di Carlo Formenti da Micromega
È possibile che la lotta di classe, espulsa dal linguaggio e dalla
prassi di partiti e sindacati (ex)socialdemocratici europei, riacquisti
diritto di cittadinanza proprio in quell’area angloamericana da cui le
controrivoluzioni di Reagan e Tatcher – e dei loro epigoni di destra e
di “sinistra”- sembravano averla definitivamente bandita? Non
vorrei sembrare troppo ottimista, ma mi pare che dalla scena
politico-sindacale di Stati Uniti e Inghilterra arrivino segnali
incoraggianti in tal senso.
Partiamo dagli Stati Uniti. Dopo che le leggi punitive nei confronti
del diritto di organizzazione e di sciopero e le pratiche antisindacali
delle imprese avevano ridotto quasi a zero il tasso di sindacalizzazione
dei dipendenti privati e pubblici, da qualche anno stiamo assistendo a
una vivace ripresa di lotte per ottenere aumenti salariali, ritmi di
lavoro meno stressanti e un parziale recupero dei diritti sociali
massacrati dalle politiche anti welfare.
I protagonisti di questa ondata non sono né quel che resta della
classe operaia industriale, falcidiata dalle delocalizzazioni, né quei
“lavoratori della conoscenza” che i teorici postoperaisti insistono a
considerare come l’avanguardia del proletariato globale. A smuovere le
acque di una società ingessata dalla disuguaglianza fra super ricchi e
working poor (la massa di coloro che non guadagnano a sufficienza per
vivere dignitosamente) sono soprattutto gli addetti ai servizi: catene
commerciali, logistica, ristorazione, servizi di cura, ecc.
Molti sono giovani, afroamericani o immigrati (moltissimi i latinos)
che hanno imparato a creare nuove, combattive organizzazioni sindacali,
mentre i loro interessi appaiono spesso in conflitto con quelli della
middle class (vedi le proteste dei conduttori degli autobus che portano
al lavoro i nerd della Silicon Valley, o quelle degli abitanti di
quartieri colonizzati e “gentrizzati” dai quadri della New Economy). E
cominciano a ottenere risultati significativi: dall’aumento del salario
minimo in alcuni importanti Stati e città, alla recente sentenza
del National Labor Relations Board che stabilisce un principio
importantissimo: quando negoziano con imprese che svolgono attività di
subappalto, i sindacati possono coinvolgere nella trattativa le società
appaltatrici. In settori dove il franchising è la regola, la decisione è
destinata ad avere notevole impatto (non a caso è ferocemente
contestata da lobby, associazioni imprenditoriali e politici di destra).
Gli effetti del cambiamento di clima sindacale sono venuti a sommarsi
a quelli delle mobilitazioni del movimento Occupy Wall Street , il
quale – finché è durato – aveva tentato di saldare le lotte di questi
strati sociali con quelle di una massa studentesca indebitata e senza
prospettive di mobilità sociale, contribuendo al successo della campagna
elettorale di Bernie Sanders, che potrebbe diventare il primo candidato
socialista a sfiorare la nomination Democratica.
All’ascesa di Sanders fa riscontro quella di Jeremy Corbyn, l’anziano
esponente della sinistra laburista che potrebbe fra poco diventare il
nuovo segretario del partito. Corbyn non si afferma grazie a una nuova
ondata di lotte, ma è a sua volta espressione di crescenti tensioni
sociali che potrebbero invertire la dinamica che ha trasformato i
laburisti in neoliberisti di centro. La base sindacale e la struttura
territoriale dei militanti, esasperati da decenni di politiche filo
padronali, privatizzazioni, tagli al welfare, ecc. condotte con la
complicità o con l’avvallo esplicito del loro stesso partito, hanno
trovato in Corbyn il campione di una rivoluzione “restauratrice” (come
la definiscono i media mainstream). Se il colpo riuscisse,
interromperebbe quella logica del “pendolo”, in base alla quale, dopo la
sconfitta elettorale di un leader “di sinistra” come Miliband,
s’imporrebbe un ritorno alle posizioni della destra blairiana.
Se Corbyn la spuntasse regalerebbe nuove vittorie ai Conservatori, ammoniscono i media inglesi, ai quali fa eco Paolo Mieli in un recente editoriale sul “Corriere”,
in cui fustiga il “masochismo” delle sinistre radicali (i fuorusciti
di Syriza, la Linke tedesca, gli oppositori di Renzi e lo stesso Corbyn)
che “fanno il gioco” delle destre, impedendo l’affermazione di una
sinistra “moderna” (leggi liberista!). Ma l’inedita lezione che oggi ci
viene da Occidente è che la sinistra non rinasce puntando a governare
(né Sanders né Corbyn realisticamente ci arriveranno) bensì ricostruendo
la rappresentanza degli interessi di classe.
lunedì 31 agosto 2015
domenica 30 agosto 2015
Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy
di Riccardo Bellofiore da syloslabini.info
Il dibattito di Sweezy con Schumpeter
Paul Sweezy è stato assistente di
Schumpeter. Il rapporto di amicizia e la distanza intellettuale sono
tali per cui la parola discepolo suona stonata. Come scrisse al
fratello Al, benché interessato dalle teorie dell’economista austriaco,
non se ne sentì granché influenzato. La relazione personale fu però
molto forte, quasi fosse il sostituto del figlio mai avuto. Tra i due
si svolse un memorabile dibattito, di cui è rimasta memoria grazie al
«ricordo» di Paul Samuelson su «Newsweek» il 13 aprile1970, e ai materiali resi disponibili da John Bellamy Foster sulla «Monthly Review» nel maggio 2011. Era l’inverno del 1946-47. Il Socialist
Party di Boston aveva chiesto al dipartimento di economia di Harvard
di ospitare un dibattito su capitalismo e socialismo. Schumpeter
ritenne poco appropriato che la discussione si svolgesse all’interno
delle lezioni, e suggerì senza successo che il Graduate Student Club se
ne facesse promotore. Il dibattito ebbe luogo senza sponsor,
protagonisti appunto Schumpeter e Sweezy. Dal racconto di Samuelson,
più di vent’anni dopo, traspare ancora l’eccitazione per l’evento:
“Schumpeter era il rampollo
dell’aristocrazia austriaca all’epoca di Francesco Giuseppe. Aveva
confessato di avere tre desideri: di essere il più grande amatore a
Vienna, il miglior cavallerizzo in Europa, il più grande economista del
mondo. «Sfortunatamente», aggiungeva con modestia, «il posto che mi è
stato dato [ad Harvard] non era di primo livello».…
A contendere con l’astuto Merlino stava
il giovane Sir Galahad [figlio illegittimo di Lancillotto, uno dei tre
cavalieri che nel ciclo arturiano ritrova il Sacro Graal]. Figlio di un
alto dirigente della banca J.P. Morgan, Paul Sweezy era il meglio che
Exeter e Harvard potessero produrre … e si era affermato come uno dei
più promettenti economisti della sua generazione. Annoiato della
«saggezza convenzionale» e stimolato dagli eventi della Grande
Depressione [degli anni Trenta], era divenuto uno dei pochi marxisti
americani … In modo ingiusto, gli dei avevano dotato Paul Sweezy non
soltanto di un ingegno brillante, ma anche di arguzia e bellezza. Se un
fulmine si fosse abbattuto su di lui quella notte, si sarebbe
giustamente detto che lo aveva colpito l’invidia degli dei.”
Dopo la presentazione dei personaggi,
Samuelson procede a sintetizzare lo «scontro» attraverso le parole che
attribuisce al moderatore, Wassili Leontief. «Il paziente è il
capitalismo. Entrambi gli oratori lo davano per morente, ma le diagnosi
differivano. Sweezy riteneva si trattasse di un cancro incurabile.
Schumpeter (il cui affetto andava al sistema defunto nel 1914)
attribuiva il prossimo decesso a un conflitto nevrotico, ad un odio di
sé che gli aveva fatto perdere la voglia di vivere. Sweezy stesso
sarebbe stato talismano e segno profetico di ciò». Il giudizio unanime
fu che l’economista austriaco avesse perso l’incontro. Restio, come
sempre, a presentare la propria visione e la propria analisi, si era
lanciato in una apologia degli Stati Uniti, probabilmente per il suo
usuale gusto della provocazione.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens, ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente, perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
Bellamy Foster ipotizza che Schumpeter si fosse basato sul capitolo 28 della non ancora pubblicata seconda edizione di Capitalismo, Socialismo, Democrazia, dove criticava le tesi «stagnazionistiche» che alcuni autori (il più noto è Alvin Hansen) avevano tratto da Keynes. Bellamy Foster ha anche pubblicato gli appunti di Sweezy. Non era l’innovazione il primum movens, ma l’accumulazione: un processo che non tende ad autoequilibrarsi. Lo squilibrio tra investimenti e risparmi si riproduce sistematicamente, perché non vi è modo di adattare l’investimento ai bisogni dell’accumulazione, o di far sì che, se gli investimenti fossero inadeguati, i capitalisti effettuino dei consumi compensativi. Non è dunque vero che il capitalismo «trustificato» sia in grado di generare più stabilità e di attenuare le crisi (come sostenuto da Hilferding per il «capitalismo organizzato»). Le ragioni della tendenza alla crisi del capitalismo non sono sociologiche o psicologiche: sono economiche, anche se non ha senso ricondurre il ciclo a una causa unica e uniforme.
D’altra parte, l’ombra di Schumpeter sembra distendersi su quel che dice Sweezy nel 1982, in Why Stagnation, dove pure sostiene la rinnovata importanza della tendenza alla stagnazione:
“Significa questo che sto sostenendo
che la stagnazione è divenuta uno stato di cose permanente? Niente
affatto. Alcuni – e tra questi credo sia legitttimo includere Hansen –
pensavano che la stagnazione degli anni Trenta «fosse qui per
rimanere», e che potesse essere superata soltanto attraverso mutamenti
fondamentali nella struttura delle economie capitalistiche avanzate.
L’esperienza ha dimostrato che avevano torto, e un argomento del genere
potrebbe rivelarsi falso anche oggi.”
Nella stessa «disfida» con Schumpeter
il marxista statunitense aveva iniziato dichiarando il proprio accordo
con una frase dell’antagonista nella Teoria dello sviluppo economico: «Capitalism … is by nature a form or method of economic change and not only never is but never can be stationary».
La biografia
Sweezy è nato a New York, nel 1910,
rampollo della alta borghesia degli Stati Uniti, figlio di un
vicepresidente della First National Bank. I suoi primi scritti
compaiono sull’«American Economic Review», la più prestigiosa rivista
di economia, prima ancora di aver esaurito il primo ciclo degli studi
universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e alla Harvard
University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla London School
of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e dove ebbe un
primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939 per il
dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre ai
rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu quello
di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone: tra
loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie dell’economista
austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per l’economia. Allievo di
Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert Solow, che partecipò al
corso sull’economia del socialismo. In una bella intervista a Savran e
Tonak, tradotta da L’ospite ingrato, Sweezy ricorda come Solow
fosse al tempo uno dei giovani economisti più radicalmente orientati a
sinistra (non si poteva dire lo stesso, osserva, di Samuelson).
Ottenuta una posizione di ruolo, continua Sweezy, il radicalismo di
Solow impallidì alquanto. Sweezy non inclina ad alcun giudizio
«moralistico». Riferendosi a Solow, ma anche a Eric Roll, dirà:
“È, in certo modo, una sorta di
opportunismo, ma non volgare o immorale in casi come questi. Tali sono
le pressioni della società americana che, per una persona, è
estremamente difficile resistere, soprattutto se non ha un’indipendenza
economica. Dovete capire che probabilmente anch’io mi sarei comportato
nello stesso modo. Fortunatamente, non dovevo dipendere da uno
stipendio universitario.”
L’interpretazione del titolo The Economics of Socialism
era alquanto «larga», visto che Sweezy sondava il terreno della
ricostruzione delle varie tradizioni teoriche del socialismo, andando
ben oltre il marxismo in senso stretto. In quel corso, peraltro, Sweezy
si provò anche a sviluppare una trattazione accademica e rigorosa del
marxismo; a questo scopo si basò molto sulla letteratura europea, anche
di lingua tedesca, che conosceva nell’originale. Fu così che, nel
tempo, Sweezy costruì una delle sue opere più famose, quell’autentico
classico che è ancor oggi La teoria dello sviluppo capitalistico, pubblicato nella sua prima edizione nello stesso anno, il 1942, in cui Schumpeter (la cui prima opera fu La teoria dello sviluppo economico del 1911) pubblicava Capitalismo, Socialismo, Democrazia.
È in questo arco di anni che Sweezy
diviene marxista, da autodidatta. Non si può dire sia stata una scelta
saggia dal punto di vista accademico. I suoi scritti di teoria
economica standard erano accettati nelle migliori riviste. Dopo
l’articolo sull’«American Economic Review» del dicembre del 1930 (The Thinness of the Stock Market) aveva pubblicato sul «Quarterly Journal of Economics» nel 1937 (On the definition of Monopoly), e sul «Journal of Political Economy» (Demand Under Conditions of Oligopoly)
nel 1939. Quest’ultimo articolo finì rapidamente sui libri di testo, e
capita di vederlo citato anche ai nostri giorni – senza che gli
studenti che sanno qualcosa di marxismo (una rarità) sospettino che si
tratta della stessa persona. L’interesse al tema della concorrenza
imperfetta è testimoniato anche dal suo primo libro del 1938, la sua
dissertazione di dottorato, dedicata al commercio del carbone in
Inghilterra (Monopoly and Competition in the English Coal Trade), edito dalla Harvard University Press.
Sono anni in cui Sweezy è influenzato
dal keynesismo, e dal dibattito sulla presenza o meno di una tendenza
alla «stagnazione». Nel 1936 era uscita la General Theory, gli Usa erano ormai dal 1929 in quello che John Kenneth Galbraith appropriatamente definì come The Great Crash. Nel 1932 un quarto della popolazione era disoccupata. La ripresa a metà degli anni Trenta stimolata dal New Deal
si accompagnava a una vivace stagione di lotte «dal basso». Vi fu però
una grave ricaduta nella crisi nel 1937-38 quando Roosevelt,
spaventato dai disavanzi nel bilancio pubblico, tirò il freno. Dalla
crisi si uscì davvero con la Seconda guerra mondiale. Sweezy fece in
quegli anni parte di alcune agenzie del New Deal, e partecipò alla stesura di un importante rapporto del 1938, The Structure of the American Economy,
che sostenne l’opportunità di una via d’uscita «keynesiana» dalla
crisi. Intanto lavorava alla divisione analisi e ricerca dell’Office of
Strategic Services, la futura Central Intelligence Agency, curando
l’European Political Report.
Per le sue pubblicazioni, e non solo
per lo stretto rapporto di confronto intellettuale e di amicizia con
Schumpeter, Sweezy era lanciato sulla via di una carriera accademica di
successo. Nel 1942 lascia Harvard per un paio di anni, per un viaggio
di ricerca: all’epoca è titolare di un contratto temporaneo della
durata di 5 anni. Mentre è via, si apre la prospettiva per un posto di
ruolo permanente in quella università. Schumpeter appoggia Sweezy con
determinazione. Ciò non di meno il Dipartimento di Harvard non lo
vuole. Sweezy ricorderà la diffusa leggenda di un suo «licenziamento»
da Harvard, ma la smentirà. Tornato dal suo viaggio, avrebbe avuto in
teoria la possibilità di rimanere ancora due anni. Gli venne però
chiaramente fatto capire che nessuno voleva un marxista come docente di
ruolo, e perciò dopo quei due anni se ne sarebbe dovuto andare. Decise
di «non restare in mezzo al guado».
Nel 1953, nel pieno della caccia alle
streghe comuniste di McCarthy, Sweezy viene convocato e interrogato in
un processo intentato dallo stato del New Hampshire. Si rifiutò di
rispondere alle domande. Viene condannato, e si appella alla Corte
Suprema, che nel 1957, gli darà ragione. La sentenza segna una svolta, e
prelude all’esaurirsi della caccia alle streghe. All’inizio degli anni
Sessanta Sweezy, insieme a Paul Baran, scrive Monopoly Capital, pubblicato in originale nel 1966, tradotto da Einaudi. Mentre la Teoria dello sviluppo capitalistico
era una introduzione al marxismo in tutti i suoi vari aspetti – dalla
teoria del valore, alla teoria della crisi, fino all’ultima parte
dedicata alla teoria dell’imperialismo – Il capitale monopolistico
affronta il passaggio dalla fase concorrenziale del capitalismo
dell’epoca di Marx alla fase della contemporanea concorrenza fra
oligopoli. Èun saggio redatto volutamente nel linguaggio dell’economia
tradizionale, di tipo keynesiano-istituzionalista, talora addirittura
con accenti neoclassici.
Nel 1949 Sweezy aveva fondato, con Leo
Huberman, la «Monthly Review». La rivista ebbe una edizione italiana
tra il 1968-1987 grazie all’iniziativa di Enzo Modugno, che spesso ne
stilava l’editoriale per la copertina (furono in seguito coinvolti Lisa
Foa e Luciano Canfora); e fu agli inizi distribuita nelle edicole,
vendendo sino a 20.000 copie. Il primo numero si apriva con un articolo
famoso: Perché il Socialismo di Albert Einstein. Sweezy e i
collaboratori della «Monthly Review» entreranno in relazione con molte
esperienze rivoluzionarie: da Mao a Cuba (su cui pubblicò due libri con
Leo Huberman: nel 1960, Cuba: anatomia di una rivoluzione, e nel 1969 Socialismo a Cuba).
Gli anni Settanta e Ottanta sono punteggiati dai numerosi articoli in
cui Sweezy, da solo o con altri (in primis, Harry Magdoff), propone una
interpretazione della crisi capitalistica, riconducendola alla crisi
da realizzazione. Ma Sweezy va oltre e, già negli anni Settanta,
formula un’analisi della sempre maggiore finanziarizzazione del
capitalismo. La finanza «conta», sia nel suo aspetto contraddittorio
sia nel suo aspetto funzionale all’accumulazione del capitale. Su tutto
questo sono importanti le raccolte di articoli della rivista, alcune
tradotte in italiano da Editori Riuniti, come Dinamica del capitalismo americano (1970) e La fine della prosperità (1977), altre no, come Stagnation and Financial Explosion (1987) e The Irreversible Crisis (1988).
Sono anni in cui Sweezy interviene in
molti altri dibattiti. Sulle economie e le società post-rivoluzionarie
ha una polemica con Charles Bettelheim (Il socialismo irrealizzato).
Sweezy è sempre stato critico rispetto all’idea del socialismo
sovietico come incarnazione del socialismo. Non ha però aderito alla
tesi di ispirazione trockijsta secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe
stata uno «stato operaio degenerato»; e neppure all’interpretazione di
ascendenza maoista secondo cui l’Unione Sovietica sarebbe rimasta
un’economia capitalistica. Se è vero che permangono elementi
capitalistici, si ha comunque a che fare con economie e società non più
capitalistiche, ma post-rivoluzionarie e post-capitaliste.
Il contributo di Sweezy è stato
significativo anche in altre due discussioni. La prima si svolse negli
anni Cinquanta e fu originata dalla pubblicazione dei Problemi di storia del capitalismo
di Maurice Dobb. La posizione di Sweezy sottolineava fortemente il
ruolo del commercio nella transizione dal feudalesimo al capitalismo,
smarcandosi rispetto ad una lettura più chiusa nel mondo della
produzione. La seconda, sulla individuazione dei possibili soggetti di
un cambiamento rivoluzionario, si svolse negli anni Sessanta e
Settanta. Sweezy rimarcava la tendenziale integrazione della classe
operaia dei paesi avanzati, e riponeva le proprie speranze di un
cambiamento rivoluzionario nella «periferia» e nelle lotte di
liberazione nazionale.
In quel che segue, anche per le ricadute
sulla lettura del capitalismo contemporaneo e la sua crisi, mi
concentrerò essenzialmente sulla interpretazione che dà Sweezy della
teoria marxiana del valore e della crisi, su alcuni aspetti della sua
teoria del capitalismo monopolistico, e sulla sua lettura della
finanziarizzazione. In conclusione, tratterò della riflessione di un
autore molto lontano dalle tesi della «Monthly Review», eppure
significativo per intendere bene i limiti dell’economia keynesiana e la
tendenza del capitalismo alla crisi: Paul Mattick.
La teoria del valore
Nel suo libro del 1942 Sweezy riprende
la distinzione di Franz Petry tra l’aspetto qualitativo e l’aspetto
quantitativo nella teoria del valore-lavoro. L’aspetto qualitativo
rimanda alla tesi che i valori sarebbero cristallizzazioni di lavoro,
quali che siano i «valori di scambio» (ovvero i rapporti di scambio
proporzionali alle quantità di lavoro direttamente e indirettamente
contenute nelle merci). L’aspetto quantitativo ha a che vedere con la
«trasformazione» dei valori di scambio in un secondo, ulteriore sistema
di rapporti di scambio, i «prezzi di produzione». Il dibattito
successivo ha chiarito che Sweezy (come Dobb e Meek) patisce una
definizione di astrazione del lavoro ridotto a generalizzazione
mentale. Il discorso marxiano sui rapporti di scambio viene riletto
riconducendolo al solo momento dell’equilibrio. Il ragionamento si
articola in due approssimazioni successive, di cui i valori di scambio
costituirebbero la prima, i prezzi di produzione la seconda.
Sweezy ha messo in circolo per primo
nella discussione accademica (e non solo) i percorso che, da
Bortkiewicz a Seton, si è impegnato in una «correzione» della
trasformazione di Marx, nel solco del simultaneismo. Il punto è che al
capolinea di quella tradizione pare proprio esservi l’inessenzialità
dei valori di scambio come punto di partenza della fissazione dei
prezzi di produzione. Sraffa può essere inteso come una implicita, ma
decisa, critica di questa impostazione. In Produzione di merci a mezzo di merci
salta infatti la determinazione dualistica dei rapporti di scambio di
equilibrio. In un primo modello, i prezzi capitalistici vengono
immediatamente fissati una volta dati la «configurazione produttiva» e
il salario reale di «sussistenza». In un secondo modello si ammette un
grado di libertà nella distribuzione, e i prezzi sono determinati una
volta definita la spartizione conflittuale del prodotto netto tra
profitti e salari. La caduta dell’aspetto quantitativo della teoria del
valore-lavoro trascinerebbe con sé l’aspetto qualitativo. Il problema
è che così salta pure la tesi che la genesi del plusvalore sia da
ricondurre al pluslavoro: una conclusione che può essere giustificata
soltanto sulla base della possibilità di istituire un confronto tra la
quantità di lavoro oggettivata dai lavoratori nelle merci prodotte e la
quantità di lavoro che torna loro in quanto contenuta nei beni salario.
Va però detto che Sweezy, alla fine
degli anni Settanta, si è smarcato con molta forza dal marxismo
«tradizionale» con cui era stato (non a torto) identificato. La sua
strada – sostiene – deve intendersi come alternativa sia alla visione
di Dobb (l’autore che aveva meglio definito una lettura di Marx in
termini di due livelli di approssimazione nella determinazione dei
prezzi di equilibrio, e che su quel fondamento aveva suggerito una
continuità non problematica tra Sraffa e l’autore del Capitale) sia a quella di Steedman, che nel suo Marx dopo Sraffa
aveva suonato la campana a morto per la teoria del valore-lavoro
sottolineando una profonda frattura tra i due autori sul terreno della
teoria dei prezzi). In una lettera a Michael Lebowitz del 30 dicembre
1973, Sweezy così giudica la posizione di Dobb:
“Il problema con loro, e il punto di
vista da cui vanno (simpateticamente) criticati, sta nel fatto che in
questa era, e oggi, non è possibile una critica efficace del
capitalismo che non sia marxista. Coloro che come Dobb immaginano che
lo sraffismo sia una specie di variante del marxismo sono sulla strada
sbagliata. Il nostro compito è (1) cercare di riportarli sulla strada
giusta, e (2) evitare che i giovani li seguano su quella sbagliata.
Insomma, stabilire il marxismo per quello che è, la critica
definitiva (il che non significa che non sia suscettibile di ulteriori
sviluppi), con il suo legame intrinseco a una posizione politica
rivoluzionaria.”
Nell’intervista già citata così si esprime Sweezy:
“Sraffa non riteneva che ciò che stava
facendo fosse qualcosa di alternativo al marxismo, o comunque una
negazione del marxismo. Dal suo punto di vista, la sua era una critica
dell’ortodossia neoclassica. Joan Robinson ha detto in modo molto
esplicito che Sraffa non abbandonò mai il marxismo. Egli fu sempre
fedele al marxismo, nel senso che aderì alla teoria del valore-lavoro.
Ma non ne scrisse mai. Fu questa una peculiarità di Sraffa. Egli
cominciò nelle vesti di critico dell’economia marshalliana. Ricordate
il suo famoso articolo degli anni Venti. Sraffa appartenne al gruppo di
Cambridge. Combatté le battaglie ideologiche che avevano il loro
centro a Cambridge. Ebbe in esse una certa parte, ma non come marxista.
La sua fu una posizione del tutto peculiare, che tuttavia non
autorizza nessuno a contrapporre Sraffa al marxismo (come invece fa Ian
Steedman). Considerare la teoria di Sraffa una teoria completamente
alternativa è, a mio giudizio, del tutto sbagliato, e non ha nulla a
che vedere con le reali intenzioni di Sraffa né con i veri scopi
dell’analisi marxista. Non riesco a vedere in Steedman nessuna
dinamica, nessuno sviluppo. Pensare che sia possibile procedere senza
una teoria del valore (inteso il termine nel suo senso più ampio,
comprensivo anche della teoria dell’accumulazione ecc.) a me sembra
totalmente fallimentare. Non va bene per nulla. E non mi sembra che ne
sia venuto fuori qualcosa. Giusto era mostrare i limiti, gli errori,
l’intima incoerenza della teoria neoclassica: questa era una buona
cosa, questo era importante. Ma pensare che su questa base sia
possibile sviluppare qualcosa che abbia attinenza con l’ambito e con le
finalità del marxismo è del tutto sbagliato.”
Una visione «larga» della teoria del
valore –– che includa al suo interno non solo la teoria
dell’accumulazione,ma anche la teoria della crisi – è cruciale per
comprendere l’itinerario e larilevanza di Sweezy, ancor oggi. Va pure
detto che la sua lettura delle intenzioni di Sraffa è oggi confermata,
ben al là di quanto potesse intuire lo stesso Sweezy, dalle carte
dell’economista italiano conservate alla Wren Library di Cambridge.
Quello che è certo è che lo stesso giudizio pubblico di Sweezy sul
neoricardismo fu di dura critica e opposizione, quando questa corrente
attaccava la teoria del valore-lavoro.
Ne testimonia l’intervento che Sweezy
pronunciò a Londra, nel novembre 1978, ad una tavola rotonda (a cui chi
scrive assistette) proprio sul libro di Steedman: il testo venne poi
pubblicato nel volume collettaneo The Value Controversy. Il
punto cruciale non sta tanto nel fatto che Sweezy contestasse alla
radice l’idea che non esisterebbe un «ponte» tra la dimensione
(essenziale) del valore e la dimensione (fenomenica) del prezzo. Non
sta neppure nell’argomento, da lui stesso avanzato, che l’analisi in
termini di valore non viene smentita da quella in termini di prezzo. La
novità sta nell’autocritica di Sweezy. Se è possibile analizzare la
realtà fenomenica esclusivamente in termini di prezzo, si chiede, che
senso ha preoccuparsi dei valori come «essenze»? Non è in realtà
affatto vero, sostiene, che sia possibile analizzare la realtà
capitalistica in termini esclusivamente di prezzo: è vero piuttosto
che, una volta sviluppata l’analisi in termini di valore, è possibile
raggiungere i medesimi risultati con l’analisi in termini di prezzo. La
ragione sta in ciò: che il centro di gravità dell’analisi marxiana è
il saggio di plusvalore. È un punto che non aveva compreso scrivendo la
Teoria dello sviluppo capitalistico: per questo le sezioni
quinta e sesta del capitolo sul problema della trasformazione, benché
non sbagliate in sé, non toccano il cuore della questione, cioè il
ruolo chiave del saggio del plusvalore della teoria marxiana del
capitalismo.
La teoria della crisi
Vale a questo punto la pena di
procedere ad analizzare la lettura che Sweezy dà nel 1942 della teoria
della crisi. Si trovano ne La teoria dello sviluppo capitalistico
alcune utili distinzioni che hanno orientato non poco i dibattiti
successivi, tra la crisi dovuta alla caduta tendenziale del saggio di
profitto, la crisi indotta dalle sproporzioni intersettoriali, e la
crisi dovuta al sottoconsumo. Per quel che riguarda la caduta
tendenziale del saggio del profitto, l’argomento di Marx è che il
mutamento dei metodi di produzione darebbe luogo ad un aumento della
composizione organica del capitale che eccede percentualmente
l’incremento del saggio di plusvalore. L’aumento del rapporto tra
capitale costante e capitale variabile ha un’influenza negativa sul
saggio del profitto, mentre l’aumento del rapporto tra plusvalore e
capitale variabile, che anch’esso consegue al progresso tecnico,
produce all’opposto un effetto positivo sul saggio del profitto.
Secondo Marx il primo effetto è più forte del secondo, e dunque il
saggio del profitto non può che flettere lungo il tempo. Sweezy, come
Joan Robinson, è scettico, in quanto ritiene che le controtendenze, e
in particolare l’aumento del saggio di plusvalore, più che compensano
l’aumento della composizione del capitale.
Per quel che riguarda la crisi
da realizzazione, Sweezy la legge sulla scorta del Kautsky del 1905. Il
profitto è prevalentemente investito, il salario integralmente
consumato. La natura sempre più diseguale della distribuzione fa sì che
la quota del consumo divenga relativamente sempre più bassa in
rapporto al valore prodotto. La «realizzazione» del plusvalore richiede
progressivamente quote crescenti di domanda di investimenti. Per quel
che riguarda la crisi da sproporzioni, essa è facilmente deducibile
dagli «schemi di riproduzione» del secondo libro del Capitale.
Tanto la composizione dell’offerta quanto la composizione della domanda
sono legate ai rapporti quantitativi che si stabiliscono nei vari rami
di produzione. La struttura dell’offerta delle diverse industrie
dipende dal livello raggiunto dalle branche produttive nel capitale
totale; mentre quella della domanda dipende dalla ripartizione del
capitale costante e del capitale variabile all’interno delle industrie.
Gli schemi consentono di derivare le condizioni di equilibrio,
ovvero i rapporti che garantiscono la compatibilità tra composizione
dell’offerta e composizione della domanda a livello di sistema. Il
verificarsi effettuale di tali condizioni dipende dall’operare del
meccanismo dei prezzi in concorrenza,cioè dal coordinamento ex post
tramite il mercato.
Si può, come ha fatto Claudio Napoleoni nella sua importante Introduzione
alla riedizionei taliana (parziale) del 1970, contestare a Sweezy una
troppo rigida separazione della crisi da sproporzioni dal
«sottoconsumo», sino a farne due cause distinte di crisi. Nell’un caso,
la crisi da realizzo deriverebbe dal generalizzarsi degli squilibri
settoriali a causa dell’instaurarsi di una reazione a catena di tipo
demoltiplicativo. Nell’altro caso, avremmo immediatamente una classica
crisi da insufficienza di domanda effettiva. Secondo Napoleoni, al
contrario, abbiamo a che fare con due «concause» della crisi.
L’elemento di fondo sta nella incapacità del sistema dei prezzi di
rendere compatibili le scelte delle imprese individuali in condizioni
di mercato «anarchico». Quando, come è prima o poi inevitabile, il
«caso» fortunato in cui le condizioni di equilibrio dettate dagli
schemi non si realizzasse, i movimenti dei prezzi sul mercato
dovrebbero correre in soccorso, orientando gli investimenti delle
imprese. D’altronde, vista l’insufficienza radicale e costitutiva del
coordinamento ex post tramite i prezzi, quell’orientamento può
essere efficace soltanto se la quota dei consumi non scende troppo.
Inquesto senso, allora, sottoconsumo e sproporzioni sarebbero come le
due lame di un’unica forbice. Il sottoconsumo può determinare la crisi
per i limiti del coordinamento ex post del mercato tramite i
prezzi, mentre l’anarchia della concorrenza è fattore di crisi se il
consumo non orienta da presso l’investimento. Un aspetto rimanda
all’altro, e i due si completano a vicenda.
La lettura della crisi capitalistica
come indotta da una insufficienza di domanda effettiva, per un
eccessivo incremento del saggio di plusvalore – eccessivo in quanto
determina una tendenza alla stagnazione per carenza di sbocchi – è una
delle componenti essenziali che regge la lettura di Sweezy del Grande
Crollo, della crisi degli anni Settanta, degli sviluppi successivi. Qui
siamo anche evidentemente vicini ai temi che Baran e Sweezy
affrontano, con altro linguaggio e categorie, nel Capitale monopolistico.
Un limite del libro del 1942, visto
retrospettivamente, è che viene trascurata l’analisi delle
trasformazioni e dei conflitti nei processi capitalistici di lavoro. È
però nel gruppo della «Monthly Review» che Harry Braverman prepara (e
pubblica nel 1974) il volume sulla «degradazione del lavoro» nel
taylorismo e fordismo, proprio quando Sweezy e Baran stanno pubblicando
gli studi sul capitale monopolistico. Lavoro e capitale monopolistico,
tradotto in Italia da Einaudi, è, dopo più di un secolo, il primo
libro che torna ai temi che percorrono gran parte del primo libro del Capitale.
Una qualità di Sweezy, del tutto evidente, è quella di non lavorare
mai da solo, di avvalersi sempre di «alleati»che completino il proprio
lavoro di ricerca. Braverman significò anche il rapporto con gli
operai, con il mondo del lavoro – nella intervista che ho richiamato
Sweezy afferma che è un peccato che Braverman sia morto così presto, in
quanto rappresentava il contatto stabile e il dialogo con esperienze
di lavoro e sindacali.
Il capitale monopolistico
Secondo Baran e Sweezy, il capitale
monopolistico accentua le difficoltà che il capitale incontra sul
terreno della realizzazione del plusvalore. Si badi, ciò non ha affatto
a che vedere con una presunta superiorità del capitalismo di libera
concorrenza sul capitalismo monopolistico quale «macchina» per la
crescita. Sweezy è troppo buon conoscitore, oltre che amico, di
Schumpeter per cadere in una visione del ristagno ingenua come questa.
Il suo obiettivo, con Baran, è semmai l’opposto. Primo, mostrare come
le potenzialità di crescita vengano incredibilmente sviluppate dalla
mutazione monopolistica del capitalismo. Secondo, far vedere come ciò
dia luogo ad un aggravamento dei problemi che il capitale incontra sul
terreno della domanda effettiva, ovvero la difficoltà di trovare
sbocchi adeguati a consentire lo smercio dei prodotti a prezzi tali da
coprire i costi e il profitto: far vedere, dunque, come si instauri e
aggravi una tendenza alla stagnazione. Terzo, chiarire come tale
tendenza, invece di inverarsi immediatamente, sia stata efficacemente
ma perversamente controbattuta dall’evoluzione concreta del capitalismo
stesso, senza rimuovere la deriva verso una crisi immanente che
rivelerebbe l’irrazionalità e lo spreco tipici del capitalismo
monopolistico, ma per il momento solo spostandola in avanti. Il perno
di questa costruzione teorica e interpretativa è la sostituzione alla
caduta tendenziale del saggio di profitto marxiana di una tendenza
all’aumento del surplus, o «sovrappiù».
Cosa sia il «capitale monopolistico» è
presto detto: è quella fase dello sviluppo capitalistico in cui
dominano quelle imprese che, viste le loro dimensioni, possono
determinare i prezzi di ciò che vendono e di ciò che acquistano. Si
tratta di una fase che ha inizio a fine Ottocento per i fenomeni di
concentrazione, fusione e assorbimento determinati dalla dinamica
stessa della «libera» concorrenza (una concorrenza che passa in modo
essenziale per la via della riduzione dei prezzi), e che finiscono con
il rendere centrale il grado di monopolio e la battaglia per la
‘qualità’ nell’analisi del meccanismo dello sviluppo. Senza che ciò
significhi – si badi – la scomparsa della concorrenza in quanto tale,
visto che la concorrenza è implicita nella natura privatistica del
capitale. Siamo piuttosto in presenza di un mutamento della forma della
concorrenza, non di una tendenza all’autopianificazione del capitale.
È una competizione che si esplica con l’abbassamento dei costi unitari
per il tramite del progresso tecnico e organizzativo, la pubblicità,
etutti quegli strumenti che possono contrastare una entrata nel mercato
di altre imprese o che riescono a indurre il consumo verso certe
direzioni e non altre.
È una posizione che si distacca dalle
analisi del «capitalismo manageriale» alla Berle e Means fondate su una
scissione tra proprietà e gestione economica delle imprese. Secondo
Berle e Means l’impresa monopolistica sarebbe ormai diretta da manager
indipendenti dai proprietari (tanto i grandi quanto piccoli azionisti),
e non sarebbe più orientata alla massimizzazione del profitto ma
semmai alla riduzione dei costi, all’allargamento delle vendite, al
miglioramento della qualità, allo sviluppo dell’impresa. Baran e Sweezy
obiettano che i manager appartengono allo strato superiore dei
proprietari, per questo il divorzio tra gestione e proprietà non si dà.
Si è prodotta, piuttosto, una differenziazione all’interno della
proprietà. La pura proprietà delle imprese da parte degli azionisti, in
quanto tale, benché quantitativamente estesa, conta qualitativamente
poco. Dentro la, e non fuori dalla, proprietà vi sono dei capitalisti
«attivi» alla Marx, che svolgono una funzione di controllo. Stabilito
questo punto, gli autori ne deducono che, quali che siano gli scopi
particolari che i manager si propongono di ottenere nel dirigere i
capitali che hanno sotto controllo, questi scopi particolari si trovano
tutti all’interno di quello scopo fondamentale che resta la
massimizzazione del saggio del profitto. La massimizzazione del
profitto può però essere condotta in un periodo più disteso di tempo di
quanto non fosse nel capitalismo di libera concorrenza. Può anche
verificarsi un conflitto sulla politica dei dividendi, ma sempre
all’interno di quel fine unico e dominante.
Una rilettura del libro del 1966
dovrebbe integrarne le tesi con le elaborazioni di Sylos Labini e di
Kalecki – è un punto su cui insiste, e a ragione, Joseph Halevi in un
dibattito su Sweezy pubblicato da L’ospite ingrato. In Oligopolio e progresso tecnico Sylos
Labini esce da quella visione statica dell’oligopolio di cui è ancora
in qualche misura prigioniero il libro di Baran e Sweezy, e propone una
visione dinamica che può essere posta in relazione con il problema
della realizzazione in Marx e il principio della domanda effettiva in
Keynes. Di ciò gli autori delCapitale monopolistico divennero
coscienti, e infatti molto apprezzarono il contributo dell’economista
italiano quando ne vennero a conoscenza. Per quel che riguarda Kalecki,
è cruciale la tesi che i profitti sono determinati dalla spesa.
Non estenderei però questo argomento,
come fanno i kaleckiani, sino a costruire il mito che sia possibile un
capitalismo «trainato dai salari». La spesa che conta, la domanda che
traina, nel capitalismo è quella autonoma: dei capitalisti stessi (per
investimento o consumo), o le esportazioni nette, o le «esportazioni
interne» (così Kalecki denominò la spesa pubblica in disavanzo
finanziata monetariamente). Senz’altro, una migliore distribuzione del
reddito, aumentando il monte salari, marxianamente aumenta le vendite
del settore che produce beni di consumo, e keynesianamente aumenta il
«moltiplicatore» della domanda autonoma. Il reddito cresce, e così la
domanda, e gli stessi investimenti (vista la elevata utilizzazione
della capacità produttiva) vengono spinti verso l’alto, una sorta di
«acceleratore», in un circolo «virtuoso». Non è però possibile
rinvenire qui una locomotiva dello sviluppo, la spinta decisiva per una
lunga fase dello sviluppo capitalistico, ma solo la spiegazione di
particolari momenti del ciclo capitalistico, per di più spesso su base
puramente «locale», una esperienza nazionale. Quella di una wage-led accumulation
è una illusione in cui Baran e Sweezy non mi pare siano mai caduti.
Non si tratta semplicemente di un ostacolo «politico»: ha a che vedere
con la «relazione di capitale», con il rapporto sociale di produzione.
Dobbiamo aggiungere una cautela, che
segnala un problema aperto. Abbiamo detto che la strategia di
investimento delle imprese dipende dalla capacità produttiva
inutilizzata, la quale a sua volta dipende dalla domanda effettiva. È
però sempre più vero nel capitalismo contemporaneo che lo stesso
investimento dei global player tende coscientemente a creare
capacità produttiva inutilizzata, come forma di concorrenza
«aggressiva» nei confronti dei concorrenti. Vale anche la pena di fare
un rapido cenno ad un aspetto significativo dell’analisi di Baran e
Sweezy, la loro visione dell’imperialismo (poi sviluppata da Harry
Magdoff). Per la Monthly Review l’imperialismo non ha tanto a
che vedere, come per la Luxemburg, con la caccia ai nuovi mercati (che
il capitalismo del centro nel Novecento ha peraltro saputo procurarsi
da sé); e neppure, come in Lenin, con capitali in eccesso che vengono
esportati e creano poi, come conseguenza, sbocchi per le esportazioni
di merci (anche qui, va detto, il capitalismo del centro nel Novecento
ha assorbito capitali più di quanti ne siano defluiti all’esterno).
L’imperialismo per i nostri autori ha semmai a che fare con la difesa
della propria quota di mercato da parte delle multinazionali, e con gli
interessi del blocco militare-industriale.
“Il capitale monopolistico” e la teoria del valore-lavoro
Il capitale monopolistico fu
molto contestato dai marxisti ortodossi. Al cuore di queste critiche
era la tesi che, visto che nel capitalismo della concorrenza tra
oligopoli questi ultimi hanno un potere di mercato sui prezzi, ciò
determinerebbe una tendenza del surplus ad aumentare. Il punto fu letto
un po’da tutti come un rigetto della teoria marxiana del valore e
della crisi. Vi erano, per così dire, delle prove indiziarie a
conferma. Innanzi tutto, lo stile del libro, che volutamente si teneva
distante da un apparato categoriale troppo esplicitamente legato al
marxismo, e che per essere letto dalle nuove generazioni era anzi
declinato su un linguaggio keynesiano o persino neoclassico. Era poi
detto a chiare lettere che gli autori preferivano il concetto di
‘sovrappiù’ come caratterizzato da Baran nel suo Il «surplus» economico –
e cioè come la differenza tra la produzione sociale totale e i costi
sociali necessari ad ottenerlo: questi ultimi essendo definiti in modo
da escludere il lavoro che non avrebbe avuto luogo in un ordine sociale
razionale non capitalistico – alla categoria marxiana di plusvalore:
“È vero che Marx dimostra – in alcuni passi del Capitale e delle Teorie del plusvalore
– che il plusvalore comprende [oltre a profitti, interessi e rendita]
anche altri elementi come le entrate dello stato e della chiesa, le
spese per trasformare le merci in moneta, e i salari dei lavoratori
improduttivi. In generale, tuttavia, Marx considerava questi elementi
come fattori secondari e li escludeva dal suo schema teorico
fondamentale. Noi sosteniamo che nel capitalismo monopolistico questa
impostazione non è più giustificata e speriamo che un cambiamento nella
terminologia contribuirà al necessario mutamento nella posizione
teorica” (p. 10-11).
Sicuramente giocava anche la volontà di
distaccarsi nella maniera più nitida possibile dalla caduta
tendenziale del saggio di profitto da aumento della composizione di
capitale, a favore di una determinazione del plusvalore dal lato della
domanda nelle nuove condizioni di un capitalismo non più di libera
concorrenza: senza però che questo capitalismo sempre più «organizzato»
fosse in grado di emanciparsi dalla tendenza alla crisi, che veniva
semmai accentuata, andando così contro le tesi di Hilferding.
Anche in questa circostanza, a distanza
di vent’anni, nella intervista che abbiamo citato Sweezy torna con
note autocritiche sulla questione, e osserva: «Forse è stato un
errore». Con Baran avevano progettato un paio di altri capitoli per
spiegare i rapporti tra illoro impianto concettuale e la teoria
marxiana del valore: capitoli rimasti allo stadio di manoscritto alla
morte di Baran. E nell’introduzione alla ristampa dell’edizione greca
lamenta le incomprensioni rispetto alle loro intenzioni, e chiarisce
che quella che era stata presa come una constatazione ovvia, cioè il
loro abbandono della teoria del valore e del plusvalore di Marx, era
del tutto falso. Con Baran avevano inteso partire da quella teoria per
procedere oltre: anche qui scrive, «vedo ora che fu un errore» non
averlo chiarito. Avrebbero dovuto cominciare da una esposizione della
teoria del valore come si dà nel primo libro del Capitale,
facendo seguire in prima battuta la trasformazione dei valori in prezzi
di produzione come svolta da Marx nel libro terzo, e poi in seconda
battuta il tema solo accennato (per ovvie ragioni storiche) da Marx
della trasformazione dei valori, o dei prezzi di produzione, in prezzi
di monopolio nello stadio monopolistico del capitalismo: «in nessun
momento Baran o io abbiamo rigettato,esplicitamente o implicitamente,
le teorie del valore e plusvalore, ma abbiamo tentato soltanto di
analizzare le modifiche che si devono tenere in conto come conseguenza
della concencentrazione e centralizzazione del capitale».
Il punto è che, come osserva Sweezy
altrove, questa seconda trasformazione ha conseguenze più significative
della prima – una osservazione che mi pare alluda proprio alla legge
dell’aumento tendenziale del surplus. Queste considerazioni di
Sweezy hanno il limite di risultare in larga misura implicite. A volte i
due sembrano ragionare su un semplice paragone tra il capitalismo
degli oligopoli e il capitalismo della libera concorrenza, sostenendo
che il surplus nel primo sarebbe superiore. In altri casi, in
modo più significativo,affermano che la determinazione non
concorrenziale dei prezzi consente di far emergere un sovrappiù più
elevato di quel che deriva dalla mera dinamica del processo immediato
di valorizzazione. È possibile oggi seguire meglio il discorso dei due
autori perché nel numero di luglio-agosto 2012 della «Monthly Review» è
stato pubblicato un testo che Baran (soprattutto) e Sweezy avevano
redatto sulle «implicazioni teoriche» del Capitale monopolistico,
con un prezioso commento di John Bellamy Foster. Un punto importante è
la teorizzazione del salario: non più vincolato alla sussistenza, esso
è (come in Sraffa) variabile e in esso si nasconde parte del surplus.
Il capitale monopolistico può incrementare il sovrappiù non soltanto a
spese del capitale competitivo ma anche a spese dello stesso salario.
La quota del salario che include il sovrappiù non è tanto dovuta al
conflitto sociale, ma al fatto che tramite il salario trova sbocco e
assorbimento la stessa spesa «improduttiva»: si ha qui una acquisizione
di valori d’uso a cui non corrisponde un miglioramento qualitativo
della condizione dei lavoratori. Ciò apre in ogni caso la strada ad
ottenere profitto per «deduzione» dal salario, rallentando la crescita
del valore della forza-lavoro rispetto a quella che si sarebbe
altrimenti avuta.
Sono a questo proposito di
grande interesse, ancora una volta, le considerazioni avanzate da
Claudio Napoleoni. In questo caso il riferimento è ad alcune lezioni
inedite dei primissimi anni Settanta. La difficoltà di leggere il Capitale monopolistico come coerente con la marxiana teoria del valore/plusvalore può essere esposta nei termini seguenti. Nel libro terzo del Capitale
Marx sostiene che monopoli naturali o artificiali rendono possibile un
prezzo di monopolio superiore al prezzo di produzione e al valore
delle merci. Marx ritiene però che il modo di determinazione dei prezzi
non possa influire sulla formazione del valore e del plusvalore:
incide soltanto sulla distribuzione del plusvalore tra i vari capitali.
Il prezzo di monopolio consente semplicemente di appropriarsi di una
parte del profitto delle altre imprese, invece di spalmarlo
uniformemente tra tutte. L’unica altra possibilità è che l’extra
plusvalore sia l’esito di una redistribuzione dal salario al profitto.
La forma di mercato interviene quando si deve stabilire come il
plusvalore si divide tra i molti capitali o tra le classi.
Non è difficile, sostiene Napoleoni,
riformulare la tesi di Baran e Sweezy di una crescita tendenziale del
sovrappiù in modo da renderla compatibile con la teoria marxiana del
(plus)valore-lavoro. È vero che il capitale monopolistico non può
produrre plusvalore in eccesso alla situazione di libera concorrenza,
se gli altri fattori rimangono invariati. Vi sono però due processi a
cui accennano i due marxisti americani che possono essere chiamati in
soccorso. Il primo processo ha a che vedere con l’andamento nel tempo della
forza produttiva del lavoro all’interno del capitalismo monopolistico.
Qualora si potesse sostenere che la forza produttiva tende a crescere
nel mondo del capitale monopolistico più di quanto non avverrebbe in
libera concorrenza, per esempio attraverso l’adozione di una tecnologia
migliore, la supposta contraddizione con la teoria marxiana del
(plus)valore svanirebbe. E ciò non soltanto è congruente con il rigetto
da parte dei due autori di ogni critica «romantica» alle forme
imperfette della concorrenza, secondo cui il monopolio comporterebbe
l’arretratezza, ma è coerente con il rapporto intellettuale di Sweezy
con Schumpeter, pur nella reciproca distanza.
Il secondo processo ha a che vedere con
il salario. Il caso di Marx è quello in cui il capitalista che gode di
una posizione oligopolistica è in grado di aumentare i propri salari
trasferendo il maggiore costo del lavoro sui propri prezzi. L’aumento
del salario delle imprese oligopolistiche spinge ad un aumento del
salario delle altre imprese, che vedono così una diminuzione del
proprio profitto. Può però considerarsi anche un altro meccanismo.
L’aumento delle dimensioni di impresa dà luogo ad un abbattimento dei
costi unitari, e consente di adottare nuove tecnologie e nuovi metodi
di organizzazione del lavoro, il che fa crescere la forza produttiva
del lavoro. Se a questo punto il salario reale e l’intensità
capitalistica crescono nella stessa proporzione, il saggio del profitto
non muta. Il salario reale può essere spinto verso l’alto dalla forza
sindacale, sino ad eccedere gli incrementi di produttività; ma nel
capitale monopolistico i prezzi sono «fatti»dalle imprese. Il possibile
conflitto salariale potrebbe a questo punto essere «accomodato»
dall’autorità monetaria, la quale favorisce quella risposta
inflazionistica da parte delle imprese che è consentita dalla
particolare struttura di mercato, permettendo loro di difendere, o
persino ampliare, i margini di profitto.
Mentre in una situazione di libera
concorrenza il salario reale segue da vicino i movimenti del salario
monetario, le cose stanno diversamente in condizioni di monopolio. Ora
l’incremento della forza produttiva si porta dietro una crescita del
salario monetario che però può essere (più che) eroso dai prezzi.
L’aumento tendenziale del plusvalore che ne discende può essere tanto
più rilevante quanto più, nel capitalismo contemporaneo, il salario
dipende dal conflitto tra le classi sociali, e non da una sussistenza
data. Il problema di trovare uno sbocco al surplus si pone a questo
punto in termini sempre più gravi. Se la domanda per investimenti e
consumi dei capitalisti non è sufficiente ad assorbire il surplus, si
apre un vuoto di domanda, che, se non è colmato per altre vie, rende
soltanto potenziali e non reali i maggiori profitti insiti
nell’accrescimento del sovrappiù.
La difficoltà di realizzo può essere
risolta secondo modi «esterni» o «interni». Limitandoci a ricordare per
il primo versante i già accennati filoni leniniano e luxemburghiano,
concentriamoci sui secondi. Tra i modi «interni» vi sono i seguenti:
spese per pubblicità; formazione di ceti che siano «puri» consumatori
improduttivi; ampliamento delle burocrazie pubbliche e private;
intermediazione commerciale pletorica, espansione della borghesia
finanziario-speculativa. Di qui si origina una domanda di consumo che,
se ha come sorgente ultima il plusvalore, viene immediatamente da ceti
alleati al capitale che si sono appropriati di parte del profitto
lordo. Va anche considerata la spesa pubblica, finanziata in disavanzo,
quando dà luogo alla produzione di valori d’uso che non rientrano
nella riproduzione del capitale. Svolge qui un ruolo centrale la spesa
militare. Commenta Napoleoni nella voce «Capitale» della Enciclopedia Europea Garzanti:
“L’esempio di queste pratiche configura
un capitalismo che è aggressivo verso l’esterno, e che ha rilevanti
elementi di «improduttività» all’interno, dove la «produttività» è
determinata secondo i criteri del capitalismo stesso, e dove, d’altra
parte, il termine di riferimento è costituito dalle potenzialità
implicite nello stesso capitale monopolistico, e non dai risultati
conseguiti dal capitalismo concorrenziale, che aveva una dinamica
certamente meno accentuata. Il capitale monopolistico, che pure ha
modificato sostanzialmente il classico andamento ciclico del primo
capitalismo, è dunque soggetto ad una particolare instabilità, dovuta
alla compresenza della tendenza inflazionistica derivante dalla
possibilità di amministrare i prezzi, e di quella deflazionistica,
derivante dalla difficoltà di realizzazione.”
Nello sviluppo che Napoleoni propone delle tesi del Capitale monopolistico
il punto di vista è integralmente immanente, in contrasto con le
interpretazioni più consuete del libro di Baran e Sweezy. La sua
lettura del capitalismo monopolistico viene prolungata in una
interpretazione della crisi degli anni Settanta dove la variabile
chiave è un aumento del salario relativo (cioè, relativamente al
plusvalore) come reazione all’aumento dello sfruttamento. Secondo
Napoleoni, il capitalismo monopolistico è sfuggito ad una nuova grande
crisi da realizzo mediante l’espansione di un’area di «rendita» (che
Baran e Sweezy avrebbero definito «spreco») la quale, se ha reso la
massa del profitto appropriato dalle imprese minore di quella
potenziale, ne ha però garantito gli sbocchi di mercato. Nel nuovo
contesto, un più alto salario, aggiungendosi alla rendita, potrebbe
comprimere il profitto effettivo. Qualora l’inflazione come meccanismo
di recupero del profitto si rivelasse un’arma spuntata, incapace di
moderare l’aumento delle retribuzioni reali, il salario come costo si
andrebbe ad aggiungere al prelievo costituito dalla rendita: la caduta
del profitto si confermerebbe, determinando una crisi strutturale del
rapporto capitalistico. Se invece l’arma dell’inflazione si rivelasse
efficace, potrebbe avvenire che gli stessi ceti improduttivi diventino
la principale sorgente d’inflazione, determinando così per altra via
una compressione del profitto e la crisi capitalistica. La pressione
dal salario e dalla rendita potrebbe in teoria darsi congiuntamente.
Una riflessione del genere non la si
trova in Baran e Sweezy, ma è a mio parere importante per intendere
appieno la nuova grande crisi capitalistica che mette fine al
cosiddetto «fordismo». Negli anni Sessanta e Settanta il gruppo della
«Monthly Review» giudicava la classe operaia «centrale» integrata, e
scommettevano sui movimenti alla «periferia». Napoleoni era al
contrario convinto che alla fine degli anni Sessanta e neiprimi anni
Settanta si fosse data una acutizzazione del conflitto di classe
nel«centro» stesso del capitalismo. La posizione di Sweezy potrebbe a
prima vista essere assimilata a quella espressa da Kalecki in un
articolo sulla «riforma fondamentale» del capitalismo scritto con
Tadeusz Kowalik. Quella di Napoleoni potrebbe invece sembrare in
continuità con il Kalecki del 1943-44, che negava la possibilità di un
capitalismo di piena occupazione e alti salari come situazione
permanente. Una realtà del genere avrebbe eroso le basi del dispotismo
capitalistico nei luoghi di produzione. I due scritti di Kalecki
sembrano in contraddizione. Nel 1943 il capitalismo keynesiano è
giudicato impossibile, se visto come regime stabile. Nel 1970 la tesi
appare quella di una ormai compiuta stabilizzazione del capitalismo
postbellico, grazie alle politiche economiche keynesiane. Le cose
stanno un po’ diversamente. Nel 1970 i due economisti polacchi
affermano che si sarebbe avuta una «limitata» e «temporanea»
stabilizzazione del capitalismo rispetto all’instabilità drammatica,
politica ed economica, che si era data nell’interludio tra le due
grandi guerre mondiali. Nulla di meno, ma nulla di più: e anche qualche
cosa di largamente condivisibile. Il che non toglie (come Kowalik oggi
riconosce) che Kalecki,come anche Sweezy, sottostimassero le
contraddizioni del capitalismo «centrale»di quegli anni. Su questo
all’epoca lo sguardo di Napoleoni fu più lucido.
La «Monthly Review» e gli anni della «finanziarizzazione»
Si sbaglierebbe a sottovalutare il
seguito dell’elaborazione di Sweezye della «Monthly Review». Come ho
sostenuto con Halevi, il gruppo fu in grado di percepire nitidamente –
molto più nitidiamente del resto del marxismo e del postkeynesismo –
una delle strade di risposta del sistema alla crisi. Dalla fine degli
anni Settanta Sweezy, quasi sempre insieme a Harry Magdoff, apportò un
arricchimento essenziale alla teoria del capitalismo monopolistico,
cogliendo con grande tempestività il ruolo cruciale del debito e della
finanza. In questi scritti – si tratta per lo più di articoli poi
raccolti in volume – si coglie bene il ruolo tanto patologico quanto
funzionale all’accumulazione di questa rinnovata «finanziarizzazione»,
in undialogo a distanza con Hyman P. Minsky.
Già nella seconda metà degli
anni Settanta Sweezy e Magdoff segnalano che l’esplosione del debito,
sia pubblico che privato, introduce meccanismi qualitativamente nuovi, e
segna una discontinuità. I due autori sono pronti a cogliere, al di là
dell’integrazione, la frammentazione della classe lavoratrice, in modi
che mettono in difficoltà la tradizione ricevuta del marxismo, e a
sottolineare come prima necessità la lotta contro queste tendenze
disgregatrici. Nella raccolta del 1977 viene chiarito il nesso che
porta dal capitalismo monopolistico all’indebitamento. Il pezzo
centrale di quel testo si intitola: «Banche: pattinando sul ghiaccio
sottile». Benchè alquanto tecnico, è uno scritto preveggente.
L’espansione dei crediti non era, in prima battuta, dovuta ad
aspettative ottimistiche. Semmai, era diventato lo strumento per far
denaro scommettendo sulla capacità di ripagare i debiti in futuro
nonostante i vincoli posti alla liquidità e la circostanza che
l’orizzonte temporale degli investimenti nello stock di capitale, come
anche del «ritorno» in termini di flussi di cassa, era più lungo di
quanto non fosse quello della restituzione dei prestiti. I due marxisti
identificano, in altri termini, la tendenza ad un «accorciamento»
dell’indebitamento. Pochi anni dopo, nella raccolta del 1981,
individuavano, in tempo reale, l’incremento sistematico del rapporto
tra consumo delle famiglie e reddito disponibile. Si tratta di fenomeni
che discendevano – ma anche, rispondevano – alla tendenza
stagnazionistica, e dunque si avvitavano su se stessi per impedire che
quella tendenza si realizzasse a pieno.
Nella raccolta del 1987 Magdoff e Sweezy sintetizzavano così il loro discorso:
“Tra le forze contrastanti la tendenza
alla stagnazione nessuna è stata così importante, e al tempo stesso
meno compresa dagli analisti economici, della crescita – che inizia
negli anni Sessanta e che rapidamente prende da allora velocità con la
grave recessione degli anni Settanta – dell’indebitamento su scala
nazionale (governo, imprese, individui) ad un ritmo che eccede di gran
lunga quello dell’economia reale. Ne è risultato il costituisi di una
superstruttura finanziaria enorme e fragile in una misura che non ha
precedenti, e che è soggetta a tensioni e scosse che sempre di più
minacciano l’intera economia.”
Si può a questo punto apprezzare quanto Sweezy osserva in una intervista pubblicata dalla «rivista del manifesto» in occasione dei suoi novantanni:
“Il capitalismo si modifica
continuamente; non è mai uguale a se stesso. Questa integrazione
globale di produzione e finanza in una teoria generale del processo
capitalista sta ancora muovendo i primissimi passi; non viene mai
trattata in modo esauriente. In Keynes vi sono alcuni accenni e anche
Marx suggerisce qualcosa al riguardo, ma una vera e propria
elaborazione teorica sarebbe avvenuta solo in una concreta fase storica
che avrebbe reso necessaria la nuova teoria. E questo sta avvenendo
oggi. Sia io sia Harry Magdoff sentiamo di essere forse troppo vecchi e
non abbastanza agili intellettualmente per occuparci della questione.
Quello che possiamo fare è incoraggiare i più giovani a riflettervi e
magari a saltare fuori con qualche idea.”
La repubblica che non c'è. La grande occasione persa del movimento
La repubblica che non c’è.
Un luogo virtuale, ma dagli
effetti tangibili. E’ un luogo necessario, dove i saggi e i buoni di tutto il mondo
si riuniscono per pensare a come mettere i bastoni fra le ruote ai potenti.
Una
nuova repubblica indipendente, con ministri e presidenti eletti dal popolo del 99%, capace di misurarsi con le grandi potenze.
Questo poteva essere il movimento di
Seattle e di Genova.
Questo dovrebbe diventare
mercoledì 26 agosto 2015
L'Impero e la guerra
di Danilo Zolo da sinistrainrete
Mi propongo in questo saggio di presentare una ricognizione linguistica e un'analisi critica degli usi della nozione di "impero" che oggi ricorrono sempre più spesso nella letteratura politologica e internazionalistica occidentale. Vorrei che la mia riflessione offrisse un minimo contributo alla precisazione del concetto teorico-politico di "impero" e alla giustificazione, a certe condizioni, del suo uso contemporaneo. Non si tratta di un esercizio di lessicografia accademica. Il riemergere della nozione di "impero" è uno degli indici della profonda trasformazione degli assetti politici internazionali legata ai processi di integrazione globale e all'affermarsi di fenomeni di crescente polarizzazione del potere e della ricchezza su scala planetaria (1).
Nello stesso tempo è in atto un processo di dislocazione delle sovranità statali a favore di nuovi attori internazionali - militari, politici, economici, giudiziari - come la NATO, il G8, l'Unione Europea, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Corti penali internazionali, e così via. All'interno di questa arena transnazionale emerge l'egemonia di alcune grandi potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti d'America.
E gli Stati Uniti svolgono sempre più il ruolo di una potenza imperiale "globale" che si pone al di sopra del diritto internazionale e in particolare del diritto bellico. Essa è in grado di ricorrere all'uso della forza in palese violazione del diritto internazionale e ottenendo per di più dalle istituzioni internazionali prestazioni di legalizzazione dello status quo. Ciò si verifica sia in termini di legittimazione normativa dei risultati di guerre di aggressione mascherate come interventi umanitari o come guerre preventive contro il "terrorismo globale", sia in termini di ricorso alla giustizia penale internazionale ad hoc. Dal Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia al Tribunale speciale iracheno - iracheno, ma in realtà imposto dagli Stati Uniti - si perpetua il "modello di Norimberga": una "giustizia dei vincitori" che le grandi potenze applicano agli sconfitti e ai popoli oppressi.
Questi fenomeni hanno subìto una forte accelerazione alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo la conclusione della guerra fredda, il crollo dell'Unione sovietica, il tramonto dell'ordine bipolare del mondo, l'affermazione degli Stati Uniti come la sola superpotenza planetaria e il diffondersi del terrorismo a livello internazionale. Ed hanno conosciuto un'ulteriore accelerazione dopo l'11 settembre 2001 e le guerre di aggressione condotte dagli Stati Uniti contro l'Afghanistan e contro l'Iraq.
1. Un'avvertenza metodologica
Il lemma "impero", così come oggi viene usato in Occidente, presenta valori semantici in larga parte non coincidenti con le accezioni di "impero" e di "imperialismo" caratteristiche del pensiero marxista e largamente diffuse nel secolo scorso (2). Rispetto alle teorie marxiste gli usi recenti sono meno ambiziosi sul piano politico e anche meno elaborati sul piano teorico, ma proprio per questo essi svolgono rilevanti funzioni simboliche e comunicative. Va segnalato, a questo proposito, che secondo un certo numero di autori "impero" non è lo strumento concettuale più appropriato per denotare l'attuale assetto delle relazioni internazionali e per favorirne una interpretazione e comprensione adeguata.
Michael Doyle, ad esempio, propone, se non altro, di tenere nettamente distinta la nozione di "impero formale" da quella di "impero informale", la sola eventualmente pertinente al mondo contemporaneo. Nell'impero formale, rappresentato essenzialmente dal "modello romano", il dominio viene esercitato attraverso l'annessione territoriale. E l'amministrazione dei territori annessi è affidata a governatori coloniali sostenuti da truppe metropolitane e da collaboratori locali. L'impero informale, secondo il "modello ateniese", esercita invece il suo potere attraverso la manipolazione e la corruzione delle classi politiche locali, e lo esercita su territori contigui e nei confronti di regimi legalmente indipendenti (3).
Altri autori - fra questi alcuni teorici neorealisti delle relazioni internazionali come Robert Gilpin, Kenneth Waltz e Robert Keohane - di fronte all'alternativa fra il concetto di "impero" e quello di "egemonia" optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato con notevole successo la nozione di hegemonic stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo primato in termini molto lontani dall'idea di una conflittualità espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico (4). Altri ancora ritengono che il termine "impero" debba essere rigorosamente limitato alle formazioni politiche universalistiche che hanno preceduto la nascita, nell'Europa del Seicento, del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. La prevalenza entro i sistemi politici delle grandi potenze contemporanee del potere economico e dell'influenza culturale rispetto al potere politico-militare - si sostiene - è di per sé sufficiente a consigliare l'abbandono del modello imperiale o a raccomandare, quanto meno, una sua radicale riformulazione (5). Per contro, altri autori - fra questi, come vedremo, Alain de Benoist - si richiamano all'autorità di Carl Schmitt per legittimare l'uso del termine "impero" con riferimento alla dilatazione imperialistica della "dottrina Monroe", praticata dagli Stati Uniti a partire dal cosmopolitismo wilsoniano e che a loro parere ha continuato a influenzare profondamente le strategie espansionistiche della grande potenza americana (6).
E' dunque necessaria un'avvertenza metodologica per quanto riguarda il significato generale che il termine "impero" presenta oggi all'interno della cultura politica occidentale. In questo contesto il termine assume un valore semantico e una portata simbolica che tendono a cristallizzarsi in un vero e proprio paradigma. Al di là di varianti di dettaglio, questo paradigma imperiale allude ad una forma politica contraddistinta dalle tre seguenti caratteristiche morfologiche e funzionali:
1.1. La sovranità imperiale è una sovranità politica molto forte, accentrata e in espansione. Attraverso di essa l'impero esercita un potere di comando "assoluto" sulle popolazioni che risiedono nel territorio della madrepatria. A questo potere diretto si aggiunge un'ampia sfera di influenza politica, economica e culturale su altre formazioni politiche, più o meno contigue territorialmente, che conservano a pieno titolo la loro sovranità formale, per quanto si tratti, di fatto, di una sovranità limitata. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Carl Schmitt, la "dottrina Monroe", applicata inizialmente dagli Stati Uniti nel subcontinente americano e poi dilatata al mondo intero, è stata una tipica espressione di espansionismo imperiale (7).
1.2. Al centralismo e all'assolutismo degli apparati di potere imperiale - l'autorità imperiale è per definizione legibus soluta sul piano internazionale ed esercita all'interno un potere non "rappresentativo" - si accompagna un ampio pluralismo di etnie, comunità, culture, idiomi e credenze religiose diverse, separate e distanti fra loro. Rispetto ad esse il potere centrale svolge un controllo più o meno intenso, ma che tuttavia non minaccia la loro identità e relativa autonomia culturale. In questo senso specifico assume un valore paradigmatico il modello dell'Impero ottomano, con l'istituto del millet e una diffusa pratica di tolleranza confessionale (8). La combinazione di assolutismo antiegualitario e di pluralismo etnico-culturale connota l'impero opponendolo al carattere rappresentativo e nazionale dello Stato di diritto europeo.
1.3. L'ideologia imperiale è pacifista e universalista. L'Impero viene concepito come un'entità perenne: è un potere supremo, garante di pace, di sicurezza e di stabilità per tutti i popoli della terra. La pax imperialis è per definizione una pace stabile e universale: l'uso della forza militare ha come scopo esclusivo la sua promozione. L'Imperatore è il solo, unico imperatore che per mandato divino (o per un destino provvidenziale) comanda, di fatto o potenzialmente, sul mondo intero: un solo basileus, un solo logos, un solo nomos. In quanto imperator, l'imperatore è il supremo capo militare; in quanto pontifex maximus è il sommo sacerdote; in quanto princeps esercita una giustizia sovrana. Il regime imperiale si autoconcepisce e si impone come un regime mono-cratico, mono-teistico e mono-normativo.
E' chiaro che la fonte remota ma determinante di questo paradigma è l'Impero romano, da Augusto a Costantino, con le sue strutture, la sua prassi, la sua ideologia (9), sia pure in una versione tendenzialmente "informale", nell'accezione proposta da Doyle. Ovviamente, se si volesse cogliere nella sua complessità la genesi di questo archetipo romanistico, si dovrebbero studiare le esperienze imperiali che si sono sviluppate in Europa dopo la caduta dell'Impero romano e che al suo modello si sono più o meno direttamente ispirate. Si pensi, ad esempio, a formazioni politiche come l'Impero germanico-feudale, l'Impero bizantino, l'Impero ottomano, l'Impero spagnolo (10). Nessuna diretta influenza sembra invece essere stata esercitata dall'esperienza degli imperi antichi: mediorientali, mesopotamici, cinesi. Scarso rilievo nella formazione di questo paradigma sembra che si debba attribuire sia all'esperienza dell'Impero napoleonico (11), sia alle vicende degli imperi coloniali, dai più risalenti, come quello britannico, ai più recenti (12).
Sono quattro gli usi della nozione di "impero" - corrispondente all'archetipo romanistico, attenuato in senso "informale" - che a mio parere sono presenti nella letteratura politologica e internazionalistica contemporanea, inclusa la nozione marxista di "imperialismo" che conserva un rilievo non del tutto marginale nella scia di alcune dottrine neo-marxiste delle relazioni internazionali che si sono affermate negli anni sessanta e settanta del secolo scorso.
2. Imperialismo e impero nell'uso neo-marxista
La nozione di "impero" implicata dalle teorie marxiste dell'imperialismo, basate sulla concezione classista della storia e sulla critica "materialista" dell'economia capitalistica, è ancora oggi presente in una parte della letteratura politologica occidentale (13). "Impero" in questo senso è nozione in larga misura destoricizzata e inserita nel contesto di una filosofia della storia che fa dell'imperialismo l'esito necessario dello sviluppo dell'economia capitalistica.
Questa dottrina dell'imperialismo oggi gode di un credito molto più limitato rispetto ad un passato anche recente. Ciò che di questa teoria dell'impero oggi è sottoposto a critica è soprattutto la tesi dell'esistenza di un "fattore causale", di natura economica, che determinerebbe il passaggio dal capitalismo all'imperialismo come necessaria condizione di sviluppo (o di sopravvivenza) dell'economia di mercato. L'imperialismo, in questo senso, è una dinamica di espansione dell'economia di mercato oltre il suo ambito naturale - l'area dei paesi industriali occidentali -, che arriva a coinvolgere nei suoi meccanismi di sfruttamento la forza-lavoro dei paesi industrialmente arretrati. Da questo punto di vista imperialismo e colonialismo sono fenomeni strettamente connessi. Per Lenin, come è noto, il "fattore causale" era la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crescente concorrenza fra i capitalisti, mentre per Rosa Luxemburg questa funzione era svolta dal sottoconsumo dovuto all'impoverimento del proletariato europeo (14).
Assai più presenti al dibattito politologico contemporaneo sono le dottrine neo-marxiste dello sviluppo capitalistico e dei suoi approdi imperialistici, come la teoria del capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy, la "teoria della dipendenza", elaborata, fra gli altri, da André Gunder Frank, o la teoria del "sistema mondiale" di Immanuel Wallerstein (15). Rispetto all'ortodossia marxista-leninista, in queste versioni neomarxiste la nozione di "impero" tende ad assumere caratteristiche assai più vicine all'"archetipo romanistico" cui ho sopra accennato. Baran e Sweezy, ad esempio, hanno collegato l'evoluzione imperialistica del "capitalismo monopolistico" - concentrato e centralizzato - alla necessità, assai più politica che economica, che i paesi industriali avanzati hanno di destinare il surplus a investimenti di natura militare. La gerarchia delle nazioni che compongono il sistema capitalistico - hanno sostenuto Baran e Sweezy - presenta un assetto piramidale: i paesi collocati al vertice sfruttano quelli situati a un livello più basso, sino a giungere all'ultimo paese che non ha più nessuno da sfruttare. Il vertice della gerarchia è la "metropoli imperiale" mentre i gradini più bassi formano la "periferia coloniale". La vocazione militarista degli Stati Uniti d'America - che occupano l'intero spazio metropolitano - dipende dall'esigenza che la loro forza armata venga usata sistematicamente per mantenere e, se possibile, irrobustire, la loro posizione di leadership nella gerarchia dello sfruttamento (16).
Naturalmente anche le versioni neo-marxiste dell'imperialismo sono state sottoposte a critica. Per autori liberal come Robert Gilpin o come Joseph Stiglitz, ad esempio, il crescente divario fra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da forme di oppressione "imperialistica", formale o informale che sia. La globalizzazione economica e l'apertura mondiale dei mercati non può essere interpretata secondo lo schema della "gerarchia" imperiale dello sfruttamento capitalistico. La polarizzazione crescente nella distribuzione delle risorse globali dipende dal diverso grado di produttività dei sistemi economici nazionali, e quindi dai livelli di cultura, qualificazione tecnica, competenza amministrativa e capacità di iniziativa che caratterizzano i diversi paesi. E' su questi parametri che, secondo Gilpin e Stiglitz, occorrerebbe intervenire, oltre che sulla regolazione degli scambi commerciali internazionali e dei movimenti dei capitali. E a questo fine sarebbe necessaria una profonda trasformazione delle politiche adottate negli ultimi decenni dalle istituzioni economiche internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale, sottoposte al Washington consensus (17).
3. Un'Europa imperiale?
Oggi è la cosiddetta "Nuova destra" francese, rappresentata in particolare da Alain de Benoist, a riproporre un'idea imperiale che si richiama direttamente alla elaborazione schmittiana. C'è in de Benoist e nel movimento Grece (Groupement de recherches et d'études pour la civilisation européenne) che al pensiero di de Benoist si ispira, un netto rifiuto del nazionalismo e del liberalismo in nome sia di un europeismo culturale, sia di un "pluralismo localista". Questa è la radice dell'idea di un''Europa imperiale" che ammetta un'ampia pluralità politica interna, non nazionalistica ma etnica e regionalistica. De Benoist respinge l'idea gollista dell''Europa delle patrie"; liberalismo e nazionalismo statalistico sono da lui denunciati come dispositivi economici e ideologici che producono sradicamento e uniformità culturale. Alla americanizzazione della Francia e dell'Europa de Benoist oppone una cultura "pagana" che egli fa risalire alle origini indo-europee della tradizione europea. E alla proposta di un europeismo imperiale fa corrispondere una dura polemica contro l'imperialismo degli Stati Uniti, accusati di essere espressione suprema della disumanizzazione, della volgarità e della stupidità. L'Europa imperiale, egli proclama, o si farà contro gli Stati Uniti o non si farà (18).
Per de Benoist non ci sono che due modelli per costruire l'Europa: l'impero e la nazione. La nazione è ormai troppo grande per regolare i problemi locali e troppo piccola per occuparsi delle questioni globali, in particolare di quelle economiche. "L'Impero, nel senso più tradizionale del termine - sostiene de Benoist - è il solo modello che possa conciliare l'uno e il molteplice: è la politia che organizza l'unità organica delle sue diverse componenti, rispettando la loro autonomia" (19). L'inconveniente, aggiunge de Benoist, è che da Maastricht in poi non emerge il disegno di un'Europa autonoma, politicamente sovrana, decisa a dotarsi dell'equivalente di ciò che la "dottrina Monroe" è stata per gli Stati Uniti (è particolarmente chiara qui l'influenza del pensiero di Schmitt). Siamo invece in presenza di un'Europa senza progetto, legittimità e identità politica.
La proposta di de Benoist non è priva di aspetti interessanti, anche se, è appena il caso di dire, il modello euro-imperiale non sembra che possa essere accolto nè da forze politiche europee di ispirazione liberale, né da una sinistra europea modellata sulla tradizione liberal-democratica. Il paradigma imperiale, come abbiamo visto, comporta una concezione assolutistica e antiegualitaria del potere, anche se tollerante e compatibile con il pluralismo etnico-culturale. E non sembra agevolmente proponibile neppure l'idea di un'Europa "pagana" - non semplicemente laica -, se è vero che la cultura europea è frutto della filosofia greca, del diritto romano e dell'illuminismo, ma lo è anche dei tre monoteismi che sono fioriti sulle sponde del Mediterraneo: quello israelitico, quello cristiano e, last but not least, quello islamico.
Si può inoltre osservare che non è chiaro se, nel riferirsi, sulle orme di Schmitt, al modello della "dottrina Monroe", de Benoist pensi ad una "Europa imperiale" sotto l'influenza di uno o più Stati egemoni - eventualmente la Francia e la Germania - e se la sua idea di impero sia compatibile con una strutturazione egualitaria dei rapporti fra le diverse cittadinanze europee e quindi con l'eguale tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei, tematiche entrambe relativamente estranee alle elaborazioni della "nuova destra" francese (20).
4. Hardt e Negri: un'apologia dell'Impero globale
Nel loro fortunatissimo volume, Empire, Michael Hardt e Antonio Negri sostengono che il nuovo "ordine mondiale" imposto dalla globalizzazione ha portato alla scomparsa del sistema vestfaliano degli Stati sovrani (21). Non ci sono più Stati nazionali, se non per le loro esangui strutture formali che ancora sopravvivono entro l'ordinamento giuridico e le istituzioni internazionali. Il mondo non è più governato da sistemi politici statali: è governato da un'unica struttura di potere che non presenta alcuna analogia significativa con lo Stato moderno di origine europea. E' un sistema politico decentrato e deterritorializzato, che non fa riferimento a tradizioni e valori etnico-nazionali, e la cui sostanza politica e normativa è l'universalismo cosmopolitico. Per queste ragioni i due autori ritengono che "Impero" sia la denotazione più appropriata per il nuovo tipo di potere globale.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che l'Impero - o il suo nucleo centrale ed espansivo - sia costituito dagli Stati Uniti d'America e dai loro più stretti alleati occidentali. Né gli Stati Uniti, né alcun altro Stato nazionale, Hardt e Negri dichiarano con forza, "costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista" (22). L'Impero globale è tutt'altra cosa rispetto all'imperialismo classico e sarebbe un grave errore teorico confonderlo con esso.
Questo è un punto molto delicato sia sul piano teorico, sia su quello politico, e che ha sollevato un'ampia discussione. Si è sostenuto che nelle pagine di Hardt e Negri l'Impero sembra sfumare in una sorta di "categoria dello spirito"; è presente in ogni luogo poiché coincide con la nuova dimensione della globalità. Ma, si è obiettato, se tutto è imperiale, niente è imperiale. Come individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali? Contro chi rivolgere la critica e la resistenza anti-imperialistica? Chi, se si escludono gli apparati politico-militari della grandi potenze occidentali - in primis degli Stati Uniti - esercita le funzioni imperiali (23)?
C'è un secondo aspetto della teoria dell'Impero di Hardt e Negri che ha sollevato obiezioni. E' un aspetto che sembra tributario dell'implicita "ontologia" che fa da contrappunto delle analisi di Hardt e Negri: la dialettica della storia, in una accezione caratteristica dell'hegelo-marxismo e del leninismo. Secondo i due autori l'Impero globale rappresenta un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Avendo posto fine agli Stati e al loro nazionalismo, l'Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che deve essere accolta con favore.
Secondo Hardt e Negri, ogni tentativo di far risorgere lo Stato-nazione in opposizione alla presente costituzione imperiale del mondo esprimerebbe una ideologia "falsa e dannosa". La filosofia no-global ed ogni forma di ambientalismo naturalistico e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni primitive e antidialettiche e cioè, in sostanza, "reazionarie". I comunisti - tali si dichiarano Hardt e Negri - sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, "cattolici"; il loro orizzonte è quello dell'umanità intera, della "natura umana generica", come scriveva Marx. Nel secolo scorso le masse lavoratrici hanno puntato sull'internazionalizzazione delle relazioni politiche e sociali. Oggi i poteri "globali" dell'Impero devono essere controllati, ma non demoliti: la costituzione imperiale va conservata e finalizzata ad obiettivi non capitalistici. Per Hardt e Negri, anche se è vero che le tecnologie poliziesche sono il "nocciolo duro" dell'ordine imperiale, quest'ordine non ha nulla a che vedere con le pratiche delle dittature e del totalitarismo del secolo scorso.
Dal punto di vista della transizione ad una società comunista la costruzione dell'Impero è "un passo avanti": l'Impero "è meglio di ciò che lo ha preceduto" perché "spazza via i crudeli regimi del potere moderno" e "offre enormi possibilità creative e di liberazione" (24). Affiora qui una sorta di ottimismo imperiale le cui radici affondano, a mio parere, nella metafisica dialettica dell'hegelomarxismo. Un ottimismo imperiale che, come vedremo, si oppone al realismo e all'antiuniversalismo schmittiano, pur propenso a prendere atto della fine dell'ordinamento "statale" dello jus publicum europaeum e a proporre uno schema di ordine mondiale fondato sulla nozione post-statale di Grossraum.
5. Impero globale e guerra
Michael Ignatieff - autorevole esponente liberal anglo-americano - ha di recente sostenuto che gli Stati Uniti sono un impero. Si tratta di un impero di tipo nuovo, egli sostiene, che si ispira ai principi del libero mercato, dei diritti umani e della democrazia: una vera e propria "scoperta negli annali della scienza politica". Ma per quanto significative siano le novità e le specificità della loro egemonia globale, gli Stati Uniti, come tutti gli imperi del passato, hanno il loro pesante fardello di impegni e di responsabilità. Fra questi rientra la garanzia "della pace, della stabilità, della democratizzazione e dell'approvvigionamento di petrolio" nel Medio Oriente e nell'Asia centrale, dall'Egitto all'Afghanistan (25).
Gli Stati Uniti si trovano a svolgere il ruolo che in passato era stato garantito prima dall'Impero ottomano e poi dagli imperi coloniali della Francia e della Gran Bretagna. E' questa la ragione per cui, dopo aver sconfitto il regime dei Talebani e occupato l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno dovuto intervenire militarmente in Iraq, per scongiurare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire l'azione dei network terroristici e rovesciare un regime tirannico e sanguinario. L'11 settembre ha dimostrato che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire al loro interno la pace sociale e l'affermazione dei valori democratici se non adottassero una politica estera imperiale.
Anche autori italiani, pur senza una specifica finalità teorico-politica, hanno sostenuto tesi analoghe a quelle di Ignatieff, dando loro tuttavia una valenza politica opposta, fortemente critica nei confronti dell'egemonia imperiale degli Stati Uniti (26). Personalmente, sia pure con qualche cautela terminologica e teorico-politica, ritengo che sia corretto usare l'espressione "impero" (e "impero globale') a proposito della crescente egemonia economica, politica e soprattutto militare della superpotenza statunitense.
Nel proporre questa tesi ho presente, senza tuttavia assumerlo direttamente come premessa teorica, il realismo e l'antinormativismo della filosofia del diritto internazionale di Carl Schmitt, così come essa è stata esposta in testi quali Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, del 1933, e Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, del 1939, e come è stata poi riformulata, nel 1950, in Der Nomos der Erde (27). Della teoria dell'impero di Schmitt penso che sia da accogliere, come un importante contributo storico-teorico, la critica della proiezione universalistica della "dottrina Monroe" da parte degli Stati Uniti. Secondo Schmitt, dall'idea originaria di un Grossraum panamericano, particolaristico e difensivo, le strategie statunitensi sono via via passate a forme di intervento espansionistico ben oltre l'area caraibica e sud-americana. Questa proiezione universalistica e globalistica - imperiale - della dottrina Monroe ha trovato la sua massima espressione nell'idealismo wilsoniano e ha fortemente influenzato in senso universalistico e globalistico la struttura della Società delle Nazioni. Lo sviluppo planetario, ha scritto Schmitt in Der Nomos der Erde,
Entro la cornice di questa filosofia del diritto e delle relazioni internazionali, l'antinormativismo e l'antiuniversalismo schmittiano converge con le posizioni anticosmopolitiche di teorici "neo-groziani" delle relazioni internazionali come Martin Wight e Hedley Bull (32). Bull, in particolare, ha insistito sulla necessità di recuperare categorie normative meno ispirate ad una concezione illuministica e giacobina dell'ordinamento internazionale. Contro la filosofia kelseniana del "primato del diritto internazionale" (33) Bull ha riproposto con forza idee come l'equilibrio fra le grandi potenze, la diplomazia preventiva, la negoziazione multilaterale fra gli Stati, lo jus gentium, inteso quale complesso di consuetudini internazionali affermatesi lentamente nel tempo, capaci, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno discriminante e distruttiva (34).
Quanto alla giustizia penale internazionale, inaugurata dai Tribunale di Norimberga e di Tokyo, Bull è stato fra i primi a denunciarne i limiti giuridici e le velleità pacifiste. In The Anarchical Society Bull ha sottolineato il carattere selettivo ed "esemplare" della giustizia dei vincitori. Queste caratteristiche violavano a suo parere il principio dell'uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e attribuivano alla giurisdizione dei due Tribunali internazionali un'arcaica e sinistra funzione sacrificale. La repressione penale era stata infatti applicata, ricorrendo largamente alla pena di morte, soltanto nei confronti di soggetti ritenuti, sulla base di valutazioni altamente discrezionali, come i più responsabili sul piano politico o come i più coinvolti in attività delittuose (35).
6. Conclusione
Sulla base delle argomentazioni sin qui svolte si può sostenere che il potere degli Stati Uniti è un potere "imperiale", in un significato complesso e in parte nuovo rispetto all'"archetipo romanistico": un significato che deve ovviamente tener conto delle novità che i processi di globalizzazione e le conseguenti trasformazioni in senso globale della guerra hanno introdotto nelle relazioni politiche internazionali.
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anzitutto in un senso strategico, trattandosi di una potenza che, grazie alla sua assoluta superiorità militare, può operare in una prospettiva universalistica, avvolgendo il pianeta con la fitta trama delle sue basi militari e la rete informatica dello spionaggio satellitare. Nei documenti più autorevoli del Pentagono e della Casa Bianca gli Stati Uniti si dichiarano, in quanto global power, il solo paese in grado di "proiettare potenza" su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere e rafforzare l'America's global leadership role, e cioè la loro supremazia nel modellare i processi globali di allocazione della ricchezza e del potere, nel far prevalere la propria visione del mondo e nel dettare le regole per realizzarla (36).
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anche in un senso normativo, perché tende a ignorare sistematicamente i principi e le regole del diritto internazionale. La superpotenza americana si sottrae sia al divieto della guerra di aggressione stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite - il caso dell'aggressione all'Iraq è un esempio conclamato -, sia alle norme del diritto di guerra, sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno, in particolare dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, a tutela delle popolazioni civili e dei prigionieri di guerra. Mazar-i-Sharif, Guantánamo, Abu Ghraib, Bagram, Fallujah sono i nomi tristemente famosi che ricordano i crimini di cui le massime autorità politiche e militari degli Stati Uniti si sono macchiate in questi anni. Gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi e la maggiore fonte di inquinamento atmosferico del mondo e nello stesso tempo si rifutano di ratificare Convenzioni e Trattati intesi a ridurre le stragi di vite umane e la devastazione industriale dell'ambiente, come la "Convenzione sulle armi disumane", che vieta la produzione e l'uso delle mine antiuomo, e gli accordi di Kyoto sul controllo del clima. E non solo si sono rifiutati di ratificare il Trattato di Roma che nel 1998 ha approvato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma sono attivi nel contrastarne le attività.
Questi comportamenti mostrano come il potere esercitato dagli Stati Uniti è legibus solutus, al di fuori e al di sopra del diritto internazionale. Un Imperatore decide di volta in volta sui singoli casi, ma non fissa principi normativi di carattere assoluto, né si impegna al rispetto di regole generali. Il potere imperiale è incompatibile sia con il carattere generale della legge, sia con l'eguaglianza giuridica dei soggetti dell'ordinamento internazionale. In questo senso gli Stati Uniti sono fonte sovrana di un nuovo diritto internazionale - di un nuovo "Nomos della terra" - in una situazione che la minaccia del global terrorism consente loro di presentare come uno "stato di eccezione" globale e permanente. L'autorità imperiale degli Stati Uniti amministra la giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o, invece, dei rogue states, svolge funzioni di polizia internazionale contro il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali (persino la contesa mediterranea fra Spagna e Marocco per l'"isoletta del prezzemolo"!). In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia internazionale. Il loro potere imperiale è addirittura invocato dai sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e lungimirante.
Ed è altrettanto significativo che oggi venga riproposta nella cultura angloamericana la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di un'autorità al di sopra di ogni altra autorità. Esemplare in questo senso è il documento dei sessanta intellettuali statunitensi che ha tempestivamente sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l'"asse del male". Riemerge così l'antica credenza ebraico-cristiana per la quale lo spargimento del sangue dei nemici può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. L'attività di polizia internazionale che la potenza imperiale svolge usando mezzi di distruzione di massa richiede un potenziamento della persuasione comunicativa fondata su argomenti teologici ed etici, non semplicemente politici. La guerra viene giustificata di un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi dall'umanità intera. La guerra è presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della libertà, della democratizzazione del mondo, della sicurezza e del benessere di tutti i popoli. La guerra globale ha come scopo ultimo la promozione di una pace globale. La pax imperialis è per definizione una pace perpetua e universale.
Mi propongo in questo saggio di presentare una ricognizione linguistica e un'analisi critica degli usi della nozione di "impero" che oggi ricorrono sempre più spesso nella letteratura politologica e internazionalistica occidentale. Vorrei che la mia riflessione offrisse un minimo contributo alla precisazione del concetto teorico-politico di "impero" e alla giustificazione, a certe condizioni, del suo uso contemporaneo. Non si tratta di un esercizio di lessicografia accademica. Il riemergere della nozione di "impero" è uno degli indici della profonda trasformazione degli assetti politici internazionali legata ai processi di integrazione globale e all'affermarsi di fenomeni di crescente polarizzazione del potere e della ricchezza su scala planetaria (1).
Nello stesso tempo è in atto un processo di dislocazione delle sovranità statali a favore di nuovi attori internazionali - militari, politici, economici, giudiziari - come la NATO, il G8, l'Unione Europea, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, le Corti penali internazionali, e così via. All'interno di questa arena transnazionale emerge l'egemonia di alcune grandi potenze occidentali guidate dagli Stati Uniti d'America.
E gli Stati Uniti svolgono sempre più il ruolo di una potenza imperiale "globale" che si pone al di sopra del diritto internazionale e in particolare del diritto bellico. Essa è in grado di ricorrere all'uso della forza in palese violazione del diritto internazionale e ottenendo per di più dalle istituzioni internazionali prestazioni di legalizzazione dello status quo. Ciò si verifica sia in termini di legittimazione normativa dei risultati di guerre di aggressione mascherate come interventi umanitari o come guerre preventive contro il "terrorismo globale", sia in termini di ricorso alla giustizia penale internazionale ad hoc. Dal Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia al Tribunale speciale iracheno - iracheno, ma in realtà imposto dagli Stati Uniti - si perpetua il "modello di Norimberga": una "giustizia dei vincitori" che le grandi potenze applicano agli sconfitti e ai popoli oppressi.
Questi fenomeni hanno subìto una forte accelerazione alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo la conclusione della guerra fredda, il crollo dell'Unione sovietica, il tramonto dell'ordine bipolare del mondo, l'affermazione degli Stati Uniti come la sola superpotenza planetaria e il diffondersi del terrorismo a livello internazionale. Ed hanno conosciuto un'ulteriore accelerazione dopo l'11 settembre 2001 e le guerre di aggressione condotte dagli Stati Uniti contro l'Afghanistan e contro l'Iraq.
1. Un'avvertenza metodologica
Il lemma "impero", così come oggi viene usato in Occidente, presenta valori semantici in larga parte non coincidenti con le accezioni di "impero" e di "imperialismo" caratteristiche del pensiero marxista e largamente diffuse nel secolo scorso (2). Rispetto alle teorie marxiste gli usi recenti sono meno ambiziosi sul piano politico e anche meno elaborati sul piano teorico, ma proprio per questo essi svolgono rilevanti funzioni simboliche e comunicative. Va segnalato, a questo proposito, che secondo un certo numero di autori "impero" non è lo strumento concettuale più appropriato per denotare l'attuale assetto delle relazioni internazionali e per favorirne una interpretazione e comprensione adeguata.
Michael Doyle, ad esempio, propone, se non altro, di tenere nettamente distinta la nozione di "impero formale" da quella di "impero informale", la sola eventualmente pertinente al mondo contemporaneo. Nell'impero formale, rappresentato essenzialmente dal "modello romano", il dominio viene esercitato attraverso l'annessione territoriale. E l'amministrazione dei territori annessi è affidata a governatori coloniali sostenuti da truppe metropolitane e da collaboratori locali. L'impero informale, secondo il "modello ateniese", esercita invece il suo potere attraverso la manipolazione e la corruzione delle classi politiche locali, e lo esercita su territori contigui e nei confronti di regimi legalmente indipendenti (3).
Altri autori - fra questi alcuni teorici neorealisti delle relazioni internazionali come Robert Gilpin, Kenneth Waltz e Robert Keohane - di fronte all'alternativa fra il concetto di "impero" e quello di "egemonia" optano decisamente per il secondo. Keohane, in particolare, ha elaborato con notevole successo la nozione di hegemonic stability, che assume il primato di una o più grandi potenze come fattore di stabilizzazione delle relazioni internazionali e concepisce questo primato in termini molto lontani dall'idea di una conflittualità espansionistica permanente, secondo il modulo imperiale classico (4). Altri ancora ritengono che il termine "impero" debba essere rigorosamente limitato alle formazioni politiche universalistiche che hanno preceduto la nascita, nell'Europa del Seicento, del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. La prevalenza entro i sistemi politici delle grandi potenze contemporanee del potere economico e dell'influenza culturale rispetto al potere politico-militare - si sostiene - è di per sé sufficiente a consigliare l'abbandono del modello imperiale o a raccomandare, quanto meno, una sua radicale riformulazione (5). Per contro, altri autori - fra questi, come vedremo, Alain de Benoist - si richiamano all'autorità di Carl Schmitt per legittimare l'uso del termine "impero" con riferimento alla dilatazione imperialistica della "dottrina Monroe", praticata dagli Stati Uniti a partire dal cosmopolitismo wilsoniano e che a loro parere ha continuato a influenzare profondamente le strategie espansionistiche della grande potenza americana (6).
E' dunque necessaria un'avvertenza metodologica per quanto riguarda il significato generale che il termine "impero" presenta oggi all'interno della cultura politica occidentale. In questo contesto il termine assume un valore semantico e una portata simbolica che tendono a cristallizzarsi in un vero e proprio paradigma. Al di là di varianti di dettaglio, questo paradigma imperiale allude ad una forma politica contraddistinta dalle tre seguenti caratteristiche morfologiche e funzionali:
1.1. La sovranità imperiale è una sovranità politica molto forte, accentrata e in espansione. Attraverso di essa l'impero esercita un potere di comando "assoluto" sulle popolazioni che risiedono nel territorio della madrepatria. A questo potere diretto si aggiunge un'ampia sfera di influenza politica, economica e culturale su altre formazioni politiche, più o meno contigue territorialmente, che conservano a pieno titolo la loro sovranità formale, per quanto si tratti, di fatto, di una sovranità limitata. Da questo punto di vista, come ha sostenuto Carl Schmitt, la "dottrina Monroe", applicata inizialmente dagli Stati Uniti nel subcontinente americano e poi dilatata al mondo intero, è stata una tipica espressione di espansionismo imperiale (7).
1.2. Al centralismo e all'assolutismo degli apparati di potere imperiale - l'autorità imperiale è per definizione legibus soluta sul piano internazionale ed esercita all'interno un potere non "rappresentativo" - si accompagna un ampio pluralismo di etnie, comunità, culture, idiomi e credenze religiose diverse, separate e distanti fra loro. Rispetto ad esse il potere centrale svolge un controllo più o meno intenso, ma che tuttavia non minaccia la loro identità e relativa autonomia culturale. In questo senso specifico assume un valore paradigmatico il modello dell'Impero ottomano, con l'istituto del millet e una diffusa pratica di tolleranza confessionale (8). La combinazione di assolutismo antiegualitario e di pluralismo etnico-culturale connota l'impero opponendolo al carattere rappresentativo e nazionale dello Stato di diritto europeo.
1.3. L'ideologia imperiale è pacifista e universalista. L'Impero viene concepito come un'entità perenne: è un potere supremo, garante di pace, di sicurezza e di stabilità per tutti i popoli della terra. La pax imperialis è per definizione una pace stabile e universale: l'uso della forza militare ha come scopo esclusivo la sua promozione. L'Imperatore è il solo, unico imperatore che per mandato divino (o per un destino provvidenziale) comanda, di fatto o potenzialmente, sul mondo intero: un solo basileus, un solo logos, un solo nomos. In quanto imperator, l'imperatore è il supremo capo militare; in quanto pontifex maximus è il sommo sacerdote; in quanto princeps esercita una giustizia sovrana. Il regime imperiale si autoconcepisce e si impone come un regime mono-cratico, mono-teistico e mono-normativo.
E' chiaro che la fonte remota ma determinante di questo paradigma è l'Impero romano, da Augusto a Costantino, con le sue strutture, la sua prassi, la sua ideologia (9), sia pure in una versione tendenzialmente "informale", nell'accezione proposta da Doyle. Ovviamente, se si volesse cogliere nella sua complessità la genesi di questo archetipo romanistico, si dovrebbero studiare le esperienze imperiali che si sono sviluppate in Europa dopo la caduta dell'Impero romano e che al suo modello si sono più o meno direttamente ispirate. Si pensi, ad esempio, a formazioni politiche come l'Impero germanico-feudale, l'Impero bizantino, l'Impero ottomano, l'Impero spagnolo (10). Nessuna diretta influenza sembra invece essere stata esercitata dall'esperienza degli imperi antichi: mediorientali, mesopotamici, cinesi. Scarso rilievo nella formazione di questo paradigma sembra che si debba attribuire sia all'esperienza dell'Impero napoleonico (11), sia alle vicende degli imperi coloniali, dai più risalenti, come quello britannico, ai più recenti (12).
Sono quattro gli usi della nozione di "impero" - corrispondente all'archetipo romanistico, attenuato in senso "informale" - che a mio parere sono presenti nella letteratura politologica e internazionalistica contemporanea, inclusa la nozione marxista di "imperialismo" che conserva un rilievo non del tutto marginale nella scia di alcune dottrine neo-marxiste delle relazioni internazionali che si sono affermate negli anni sessanta e settanta del secolo scorso.
2. Imperialismo e impero nell'uso neo-marxista
La nozione di "impero" implicata dalle teorie marxiste dell'imperialismo, basate sulla concezione classista della storia e sulla critica "materialista" dell'economia capitalistica, è ancora oggi presente in una parte della letteratura politologica occidentale (13). "Impero" in questo senso è nozione in larga misura destoricizzata e inserita nel contesto di una filosofia della storia che fa dell'imperialismo l'esito necessario dello sviluppo dell'economia capitalistica.
Questa dottrina dell'imperialismo oggi gode di un credito molto più limitato rispetto ad un passato anche recente. Ciò che di questa teoria dell'impero oggi è sottoposto a critica è soprattutto la tesi dell'esistenza di un "fattore causale", di natura economica, che determinerebbe il passaggio dal capitalismo all'imperialismo come necessaria condizione di sviluppo (o di sopravvivenza) dell'economia di mercato. L'imperialismo, in questo senso, è una dinamica di espansione dell'economia di mercato oltre il suo ambito naturale - l'area dei paesi industriali occidentali -, che arriva a coinvolgere nei suoi meccanismi di sfruttamento la forza-lavoro dei paesi industrialmente arretrati. Da questo punto di vista imperialismo e colonialismo sono fenomeni strettamente connessi. Per Lenin, come è noto, il "fattore causale" era la caduta tendenziale del saggio di profitto e la crescente concorrenza fra i capitalisti, mentre per Rosa Luxemburg questa funzione era svolta dal sottoconsumo dovuto all'impoverimento del proletariato europeo (14).
Assai più presenti al dibattito politologico contemporaneo sono le dottrine neo-marxiste dello sviluppo capitalistico e dei suoi approdi imperialistici, come la teoria del capitale monopolistico di Paul Baran e Paul Sweezy, la "teoria della dipendenza", elaborata, fra gli altri, da André Gunder Frank, o la teoria del "sistema mondiale" di Immanuel Wallerstein (15). Rispetto all'ortodossia marxista-leninista, in queste versioni neomarxiste la nozione di "impero" tende ad assumere caratteristiche assai più vicine all'"archetipo romanistico" cui ho sopra accennato. Baran e Sweezy, ad esempio, hanno collegato l'evoluzione imperialistica del "capitalismo monopolistico" - concentrato e centralizzato - alla necessità, assai più politica che economica, che i paesi industriali avanzati hanno di destinare il surplus a investimenti di natura militare. La gerarchia delle nazioni che compongono il sistema capitalistico - hanno sostenuto Baran e Sweezy - presenta un assetto piramidale: i paesi collocati al vertice sfruttano quelli situati a un livello più basso, sino a giungere all'ultimo paese che non ha più nessuno da sfruttare. Il vertice della gerarchia è la "metropoli imperiale" mentre i gradini più bassi formano la "periferia coloniale". La vocazione militarista degli Stati Uniti d'America - che occupano l'intero spazio metropolitano - dipende dall'esigenza che la loro forza armata venga usata sistematicamente per mantenere e, se possibile, irrobustire, la loro posizione di leadership nella gerarchia dello sfruttamento (16).
Naturalmente anche le versioni neo-marxiste dell'imperialismo sono state sottoposte a critica. Per autori liberal come Robert Gilpin o come Joseph Stiglitz, ad esempio, il crescente divario fra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da forme di oppressione "imperialistica", formale o informale che sia. La globalizzazione economica e l'apertura mondiale dei mercati non può essere interpretata secondo lo schema della "gerarchia" imperiale dello sfruttamento capitalistico. La polarizzazione crescente nella distribuzione delle risorse globali dipende dal diverso grado di produttività dei sistemi economici nazionali, e quindi dai livelli di cultura, qualificazione tecnica, competenza amministrativa e capacità di iniziativa che caratterizzano i diversi paesi. E' su questi parametri che, secondo Gilpin e Stiglitz, occorrerebbe intervenire, oltre che sulla regolazione degli scambi commerciali internazionali e dei movimenti dei capitali. E a questo fine sarebbe necessaria una profonda trasformazione delle politiche adottate negli ultimi decenni dalle istituzioni economiche internazionali, a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca mondiale, sottoposte al Washington consensus (17).
3. Un'Europa imperiale?
Oggi è la cosiddetta "Nuova destra" francese, rappresentata in particolare da Alain de Benoist, a riproporre un'idea imperiale che si richiama direttamente alla elaborazione schmittiana. C'è in de Benoist e nel movimento Grece (Groupement de recherches et d'études pour la civilisation européenne) che al pensiero di de Benoist si ispira, un netto rifiuto del nazionalismo e del liberalismo in nome sia di un europeismo culturale, sia di un "pluralismo localista". Questa è la radice dell'idea di un''Europa imperiale" che ammetta un'ampia pluralità politica interna, non nazionalistica ma etnica e regionalistica. De Benoist respinge l'idea gollista dell''Europa delle patrie"; liberalismo e nazionalismo statalistico sono da lui denunciati come dispositivi economici e ideologici che producono sradicamento e uniformità culturale. Alla americanizzazione della Francia e dell'Europa de Benoist oppone una cultura "pagana" che egli fa risalire alle origini indo-europee della tradizione europea. E alla proposta di un europeismo imperiale fa corrispondere una dura polemica contro l'imperialismo degli Stati Uniti, accusati di essere espressione suprema della disumanizzazione, della volgarità e della stupidità. L'Europa imperiale, egli proclama, o si farà contro gli Stati Uniti o non si farà (18).
Per de Benoist non ci sono che due modelli per costruire l'Europa: l'impero e la nazione. La nazione è ormai troppo grande per regolare i problemi locali e troppo piccola per occuparsi delle questioni globali, in particolare di quelle economiche. "L'Impero, nel senso più tradizionale del termine - sostiene de Benoist - è il solo modello che possa conciliare l'uno e il molteplice: è la politia che organizza l'unità organica delle sue diverse componenti, rispettando la loro autonomia" (19). L'inconveniente, aggiunge de Benoist, è che da Maastricht in poi non emerge il disegno di un'Europa autonoma, politicamente sovrana, decisa a dotarsi dell'equivalente di ciò che la "dottrina Monroe" è stata per gli Stati Uniti (è particolarmente chiara qui l'influenza del pensiero di Schmitt). Siamo invece in presenza di un'Europa senza progetto, legittimità e identità politica.
La proposta di de Benoist non è priva di aspetti interessanti, anche se, è appena il caso di dire, il modello euro-imperiale non sembra che possa essere accolto nè da forze politiche europee di ispirazione liberale, né da una sinistra europea modellata sulla tradizione liberal-democratica. Il paradigma imperiale, come abbiamo visto, comporta una concezione assolutistica e antiegualitaria del potere, anche se tollerante e compatibile con il pluralismo etnico-culturale. E non sembra agevolmente proponibile neppure l'idea di un'Europa "pagana" - non semplicemente laica -, se è vero che la cultura europea è frutto della filosofia greca, del diritto romano e dell'illuminismo, ma lo è anche dei tre monoteismi che sono fioriti sulle sponde del Mediterraneo: quello israelitico, quello cristiano e, last but not least, quello islamico.
Si può inoltre osservare che non è chiaro se, nel riferirsi, sulle orme di Schmitt, al modello della "dottrina Monroe", de Benoist pensi ad una "Europa imperiale" sotto l'influenza di uno o più Stati egemoni - eventualmente la Francia e la Germania - e se la sua idea di impero sia compatibile con una strutturazione egualitaria dei rapporti fra le diverse cittadinanze europee e quindi con l'eguale tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei, tematiche entrambe relativamente estranee alle elaborazioni della "nuova destra" francese (20).
4. Hardt e Negri: un'apologia dell'Impero globale
Nel loro fortunatissimo volume, Empire, Michael Hardt e Antonio Negri sostengono che il nuovo "ordine mondiale" imposto dalla globalizzazione ha portato alla scomparsa del sistema vestfaliano degli Stati sovrani (21). Non ci sono più Stati nazionali, se non per le loro esangui strutture formali che ancora sopravvivono entro l'ordinamento giuridico e le istituzioni internazionali. Il mondo non è più governato da sistemi politici statali: è governato da un'unica struttura di potere che non presenta alcuna analogia significativa con lo Stato moderno di origine europea. E' un sistema politico decentrato e deterritorializzato, che non fa riferimento a tradizioni e valori etnico-nazionali, e la cui sostanza politica e normativa è l'universalismo cosmopolitico. Per queste ragioni i due autori ritengono che "Impero" sia la denotazione più appropriata per il nuovo tipo di potere globale.
Sarebbe tuttavia sbagliato pensare che l'Impero - o il suo nucleo centrale ed espansivo - sia costituito dagli Stati Uniti d'America e dai loro più stretti alleati occidentali. Né gli Stati Uniti, né alcun altro Stato nazionale, Hardt e Negri dichiarano con forza, "costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista" (22). L'Impero globale è tutt'altra cosa rispetto all'imperialismo classico e sarebbe un grave errore teorico confonderlo con esso.
Questo è un punto molto delicato sia sul piano teorico, sia su quello politico, e che ha sollevato un'ampia discussione. Si è sostenuto che nelle pagine di Hardt e Negri l'Impero sembra sfumare in una sorta di "categoria dello spirito"; è presente in ogni luogo poiché coincide con la nuova dimensione della globalità. Ma, si è obiettato, se tutto è imperiale, niente è imperiale. Come individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali? Contro chi rivolgere la critica e la resistenza anti-imperialistica? Chi, se si escludono gli apparati politico-militari della grandi potenze occidentali - in primis degli Stati Uniti - esercita le funzioni imperiali (23)?
C'è un secondo aspetto della teoria dell'Impero di Hardt e Negri che ha sollevato obiezioni. E' un aspetto che sembra tributario dell'implicita "ontologia" che fa da contrappunto delle analisi di Hardt e Negri: la dialettica della storia, in una accezione caratteristica dell'hegelo-marxismo e del leninismo. Secondo i due autori l'Impero globale rappresenta un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Avendo posto fine agli Stati e al loro nazionalismo, l'Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che deve essere accolta con favore.
Secondo Hardt e Negri, ogni tentativo di far risorgere lo Stato-nazione in opposizione alla presente costituzione imperiale del mondo esprimerebbe una ideologia "falsa e dannosa". La filosofia no-global ed ogni forma di ambientalismo naturalistico e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni primitive e antidialettiche e cioè, in sostanza, "reazionarie". I comunisti - tali si dichiarano Hardt e Negri - sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, "cattolici"; il loro orizzonte è quello dell'umanità intera, della "natura umana generica", come scriveva Marx. Nel secolo scorso le masse lavoratrici hanno puntato sull'internazionalizzazione delle relazioni politiche e sociali. Oggi i poteri "globali" dell'Impero devono essere controllati, ma non demoliti: la costituzione imperiale va conservata e finalizzata ad obiettivi non capitalistici. Per Hardt e Negri, anche se è vero che le tecnologie poliziesche sono il "nocciolo duro" dell'ordine imperiale, quest'ordine non ha nulla a che vedere con le pratiche delle dittature e del totalitarismo del secolo scorso.
Dal punto di vista della transizione ad una società comunista la costruzione dell'Impero è "un passo avanti": l'Impero "è meglio di ciò che lo ha preceduto" perché "spazza via i crudeli regimi del potere moderno" e "offre enormi possibilità creative e di liberazione" (24). Affiora qui una sorta di ottimismo imperiale le cui radici affondano, a mio parere, nella metafisica dialettica dell'hegelomarxismo. Un ottimismo imperiale che, come vedremo, si oppone al realismo e all'antiuniversalismo schmittiano, pur propenso a prendere atto della fine dell'ordinamento "statale" dello jus publicum europaeum e a proporre uno schema di ordine mondiale fondato sulla nozione post-statale di Grossraum.
5. Impero globale e guerra
Michael Ignatieff - autorevole esponente liberal anglo-americano - ha di recente sostenuto che gli Stati Uniti sono un impero. Si tratta di un impero di tipo nuovo, egli sostiene, che si ispira ai principi del libero mercato, dei diritti umani e della democrazia: una vera e propria "scoperta negli annali della scienza politica". Ma per quanto significative siano le novità e le specificità della loro egemonia globale, gli Stati Uniti, come tutti gli imperi del passato, hanno il loro pesante fardello di impegni e di responsabilità. Fra questi rientra la garanzia "della pace, della stabilità, della democratizzazione e dell'approvvigionamento di petrolio" nel Medio Oriente e nell'Asia centrale, dall'Egitto all'Afghanistan (25).
Gli Stati Uniti si trovano a svolgere il ruolo che in passato era stato garantito prima dall'Impero ottomano e poi dagli imperi coloniali della Francia e della Gran Bretagna. E' questa la ragione per cui, dopo aver sconfitto il regime dei Talebani e occupato l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno dovuto intervenire militarmente in Iraq, per scongiurare la proliferazione delle armi di distruzione di massa, prevenire l'azione dei network terroristici e rovesciare un regime tirannico e sanguinario. L'11 settembre ha dimostrato che gli Stati Uniti non sarebbero in grado di garantire al loro interno la pace sociale e l'affermazione dei valori democratici se non adottassero una politica estera imperiale.
Anche autori italiani, pur senza una specifica finalità teorico-politica, hanno sostenuto tesi analoghe a quelle di Ignatieff, dando loro tuttavia una valenza politica opposta, fortemente critica nei confronti dell'egemonia imperiale degli Stati Uniti (26). Personalmente, sia pure con qualche cautela terminologica e teorico-politica, ritengo che sia corretto usare l'espressione "impero" (e "impero globale') a proposito della crescente egemonia economica, politica e soprattutto militare della superpotenza statunitense.
Nel proporre questa tesi ho presente, senza tuttavia assumerlo direttamente come premessa teorica, il realismo e l'antinormativismo della filosofia del diritto internazionale di Carl Schmitt, così come essa è stata esposta in testi quali Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, del 1933, e Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte, del 1939, e come è stata poi riformulata, nel 1950, in Der Nomos der Erde (27). Della teoria dell'impero di Schmitt penso che sia da accogliere, come un importante contributo storico-teorico, la critica della proiezione universalistica della "dottrina Monroe" da parte degli Stati Uniti. Secondo Schmitt, dall'idea originaria di un Grossraum panamericano, particolaristico e difensivo, le strategie statunitensi sono via via passate a forme di intervento espansionistico ben oltre l'area caraibica e sud-americana. Questa proiezione universalistica e globalistica - imperiale - della dottrina Monroe ha trovato la sua massima espressione nell'idealismo wilsoniano e ha fortemente influenzato in senso universalistico e globalistico la struttura della Società delle Nazioni. Lo sviluppo planetario, ha scritto Schmitt in Der Nomos der Erde,
ha
condotto a un netto dilemma fra universo e pluriverso, tra monopolio e
polipolio, e cioè al problema se il pianeta sia maturo per il monopolio
globale di un'unica potenza o sia invece un pluralismo di grandi spazi
in sé ordinati e coesistenti, di sfere di intervento e di aree di
civiltà a determinare il nuovo diritto internazionale della terra (28).
In
secondo luogo non si può negare che Schmitt sia stato un analista
penetrante nel denunciare, assieme alla dimensione globale e polimorfa
dell'impero statunitense, la sua tendenza ad attribuire alla guerra
dimensioni altrettanto globali e finalità di annientamento del nemico
che erano state proprie delle guerre di religione. Senza dubbio gli
Stati Uniti sono riusciti a imporre al mondo, assieme alla loro egemonia
economica e politica, anche il monopolio della loro visione del mondo,
del loro stesso linguaggio e vocabolario concettuale: Caesar dominus et supra grammaticam (29).
Ma, la superpotenza americana si è imposta come un impero globale
soprattutto grazie alla sua assoluta supremazia militare che le ha
consentito di ergersi a garante dell'ordine mondiale, a "gendarme del
mondo". Se la forza militare di uno Stato, sostiene Schmitt, è
soverchiante, la nozione stessa di guerra si trasforma: il conflitto ha
come finalità lo sterminio del nemico e l'ostilità diviene così aspra da
non poter essere sottoposta ad alcuna limitazione o regolazione (30).
Solo chi si trova in condizioni di irrimediabile inferiorità si
appella, senza successo, al diritto internazionale contro lo strapotere
dell'avversario. Chi invece gode di una completa supremazia militare fa
della sua invincibilità il fondamento della sua justa causa belli e tratta il nemico, sul piano morale come su quello giudiziario, come un bandito e un criminale:
La discriminazione del nemico come criminale e la contemporanea assunzione a proprio favore della justa causa
vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e
con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Si spalanca l'abisso
di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distuttiva. [...]
Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di
polizia contro turbatori della pace, criminali ed elelmenti nocivi, deve
essere anche potenziata la giustificazione dei metodi di questo police bombing. Si è così indotti a spingere la discriminazione dell'avversario in dimensioni abissali (31).
In
terzo luogo ritengo che la filosofia del diritto internazionale di
Schmitt meriti attenzione quando sostiene che una riduzione della
conflittualità internazionale e della distruttività della guerra moderna
potrà difficilmente essere ottenuta attraverso istituzioni
universalistiche e "despazializzate", come la Società delle Nazioni e le
Nazioni Unite, impegnate in una radicale criminalizzazione giuridica
della guerra. Secondo Schmitt un progetto di pacificazione del mondo
richiede piuttosto un recupero neo-regionalistico dell'idea di Grossraum
e un rilancio della negoziazione multilaterale fra gli Stati come fonte
normativa e legittimazione dei processi di integrazione regionale, da
opporre all'imperialismo statunitense.Entro la cornice di questa filosofia del diritto e delle relazioni internazionali, l'antinormativismo e l'antiuniversalismo schmittiano converge con le posizioni anticosmopolitiche di teorici "neo-groziani" delle relazioni internazionali come Martin Wight e Hedley Bull (32). Bull, in particolare, ha insistito sulla necessità di recuperare categorie normative meno ispirate ad una concezione illuministica e giacobina dell'ordinamento internazionale. Contro la filosofia kelseniana del "primato del diritto internazionale" (33) Bull ha riproposto con forza idee come l'equilibrio fra le grandi potenze, la diplomazia preventiva, la negoziazione multilaterale fra gli Stati, lo jus gentium, inteso quale complesso di consuetudini internazionali affermatesi lentamente nel tempo, capaci, se non certo di sopprimere la guerra, almeno di renderla meno discriminante e distruttiva (34).
Quanto alla giustizia penale internazionale, inaugurata dai Tribunale di Norimberga e di Tokyo, Bull è stato fra i primi a denunciarne i limiti giuridici e le velleità pacifiste. In The Anarchical Society Bull ha sottolineato il carattere selettivo ed "esemplare" della giustizia dei vincitori. Queste caratteristiche violavano a suo parere il principio dell'uguaglianza formale delle persone di fronte alla legge e attribuivano alla giurisdizione dei due Tribunali internazionali un'arcaica e sinistra funzione sacrificale. La repressione penale era stata infatti applicata, ricorrendo largamente alla pena di morte, soltanto nei confronti di soggetti ritenuti, sulla base di valutazioni altamente discrezionali, come i più responsabili sul piano politico o come i più coinvolti in attività delittuose (35).
6. Conclusione
Sulla base delle argomentazioni sin qui svolte si può sostenere che il potere degli Stati Uniti è un potere "imperiale", in un significato complesso e in parte nuovo rispetto all'"archetipo romanistico": un significato che deve ovviamente tener conto delle novità che i processi di globalizzazione e le conseguenti trasformazioni in senso globale della guerra hanno introdotto nelle relazioni politiche internazionali.
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anzitutto in un senso strategico, trattandosi di una potenza che, grazie alla sua assoluta superiorità militare, può operare in una prospettiva universalistica, avvolgendo il pianeta con la fitta trama delle sue basi militari e la rete informatica dello spionaggio satellitare. Nei documenti più autorevoli del Pentagono e della Casa Bianca gli Stati Uniti si dichiarano, in quanto global power, il solo paese in grado di "proiettare potenza" su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò estendere e rafforzare l'America's global leadership role, e cioè la loro supremazia nel modellare i processi globali di allocazione della ricchezza e del potere, nel far prevalere la propria visione del mondo e nel dettare le regole per realizzarla (36).
Il potere degli Stati Uniti è un potere imperiale anche in un senso normativo, perché tende a ignorare sistematicamente i principi e le regole del diritto internazionale. La superpotenza americana si sottrae sia al divieto della guerra di aggressione stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite - il caso dell'aggressione all'Iraq è un esempio conclamato -, sia alle norme del diritto di guerra, sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno, in particolare dalle Convenzioni di Ginevra del 1949, a tutela delle popolazioni civili e dei prigionieri di guerra. Mazar-i-Sharif, Guantánamo, Abu Ghraib, Bagram, Fallujah sono i nomi tristemente famosi che ricordano i crimini di cui le massime autorità politiche e militari degli Stati Uniti si sono macchiate in questi anni. Gli Stati Uniti sono i maggiori esportatori di armi e la maggiore fonte di inquinamento atmosferico del mondo e nello stesso tempo si rifutano di ratificare Convenzioni e Trattati intesi a ridurre le stragi di vite umane e la devastazione industriale dell'ambiente, come la "Convenzione sulle armi disumane", che vieta la produzione e l'uso delle mine antiuomo, e gli accordi di Kyoto sul controllo del clima. E non solo si sono rifiutati di ratificare il Trattato di Roma che nel 1998 ha approvato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma sono attivi nel contrastarne le attività.
Questi comportamenti mostrano come il potere esercitato dagli Stati Uniti è legibus solutus, al di fuori e al di sopra del diritto internazionale. Un Imperatore decide di volta in volta sui singoli casi, ma non fissa principi normativi di carattere assoluto, né si impegna al rispetto di regole generali. Il potere imperiale è incompatibile sia con il carattere generale della legge, sia con l'eguaglianza giuridica dei soggetti dell'ordinamento internazionale. In questo senso gli Stati Uniti sono fonte sovrana di un nuovo diritto internazionale - di un nuovo "Nomos della terra" - in una situazione che la minaccia del global terrorism consente loro di presentare come uno "stato di eccezione" globale e permanente. L'autorità imperiale degli Stati Uniti amministra la giustizia globale, definisce i torti e le ragioni dei sudditi, pone le condizioni dell'inclusione degli Stati nel novero dei vassalli fedeli o, invece, dei rogue states, svolge funzioni di polizia internazionale contro il terrorismo, appiana le differenze e gestisce le controversie locali (persino la contesa mediterranea fra Spagna e Marocco per l'"isoletta del prezzemolo"!). In poche parole: gli Stati Uniti operano per la pace e la giustizia internazionale. Il loro potere imperiale è addirittura invocato dai sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e lungimirante.
Ed è altrettanto significativo che oggi venga riproposta nella cultura angloamericana la dottrina del bellum justum. Si tratta di una dottrina medievale, tipicamente imperiale, che suppone l'esistenza di un potere e di un'autorità al di sopra di ogni altra autorità. Esemplare in questo senso è il documento dei sessanta intellettuali statunitensi che ha tempestivamente sponsorizzato come just war la guerra degli Stati Uniti contro l'"asse del male". Riemerge così l'antica credenza ebraico-cristiana per la quale lo spargimento del sangue dei nemici può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. L'attività di polizia internazionale che la potenza imperiale svolge usando mezzi di distruzione di massa richiede un potenziamento della persuasione comunicativa fondata su argomenti teologici ed etici, non semplicemente politici. La guerra viene giustificata di un punto di vista superiore e imparziale, in nome di valori che si ritengono condivisi dall'umanità intera. La guerra è presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della libertà, della democratizzazione del mondo, della sicurezza e del benessere di tutti i popoli. La guerra globale ha come scopo ultimo la promozione di una pace globale. La pax imperialis è per definizione una pace perpetua e universale.
Note
*. Rielaborazione del saggio "L'uso contemporaneo della nozione di 'impero'", apparso sulla rivista Filosofia politica, 3, 2004.
1. Su questi temi mi permetto di rinviare al mio Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004.
2. Si veda R. Owen, B. Sutcliff, Studi sulla teoria dell'imperialismo. Dall'analisi marxista alle questioni dell'imperialismo contemporaneo, Torino, Einaudi, 1977.
3. Cfr. A.W. Doyle, Empires, Cornell University Press, Ithaca (NY), 1986.
4. Cfr. R.O. Keohane, After Hegemony. Cooperation and Discord in the World Political Economy, Princeton, Princeton University Press, 1984, pp. 31 ss., 49-64, 83-4; R.O. Keohane, Neorealism and Its Critics, New York, Columbia University Press, 1986; K.N. Waltz, Theory of International Politics, New York, Newbery Award Records, 1979, trad. it. Bologna, il Mulino, 1987; R. Gilpin, War and Change in World Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, trad. it. Bologna, il Mulino, 1989. Sull'alternativa fra le nozioni di "egemonia" e di "impero" cfr. V.E. Parsi, L'impero come fato? Gli Stati Uniti e l'ordine globale, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 87, 92-3.
5. Cfr. D. Lieven, Empire. The Russian Empire and Its Rivals, London, John Murray, 2000, p. 9.
6. Si veda: C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, "Auslandsstudien", 8 (1933), ora in C. Schmitt, Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar, Genf, Versailles 1923-1939, Hamburg, Hanseatische Verlagsanstalt, 1940; C. Schmitt, Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, "Schriften des Instituts für Politik und Internationales Recht an der Universität Kiel", n. 7, 1939, ora in C. Schmitt, Staat, Grossraum, Nomos, a cura di G. Maschke, Berlin, Duncker & Humblot, 1995, trad. it. Roma, Settimo Sigillo, 1996; C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991. Sulla teoria schmittiana dell'imperialismo e sulla connessa idea di Grossraumordnung, cfr. P.P. Portinaro, La crisi dello Jus Publicum Europaeum, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, pp. 188-202.
7. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum (1950), Berlin, Duncker und Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991.
8. Il termine millet denotava una comunità religiosa che svolgeva il ruolo di unità amministrativa decentrata dell'Impero; cfr. G. Prévélakis, Les Balkans. Cultures et géopolitique, Paris, Nathan, 1994, trad. it. Bologna, il Mulino, 1997, pp. 81-5. Sul tema mi permetto di rinviare al primo capitolo (Imperial mapping and Balkan nationalism) del mio Invoking Humanity. War, Law and Global Order, London-New York, Continuum International, 2002, pp. 7-36.
9. Si veda: G. Poma, L'impero romano: ideologia e prassi, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 5-35; C.M. Wells, The Roman Empire, London, Fontana Press, 1992, trad. it. Bologna, il Mulino, 1995; P. Veyne, The Roman Empire, Cambridge (Mass.), Belknap Press, 1997.
10. Si veda: E. Bussi, Il diritto pubblico del Sacro romano impero alla fine dell'VIII secolo, voll. 2, Milano, Giuffrè, 1957-59; G. Ostrogorski, Geschichte des byzantinischen Staates, München, Beck, 1940, trad. it. Storia dell'impero bizantino, Torino, Einaudi, 1993; D. Kitsikis, L'Empire ottoman, Paris, Presses Universitaires de France, 1985; A. Musi, L'impero spagnolo, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 37-61; F. Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'lépoque de Philippe II, Paris, Colin, 1982, trad. it. Torino, Einaudi, 2002 (voll. 2).
11. Si veda E. Di Rienzo, L'impero-nazione di Napoleone Bonaparte, "Filosofia politica", 16 (2002), 1, pp. 63-82.
12. Si veda W.J. Mommsen, Das Zeitalter des Imperialismus, Frankfurt a.M., Fisher Bücherei, 1969, trad. it. L'età dell'imperialismo, Milano, Feltrinelli, 1989; R.F. Betts, The False Dawn: European Imperialism in the Nineteenth Century, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1975, trad. it. Bologna, il Mulino, 1986.
13. Si vedano, fra i molti altri: P. Bourdieu, Contre-feux 2, Paris, Liber, 2001; L. Boltanski, E. Chiapello, Le nouvel esprit du capitalism, Paris, Gallimard, 1999; A. Callinicos, et al., Marxism and the New Imperialism, London, Bookmark, 1994; U. Allegretti, M. Dinucci, D. Gallo, La strategia dell'Impero, S. Domenico di Fiesole, Edizioni Cultura della Pace, 1992.
14. Si veda N. Lenin, L'imperialismo fase suprema del capitalismo (1917), Roma, Editori Riuniti, 1964; R. Luxemburg,L'accumulazione del capitale, Torino, Einaudi, 1968.
15. Si veda P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital: An Essay on the American Economic and Social Order, New York, Monthly Review Press, 1966, trad. it. Torino, Einaudi, 1969; A.G. Frank, Capitalism and Under-development in Latin America, New York, Monthly Review Press, 1969; I. Wallerstein, The Modern World System, New York, Academic Press, 1974; I. Wallerstein, The Capitalist World Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1979.
16. Cfr. P.A. Baran, P.M. Sweezy, Monopoly Capital, trad. it. cit., pp. 150-5, 180-3.
17. Cfr. R. Gilpin, The Political Economy of International Relations, Princeton, Princeton University Press, 1987, trad. it. Bologna, il Mulino, 1990, pp. 34-43, 65-72, 270-3; J.E. Stiglitz, Globalisation and Its Discontents, New York, W.W. Norton & Company, 2002, trad. it. Torino, Einaudi, 2002, pp. 219-56.
18. Si veda A. De Benoist, L'Impero interiore. Mito, autorità, potere nell'Europa moderna e contemporanea, Firenze, Ponte alle Grazie,1996; P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite. Jalons d'une analyse critique, Paris, Descartes & Cie, 1994, trad. it. Firenze, Vallecchi, 2004, passim.
19. Cfr. P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droite, trad. it. cit., p. 150.
20. Su questo punto mi permetto di rinviare alla mia introduzione all'edizione italiana, citata, di P.-A. Taguieff, Sur la Nouvelle droit (pp. 13-4).
21. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, Cambridge (Mass.), Harvard College, 2000, trad. it. Milano, Rizzoli, 2002, passim.
22. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., p. 15.
23. Su questa discussione si può vedere A. Negri, D. Zolo, L'Impero e la moltitudine. Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione, "Reset", 73 (2002), pp. 8-19, ora anche in A. Negri, Guide. Cinque lezioni su Impero e dintorni, Milano, Raffaello Cortina, 2003, pp. 11-33. Una versione integrale in lingua inglese, più ampia rispetto a quella originariamente pubblicata da "Reset", è apparsa, a cura di A. Bove e M. Mandarini, in "Radical Philosophy", 120 (2003), pp. 23-37.
24. Cfr. M. Hardt, A. Negri, Empire, trad. it. cit., pp. 56, 208.
25. Cfr. M. Ignatieff, The Burden, "New York Times Magazine", 5 gennaio 2003.
26. Si veda ad esempio: M. Cacciari, Digressioni su Impero e tre Rome, "Micromega", (2001), 5; G. Chiesa, La guerra infinita, Milano, Feltrinelli, 2002.
27. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 231-3, 311-12.
28. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. Cit., p. 311.
29. Sulla tendenza del dominio imperiale statunitense a imporre il proprio vocabolario, la propria terminologia e i propri concetti ai popoli egemonizzati, cfr. C. Schmitt, Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, cit., pp. 179-80.
30. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., pp. 429-30.
31. Cfr. C. Schmitt, Der Nomos der Erde, trad. it. cit., p. 430.
32. Si veda: M. Wigth, Why is there no International Theory?, in H. Butterfield, M. Wight (a cura di), Diplomatic Investigations, London, George Allen and Unwin Lmt, 1969; H. Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977.
33. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Hans Kelsen: International Peace through International Law, "European Journal of International Law", 9 (1998), 2.
34. Si veda H. Bull, The Anarchical Society, cit., passim; H. Bull, Hans Kelsen and International Law, in J.J.L. Tur, W. Twining (a cura di), Essays on Kelsen, Oxford, Oxford University Press, 1986; sul tema si veda inoltre A. Colombo, La società anarchica fra continuità e crisi, "Rassegna italiana di sociologia", 2 (2003), pp. 237-55.
35. Cfr. H. Bull, The Anarchical Society, cit., p. 89.
36. Si vedano: Department of Defense, Quadrennial Defense Review Report, 30 settembre 2001; The White House, Nation
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