dietro un dito a
suon di ceffoni.
L’altro ceffone va
ricondotto allo stato sociale in cui, con soprattutto il voto dei
cristiani di ogni bordo, il neoliberismo sta riducendo in povertà la
maggioranza della popolazione mondiale. Il tema della povertà,
collegato a quello del lavoro, rischia di essere un cosiddetto tema
surrealista. A. Breton, 1924: “Comando del pensiero, in assenza
di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni
preoccupazione estetica e morale”. E’ la realtà
disastrosa che ci ricorda cinicamente l’Istat quasi ogni giorno.
Basta guardare bene intorno a sé, allora se ne intuiscono, o se ne
vedono, volendolo, tutti i drammi. Compresa la razionale
compravendita del voto per 80€ in qualità di sogno futuro, sapendo
di doverne ridate il doppio al più presto. Sogno futuro condiviso
dall’attesa dei pensionati.
Bergoglio proviene dal
mondo della povertà e sa di cosa parla ogni volta e a chi. Anche se
da gesuita ha convissuto per decenni tutto il periodo sud americano
della teologia della liberazione. Per questo i poveri, ormai
anche in Italia milioni, lo capiscono. Ogni giorno è un ceffone ai
poteri forti e al “peccato” dell’arricchimento indebito, cioè
non da lavoro, o a scapito della dignitosa esistenza umana. E’ una
vera condanna a chi sta distruggendo l’assioma della sacralità
della famiglia, pur riempiendosene la bocca. Quando Bergoglio
interviene troppo fortemente, (“Non si può servire due padroni,
Dio e la ricchezza”), con un moralismo comunicativo, le lobbies
e la stampa internazionale (anglo-americana, cioè protestante),
ovviamente in mano loro anche in Italia, lo rimettono al posto suo
ricacciando il tema della pedofilia, tema serio ovviamente, ma ormai
da polverone pilotato, malgrado la coraggiosa decisione di Bergoglio:
“Se ne occupino i tribunali locali”. Basta farci caso per
capire il gioco. Guardate anche la commozione e l’abbassamento di
voce, a volte il sussurro di scena, dei telecronisti per intuire
l’attesa misteriosa delle parole quando si aspetta Bergoglio. Si
dice sussiego?
Ma il popolo, in gran
parte il mondo cattolico se si può dire, si accontenta della
bellezza delle parole di Bergoglio facendo finta di non capirne la
violenza dell’accusa di corresponsabilità e di omertà. Si rifugia
nel “Date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di
Cesare”. Ma Cesare si è mangiato anche Dio nella sua immagine e
figura umana di povertà e contro l’ingiustizia del Figlio. Con
Cesare hanno scelto il Dio-Denaro e la sopraffazione.
Se proprio i cattolici
fanno finta, o non se ne sono accorti (ma mi stupirebbe), o si
offendono, allora ben venga: “Cos’ha detto oggi Bergoglio?”
E avanti così!
giovedì 3 luglio 2014
Veronica Teodoro, l'assessore più giovane d'Italia: storie di famiglia e di familismo
In Italia si sa, non fai carriera
se non appartieni alla famiglia giusta e non credo proprio sia questione
di geni. Vi ricordate la figlia della Fornero, quella che a 32 anni faceva carriera nel mondo accademico mentre mamma Elsa rimproverava ai giovani di essere troppo choosy?
A Pescara, città di circa 150000
abitanti che da poco ha eletto il sindaco (Pd), abbiamo avuto in questi
giorni un esempio ordinario di familismo. Niente di eccezionale, solo
che normalmente quando un figlio di tal padre viene eletto a qualche
carica, che magari precedentemente ricopriva il blasonato genitore, o
vince qualche concorso, il tutto passa seguendo determinate norme, che
sebbene stando a quanto dicono i maligni, vengano bellamente aggirate,
facendo lievitare come per incanto le chance del rampollo di turno,
mantengono almeno un'apparenza di legalità. In questo caso specifico
invece, Teodoro padre ha imposto come assessore esterno
al patrimonio con delega alle politiche giovanili la figlia
diciannovenne Veronica, quale contropartita dei voti portati, senza che la stessa abbia un minimo di requisito o di curriculum (come potrebbe a
diciannove anni?) e senza che questa abbia dovuto affrontare alcuna vera
o finta selezione. Il padre si fa da parte per lasciare il posto alla
giovane rampolla, una successione dinastica in stile pecoreccio.
Vale la pena di ricordare che Teodoro ha dato il
suo determinante contributo di voti alle ultime tre giunte, una di
destra e due di sinistra, tenendo i piedi ben saldi nella stanza dei
bottoni, indipendentemente dal colore politico delle amministrazioni che
si succedevano a palazzo, e che Alessandrini, figlio
del giudice ucciso da prima linea, si era proposto, ça va sans dire,
come il simbolo del nuovo all'insegna della meritocrazia.
Questo episodio, in apparenza banale, ha il pregio
di sbattere in faccia a tutta la comunità la natura contundente e
offensiva del familismo e del clientelismo su cui si regge saldamente il
sistema Italia, e lo fa con una virulenza tale da incrinare anche
quella dura corazza di indifferenza e di ignavia di cui si barda un
cittadino ormai avvezzo a tutto.
La questione non è secondaria né irrilevante, e
anche se come si suol dire quello che accade dietro le quinte della
politica è molto peggio di ciò che si vede alla luce del sole, è proprio
perché un tale avvenimento è così sfacciatamente in conflitto con i
propositi "riformisti" e nuovisti del new deal piddino, che vale la pena
di enfatizzarlo. Mettere con le spalle al muro un'amministrazione che
si riempie la bocca di parole come merito, trasparenza e legalità è la
maniera migliore per testare la sua coerenza. Diversamente sarà la
riprova che al di là delle differenze di facciata il sistema politico ha
un'essenza unica ed il suo unico scopo e la pura sopravvivenza.
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