martedì 30 giugno 2015

Moneta vuol dire fiducia: perché i CCF rischiano di non funzionare

Pubblichiamo un commento critico di Guido Iodice e Thomas Fazi alla proposta avanzata da Luciano Gallino e altri economisti nell'ebook “Per una moneta fiscale gratuita” edito da MicroMega. A seguire una replica degli autori del volume.

di Guido Iodice (Keynesblog.com) e Thomas Fazi (Oneuro eunews.it/oneuro) da Micromega




Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi hanno avanzato, in un loro libro edito da Hoepli, la proposta di istituire una forma di “moneta fiscale”, poi rilanciata in un appello promosso da Stefano Sylos Labini e firmato anche da Luciano Gallino e infine meglio esplicitata nell’e-book di MicroMega. I certificati di credito fiscale (CCF) verrebbero emessi dal governo e sarebbero in sostanza dei crediti sulle tasse future (a due anni). Con i CCF, lo Stato potrebbe aumentare la spesa pubblica, ridurre il cuneo fiscale e immettere liquidità nel sistema economico. I CCF sarebbero (quasi-)moneta in più, in modo tale che lo Stato non dovrebbe sostituire parte della sua spesa pubblica in euro con spesa in CCF, ma attivare più spesa grazie a questi ultimi. L’auspicio è che essi vengano percepiti come moneta e utilizzati negli scambi, per lo meno tra imprese e tra imprese e Stato. Secondo i promotori, i CCF si ripagherebbero da soli perché, una volta rimessa in moto l’economia, il PIL tornerebbe a crescere e gli introiti fiscali ad aumentare, coprendo quindi l’ammanco dovuto all’utilizzo finale dei certificati, cioè lo sconto sulle imposte.

Un merito della proposta è che essa esplicitamente riconosce l’impraticabilità e i rischi di un’uscita unilaterale dall’eurozona e pertanto si preoccupa di trovare una soluzione “morbida”. I problemi però sono molteplici. In primo luogo i promotori danno per scontato che l’emissione di questa quasi-moneta non violi i Trattati. Ammesso che sia così, tuttavia è facilmente immaginabile che la Commissione europea chiami lo Stato a rispondere davanti alla Corte di giustizia. L’incertezza sull’esito farebbe precipitare il valore del CCF nei confronti dell’euro, rendendo via via meno efficace il programma. Ammettendo però di superare questo scoglio, un ulteriore problema è costituito dal fatto che i CCF andrebbero sommati allo stock del debito pubblico. Anche qui, i promotori insistono sostenendo che non sia un problema, ma la Commissione potrebbe porre comunque ostacoli che minerebbero la fiducia del pubblico.

In sostanza, i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione, né vedremmo economie che ruotano di fatto intorno a valute estere (basti pensare all’Islanda prima della crisi del 2008). Nella realtà la moneta legale, come qualsiasi moneta priva di valore intrinseco, è fiduciaria e quindi ha valore in base alla credibilità di chi la emette. Chi ha una banconota da 100 euro in tasca sa che c’è un impegno, da parte dell’emittente, a fare in modo che essa sia scambiabile tra un mese o un anno con un paniere di prodotti il cui valore reale sarà, nel peggiore dei casi, solo di poco inferiore a quello odierno (è questo il senso del target inflazionistico). O che, se non bassa, l’inflazione sia almeno stabile e perciò prevedibile. Viceversa i cittadini di paesi che sperimentano tassi di inflazione elevati e crescenti per lungo tempo, alla fine, perdono fiducia nella moneta legale esattamente come la perderebbero in un assegno firmato da un noto protestato, e si rivolgono alle monete emesse da soggetti più affidabili (tipicamente gli Stati Uniti). Sia chiaro, non si sta dicendo qui che l’Italia farebbe la fine dello Zimbabwe, ma semplicemente che un dubbio sul valore futuro dei CCF li renderebbe pressoché inservibili come stimolo alla domanda.

Supponendo tuttavia di superare a pieni voti il test dell’incertezza, si pone paradossalmente il problema della possibile tesaurizzazione dei CCF. Per quanto riguarda la parte utilizzata per i trasferimenti, il pubblico potrebbe semplicemente decidere di non spenderli, ma detenerli fino a quando potranno essere usati per pagare le imposte, peraltro l’unico momento in cui il valore dei CCF potrebbe essere considerato sicuro ed uguale a quello facciale. In tal caso, l’effetto moltiplicativo sarebbe nullo e lo Stato si troverebbe con un buco di bilancio imprevisto.

Non vogliamo tuttavia apparire troppo demolitori nei riguardi di questa proposta. Al contrario, essa contiene in nuce qualche buona idea che potrebbe essere effettivamente applicata. L’importante è non cadere nell’illusione di un keynesismo “meccanico” o “idraulico”, nel quale l’immissione di nuova acqua fa girare il mulino dell’economia, checché ne pensino gli agenti economici (per inciso, Keynes non era affatto un keynesiano “idraulico”).

Se la proposta dei CCF è prona alle critiche testé illustrate, a maggior ragione lo è quella immaginata da alcuni in caso i default di uno Stato all’interno dell’eurozona, seguito dall’emissione di “euro-cambiali” che verrebbero utilizzate come liquidità sostitutiva. Il modello spesso richiamato è quello dello Stato della California che nel luglio 2009, di fronte ad una grave crisi delle proprie finanze, emise delle “promesse di pagamento” (Registered Warrants) per pagare i dipendenti pubblici, i fornitori e coloro che vantavano diritti a rimborsi fiscali per 2,37 miliardi di dollari. L’esperimento non fu propriamente un successo: appena pochi giorni dopo l’emissione iniziale, le principali banche si rifiutarono di accettare questi “pagherò” (o come li chiamano gli americani, IOU, che sta per I Owe You, “io ti devo”). Solo dopo ingenti tagli di spesa e aumenti delle imposte decisi dallo Stato, alcune di esse tornarono sui loro passi e ricominciarono ad accettare i Warrants. Se l’operazione ha mostrato i suoi limiti in California, lo Stato con il reddito più alto nel paese più ricco del mondo, la speranza che funzioni in luoghi come i PIIGS è pressoché nulla, sebbene possa rivelarsi l’unica, disperata, opzione se non si vuole uscire dall’euro. In tal caso, si può immaginare che il pubblico possa dare fiducia agli IOU a seguito di un accordo europeo che dia una qualche certezza sul fatto che gli “euro-pagherò” si potranno trasformare in euro “veri” entro un tempo ragionevole. In caso contrario non si capisce come la gente possa dare valore a pezzi di carta che riportano una promessa di pagamento in euro firmati da un governo che ha appena dichiarato la propria insolvenza su debiti in euro.

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Replichiamo con piacere, su invito di MicroMega, ai commenti di Guido Iodice e di Thomas Fazi in merito al nostro progetto di Moneta Fiscale, da attivarsi mediante emissione di Certificati di Credito Fiscale (CCF). E ringraziamo Iodice e Fazi per l’interesse dimostrato al riguardo. Dobbiamo però notare che pare essere loro sfuggito un aspetto chiave della proposta. I CCF non sono titoli di debito: lo stato emittente non assume alcun impegno a rimborsarli in euro, ma solo ad accettarli a compensazione di pagamenti di imposte future, o di qualsiasi altra forma di pagamento ad esso (lo stato) altrimenti dovuti. Sono titoli che conferiscono a chi li riceve il diritto a uno sconto fiscale futuro; sono cedibili a terzi e sono convertibili in euro per essere spesi immediatamente. Chi li vende vuole spendere, chi li compra vuole usarli per abbattere le proprie tasse e accrescere le proprie risorse per consumi e investimenti.

I CCF non sono quindi IOU analoghi al caso californiano, né ai titoli emessi in altri contesti di tensioni finanziarie (un esempio ancora più noto è quello della crisi argentina del 2001). Non esiste nessuna fattispecie né teorica né pratica sotto la quale lo stato emittente possa essere costretto a non onorare (quindi a fare default) su un CCF.

La loro natura non-debitoria e non-monetaria è all’origine anche dell’ammissibilità dei CCF ai sensi di trattati e regolamenti UE. Se non sono debito, i CCF non sono neanche “legal tender” nel senso in cui lo è l’euro. Non sono moneta legale che debba essere obbligatoriamente accettata in tutta l’Eurozona, sebbene possano diventare sostituti della moneta, secondo che il pubblico e il mercato siano disposti ad accettarli in pagamento. Ma questo vale in linea di principio per qualunque titolo e non per questo mette in discussione l’euro come moneta legale. I CCF traggono il loro valore dalla dichiarazione unilaterale e volontaria di accettazione da parte del singolo stato che li emette. Non confliggono con il monopolio della BCE riguardo all’emissione di moneta legale ad accettazione obbligatoria.

Quanto all’affermazione che “i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse. Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione”: naturalmente qualsiasi attività di natura monetaria o quasi-monetaria può subire un depauperamento di valore al di sopra di certe soglie di emissione. Se i CCF venissero emessi in misura pari a un multiplo degli incassi annui dello stato (per esempio) italiano, passerebbero degli anni prima che il possessore riesca effettivamente a utilizzarli: ne seguirebbe una notevole perdita di valore. Ma le analisi numeriche ampiamente illustrate nell’ebook mostrano come l’Italia (ma vale anche per la Grecia) otterrebbe una forte ripresa della domanda e dell’economia con livelli di emissione annua che sono una frazione, non certo un multiplo, degli incassi sopracitati.

Riguardo poi al rischio di tesaurizzazione, questo è un dubbio applicabile a qualsiasi forma di azione espansiva attuata mediante incentivi alla spesa privata (riduzione di tasse o anche incrementi di trasferimenti, quali ad esempio le pensioni). Questo timore non inficia la validità del progetto: casomai può condurre a formulare l’azione espansiva allocando i CCF in maggior proporzione (rispetto a quanto già previsto nel progetto) a chi ha maggiori necessità di spesa, a chi ha una più elevata propensione al consumo e all’espansione della spesa pubblica con effetto diretto sul PIL (per esempio utilizzando i CCF a parziale finanziamento di opere di pubblica utilità).

Facciamo comunque notare che le azioni restrittive messe in atto in Italia (e in molti altri paesi dell’Eurozona) dal 2011 ad oggi hanno compresso la spesa privata (maggiori imposte e minori trasferimenti) più della spesa pubblica diretta. L’ipotesi alla base dell’”austerità espansiva” era che cittadini e aziende, pur trovandosi con meno soldi in mano, non avrebbero (se non marginalmente) compresso la loro spesa, grazie ai benefici effetti psicologici prodotti dalla constatazione che “i conti pubblici stavano tornando sotto controllo”.

Alla prova dei fatti, la “fata fiducia” (come la chiama Paul Krugman) si è rivelata una pura fantasia. Gli agenti economici, che poi sono, in ultima analisi, persone in carne ed ossa, si comportano in modo molto più semplice e lineare. Spendono meno quando hanno pochi soldi in tasca, e di più quando glieli rimetti e non li minacci di toglierglieli per altra via…

Il progetto CCF non ha nulla di magico. E’ l’applicazione di un concetto in definitiva intuitivo. Quando un sistema economico opera a livelli fortemente inferiori al suo potenziale (e soffre di conseguenza di disoccupazione massiccia e di rischi di deflazione), il recupero di domanda, produzione e occupazione è ottenibile (senza alcun rischio per la stabilità finanziaria e monetaria) immettendo potere d’acquisto, direttamente nella disponibilità degli agenti economici. Stampando moneta (o un suo equivalente) o emettendo strumenti che generano potere d’acquisto. In tal senso, i CCF creano capacità di spesa immediata e la conferiscono a chi quella spesa ha maggiore necessità di effettuarla. Si tratta di uno strumento direttamente destinato a incrementare la domanda e a ridurre significativamente la fiscalità che grava sulle famiglie, i lavoratori e le aziende (ottenendo così anche un recupero di competitività ed evitando squilibri nei saldi commerciali esteri).


Biagio Bossone e Marco Cattaneo


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