da Keynes Blog
La rivoluzione teorica di
Blanchard, la trattativa tra Grecia e creditori, il ruolo delle
politiche fiscali e monetarie, il destino dell’eurozona. Francesco
Saraceno, economista italiano del prestigioso Osservatorio sulla
Congiuntura (OFCE) di Parigi, risponde a tutto campo alle domande di
Keynes blog.
Intervista di Faber Fabbris per Keynes Blog
Cominciamo dal tuo articolo sul
riconoscimento degli ‘errori’ del Fondo Monetario Internazionale,
ammessi da Blanchard, suo economista capo (Correlazione tra deregulation
del mercato del lavoro e crescita; impatto dei moltiplicatori, e così
via). Paul Krugman ha recentemente rinviato proprio a questo tuo lavoro
sul suo blog The conscience of a liberal.
Il corpus dottrinale dell’FMI -al
di là dell’episodio dell’Excelgate- pare insomma incrinato in più
punti. Le autocritiche di Blanchard sono, a tuo avviso, un incidentale
‘mea culpa’ senza conseguenze, o ci possiamo aspettare una nuova
stagione nel corso delle politiche economiche?
No, non mi pare un incidente di percorso.
Credo che un cambiamento di paradigma stia cominciando a delinearsi.
Alcuni sono stati scettici rispetto alle ‘revisioni’ che ho allineato,
ribadendo che in sostanza, l’FMI non cambia affatto il suo modus
operandi, nonostante le correzioni di rotta teoriche. Si veda ad esempio
l’atteggiamento del fondo nella questione greca. In realtà le cose sono
più articolate, e proprio nel caso della Grecia l’FMI ha giocato anche
il ruolo del “good cop”, ammettendo esplicitamente che il debito di
Atene dovrà in qualche modo essere ristrutturato. Non bisogna d’altra
parte dimenticare che Blanchard non è il direttore esecutivo dell’FMI,
ma il capo del suo centro studi: i suoi interventi riflettono le
difficoltà oggettive che il Washington Consensus ha incontrato negli
ultimi dieci anni, soprattutto dopo la crisi del 2008. Credo, come ho
detto in quell’articolo, che il realismo abbia imposto di rivedere
alcuni capisaldi della dottrina politica economica che ha dominato
l’Europa nel ventennio 1990-2010, e il resto del mondo fin dai primi
anni ottanta.
Oltre alle correzioni di rotta
sull’austerità espansiva e sui moltiplicatori -correzioni consensuali e
difficilmente discutibili in un contesto estremo come quello della crisi
– mi paiono anche più importanti le novità dell’approccio sulla
crescita di lungo periodo. La prima è riconoscere che non tutte le
liberalizzazioni sono uguali, e che in particolare quella del mercato
del lavoro non produce gli effetti che la teoria prevede. La seconda è
ammettere l’insostenibilità della dicotomia tra redistribuzione ed
efficienza economica: una società nella quale il reddito è distribuito
in maniera sempre più ineguale non è destinata ad una crescita duratura e
sostenibile.
Questi sono due pilastri fondamentali del Washington consensus, che oggi cominciano a sfaldarsi.
La qualità del riorientamento in atto mi pare possa essere colta da un tangibile cambiamento di narrativa.
Se cambia la narrativa, credo si giustifichi anche la speranza in un
cambiamento delle politiche economiche. L’FMI aveva fino a ieri un
discorso intellettuale che implicava precise prescrizioni di politica
economica. Se è vero che queste prescrizioni non sono ancora cambiate,
il “discorso” è ormai radicalmente diverso. Le ricette applicate sinora
perdono gradualmente le loro fondamenta teoriche.
Ogni cambiamento di paradigma di politica
economica necessita un preventivo cambiamento di paradigma
intellettuale. E anche se è presto per stabilirne limiti e conseguenze,
penso che Blanchard abbia avviato un cambiamento di paradigma
intellettuale.
Questo ‘nuovo corso’ si può
forse collocare in un contesto politico-storico ben definito: le
politiche economiche degli Stati Uniti in tempo di crisi sono state
molto più vitali ed efficaci rispetto a quelle europee…
Questa differenza di approccio non data
da oggi. Il mio coautore Fitoussi diceva che gli Stati Uniti sono i più
grandi produttori al mondo di pensiero liberale: ma non per il consumo
interno, prevalentemente per le esportazioni. Il quadro delle
istituzioni politiche e sociali, ma anche economiche, degli USA è molto
meno protettore di quello europeo (il Welfare state è molto meno
sviluppato) e questo va di pari passo con un attivismo nella politica
economica molto più marcato. Non è concepibile un meccanismo senza
ammortizzatori sociali e nel quale la politica è inerte, perché non
sarebbe capace di assorbire le fluttuazioni economiche. L’Europa aveva
in passato meno bisogno di politiche attive perché possedeva un sistema
di protezione sociale molto più sviluppato. L’indebolimento dello stato
sociale al quale assistiamo in Europa richiederebbe quindi una ben più
rapida capacità di reazione delle politiche pubbliche. Ma non è quello
che stiamo facendo.
Le dimissioni di Blanchard – che
ha annunciato di lasciare anzitempo il suo mandato – non sono a tuo
avviso la spia di dissensi più profondi?
Non credo; penso ci sia stata una buona
sintonia fra Blanchard ed i direttori del FMI (Strauss Kahn e poi
Lagarde). Si tratta di scelte personali: ha vissuto sette anni sul bordo
del precipizio, credo voglia prendere un po’ di tempo per dedicarsi più
serenamente alla ricerca e agli studi. Si è di recente interessato alla
stagnazione secolare, e immagino desideri approfondire questo tema di
studio. Ha mobilitato un gruppo di ricercatori di valore su temi
importanti spingendoli a liberarsi dei loro paraocchi. È un gruppo di
lavoro che continuerà sulla strada tracciata.
Parliamo delle politiche
monetarie a livello internazionale, e più in generale della ‘trappola
della liquidità’. La banca di Svezia ha istituito un tasso di sconto
negativo da gennaio; il Giappone fa una politica monetaria molto
aggressiva. C’è la sensazione che si sia dovuti arrivare alle soglie
della deflazione, almeno a livello Europeo, per rivedere le scelte fino a
ieri intangibili . La BCE ha infine lanciato il QE, a lungo atteso e
forse ormai inevitabile. Malgrado ciò, si teme da più parti che il QE
finisca per alimentare bolle speculative se manca un piano di
investimenti industriali. Ci sono spazi perché il QE spinga anche ad un
nuovo ciclo di investimenti industriali, o ci si è arrivati correndo ai
ripari rispetto alla paura della deflazione?
Rileggendo Keynes ci si rende conto che
nulla di quello che sta succedendo è sorprendente. La definizione della
trappola della liquidità è quella secondo la quale esiste, in un certo
momento e per cause diverse, una propensione elevate del settore privato
ad assorbire liquidità senza spendere; in una situazione di questo
tipo, è assolutamente normale che una politica monetaria espansiva non
abbia effetti diretti sull’attività economica. Chi si sorprende che il
QE non abbia rilanciato l’attività economica (sia in Europa, in Giappone
o negli USA) non conosce l’economia. Perché allora lanciare il QE,
anche alla luce dei rischi di bolle sugli assets? Vedo tre ragioni, due
‘buone’ e una ‘cattiva’.
La prima è che è necessario disporre di
liquidità sufficienti per non essere sguarniti al momento della ripresa;
il QE permette anche di calmierare i tassi sui titoli dei debiti
sovrani dei paesi della periferia dell’euro. La terza ragione è che il
QE ha un effetto positivo sulla competitività poiché agisce sul tasso di
cambio: la FED ha permesso, indebolendo il dollaro, di favorire le
esportazioni. Quest’ultimo obbiettivo mi pare però meno lungimirante
degli altri due, perché un’economia solida dovrebbe basarsi soprattutto
sulla domanda interna, piuttosto che sulle esportazioni.
Malgrado gli intenti positivi di questi
indirizzi, in presenza di una trappola della liquidità la vera leva per
il rilancio dell’attività economica è -Keynes docet- la politica
fiscale. È proprio qui che divergono le politiche di UE, Stati Uniti e
Giappone: in Europa, dal 2010, è stata abbandonata qualsiasi politica
fiscalmente espansiva, e si è messa al contrario in opera una stretta
delle spese, mirando ad un aumento delle entrate (consolidamento
fiscale). L’assenza di uno stimolo fiscale degno di questo nome spiega
in gran parte le differenze di performance economica fra l’Europa e gli
USA o il Giappone.
Ovviamente si tratta di uno stimolo
fiscale, che deve essere limitato nel tempo per essere efficace. Gli
Stati Uniti hanno applicato politiche fiscali anticicliche nel periodo
della crisi, che sono state prontamente rimodulate quando la spesa
privata è ritornata a livelli più elevati. Si tratta di una
compensazione elastica, per la quale il settore pubblico entra
nell’economia quando il sistema privato fa difetto, e si ritira quando
il settore privato è pronto a rientrare. Si può discutere della
tempistica del piano di rilancio di Obama Probabilmente si è cambiata la
fiscal stance troppo presto, quando la spesa privata non era ancora
sufficientemente solida. Se il congresso non fosse stato in mano ai
repubblicani e se Obama fosse stato un po’ più volitivo, si sarebbe
forse lasciato più spazio al rafforzamento della ripresa. Ma si tratta
di aspetti tutto sommato marginali. Rimane il fatto che la politica
fiscale statunitense ha fatto il suo dovere.
È il principio di base di una politica economica anticiclica…
Si, era quello lo spirito originario della
proposta di Keynes. Contrariamente a quello che pensano molti
conservatori, Keynes non auspicava un big government, ma un active government;
è quello che accade negli Stati Uniti, proprio perché manca un sistema
di stabilizzatori automatici radicato, come lo stato sociale europeo. La
vera questione in Europa -tuttora inevasa- è quella delle politiche
fiscali, ben più che quella monetaria. La BCE opera in questo quadro, e
la sua azione ne è intrinsecamente limitata: sono sicuro che Draghi
sarebbe ben contento di non fare quello che sta facendo. Ma non lo può
dire. E se fosse stato meno attivo, oggi la zona euro non esisterebbe
più.
Sulle politiche fiscali si scorge in Europa una qualche eccezione, c’è qualche governo che sta provando ad alzare la testa?
No, nessuno. Qui tra l’altro giace la più
grande mistificazione del dibattito politico italiano: su questo
versante Renzi non sta cambiando nulla. La fiscal stance oscilla fra
neutrale e recessiva. È vero che i tedeschi stanno -con estrema
riluttanza- introducendo qualche cambiamento, penso in particolare al
salario minimo; si può sperare in una tendenza al recupero della domanda
interna, ma largamente insufficiente a compensare gli squilibri che si
sono prodotti finora. I paesi periferici restano in una completa inerzia
fiscale, chi più deliberatamente (Spagna e Portogallo) chi meno
(l’Italia). Ma globalmente non c’è capacità o volontà ad agire su questo
terreno, restiamo in un quadro di politiche fiscali non aggressive. È
la lezione più deprimente dei negoziati di queste ore: L’Europa non ha
cambiato verso. Nemmeno un po’.
Non è un caso che i negoziati in
corso tra la Grecia e “le istituzioni” sembrino incagliarsi proprio
sulle richieste di aumento dell’IVA, per definizione l’imposta che più
nuoce alla domanda interna. Quale è il tuo apprezzamento del negoziato
in corso?
Al di là del dettaglio delle misure
dibattute (circolano in questo momento varie ipotesi, ed è difficile
precisare i contorni dell’accordo eventuale), credo si possa nutrire,
nella vicenda della trattativa greca, un moderato ottimismo. Fin
dall’inizio dei negoziati mi è sembrato che ci fossero un problema
reale, ed uno falso, “di facciata”. Il falso problema è il debito:
perché tutti sanno che la Grecia non ripagherà il suo debito pubblico
(sul rimborso del quale sussiste d’altronde una moratoria). E che questo
non sia il problema è ugualmente noto a tutti, perché si tratta di
cifre -alla scala europea- insignificanti: il debito greco ammonta a
circa il 2% del PIL dell’UE. Su questo falso problema si è concentrata
tutta l’attenzione.
C’è poi il vero problema, sul quale
qualche progresso è stato fatto: il riconoscimento che politiche
recessive non sono più giustificabili né sostenibili. La Grecia aveva
subìto -con il consenso dei governi conservatori e filoausteritari- un
piano di rientro dal debito palesemente inapplicabile, a colpi di avanzo
primario dell’ordine del 3% – 4%. Su questo c’è stato un consenso tra
la Grecia e i creditori, ed è un punto sul quale nessuno osa più
insistere. Credo che il governo greco, e il ministro delle finanze in
particolare, sia stato molto abile su questo punto. Varoufakis ha
deliberatamente continuato a distrarre l’opinione pubblica ed i
negoziatori con la questione del debito, mentre il tema cardine era
l’obbiettivo di avanzo primario, sul quale è riuscito ad ottenere
importanti concessioni [nel documento del 20 febbraio si parla
genericamente di ‘avanzo primario adeguato’, e le ipotesi sul tavolo
sono a meno dell’1% per il 2015, n.d.r.]. Un obbiettivo di avanzo
primario più realistico consente nuovi spazi di manovra per politiche
fiscali che aiutino la ripresa. Se le ipotesi che circolano dovessero
concretizzarsi, la Grecia abbandonerebbe politiche fiscali
catastroficamente recessive per posizionare il cursore, se non in
terreno positivo, almeno prossimo alla neutralità. Si tratterebbe di
un’ottima notizia. In qualche modo il governo greco costituirebbe la
prima, emblematica eccezione all’inerzia dei governi dell’eurozona di
cui parlavamo prima.
Il moderato ottimismo è peraltro temperato
dall’insistenza della Troika su alcune misure simboliche su cui la
Grecia non può cedere, a rischio di mandare all’aria il negoziato. Penso
in particolare ad ulteriori tagli a salari e pensioni. Proprio alla
luce delle considerazioni con cui abbiamo iniziato la nostra
chiacchierata, quest’insistenza ha il sapore di una tardiva aderenza di
Berlino e Bruxelles a quel Washington Consensus che oltreatlantico è
ormai moribondo. Paradossi europei…
Attraversiamo -almeno in Europa-
una fase di disoccupazione con deflazione, ambito nel quale la teoria
keynesiana classica è a proprio agio (agio teorico, beninteso).
Situazione ben diversa dalla stagflazione anni ’70, che non poco
contribuì alla crisi -teorica e pratica- delle politiche della domanda.
In questo quadro, esistono secondo te le condizioni per una convergenza
delle diverse scuole keynesiane? Magari con settori del non-mainstream, o
degli anti-neoclassici?
Temo di no, perché mi pare prevalga la
dimensione autoreferenziale di certi ambienti intellettuali. Credo però
ci sia oggi la possibilità di contrastare la teoria classica standard,
supply side; senza necessariamente opporrle una teoria unificata
(obbiettivo troppo ambizioso), ma con approcci multilaterali.
Personalmente sono molto interessato alla riflessione sulla ‘stagnazione
secolare’, che spiega come possa sussistere una condizione di
equilibrio di sotto-occupazione di lungo periodo, per effetto congiunto
di offerta e domanda. Questo equilibrio può essere analizzato a partire
dal ‘rallentamento’ del progresso tecnologico, o dalle dinamiche
demografiche (in un’ottica neoclassica, alla Solow); o a partire dalla
distribuzione del reddito, dell’eccesso di risparmio (in un’ottica più
progressiva, demand-side).
Oggi ci sono le condizioni per sfidare
le teorie e le politiche economiche del Washington Consensus,
dimostrando che il mondo ideale degli equilibri di mercato ‘automatici’
non ha niente a che vedere con la realtà, e che la domanda e l’offerta
possono equilibrarsi in regime di sotto occupazione sul lungo periodo.
Questo vuol dire che c’è bisogno di attuare politiche non neutrali.
Se mi chiedi se questo avverrà perché si
metteranno tutti d’accordo : neo-keynesiani, post keynesiani, post-post
keynesiani, marxisti, con i kaleckiani… la risposta è che ho i miei
dubbi. Ma c’è spazio per un superamento definitivo della teoria
mainstream, che sarà sostituita da un mondo intellettualmente
multipolare. Non è detto che sia un male…
Questo pone una questione
ricorrente e delicata nella storia del pensiero progressista in
generale: hanno più peso i rapporti di forza sociali o le
rappresentazioni intellettuali che la politica crea per agire su di
essi? Accade anche che le dinamiche si sovrappongano: il 1936 è l’anno
in cui Keynes scrive la General Theory, ma anche quello in cui
Léon Blum che istituisce le ferie pagate e la settimana di 40 ore, esito
di una straordinaria spinta sociale.
Credo che i mutamenti intervengano quando
si affiancano contributi di diverso tipo. Citavi il pensiero marxista.
Nell’analisi della stagnazione secolare, l’analisi di tipo marxista
gioca un ruolo importante: rimettere in discussione l’approccio
‘individualista’ della teoria neoclassica, che basa tutto sull’agente
razionale, capace di ottimizzare, e riconsiderare invece il ruolo delle
classi, dei rapporti di forza, delle emergent properties, (cioè
dinamiche sociali non riconducibili ad un ‘agente rappresentativo’ o ad
un ipotetico comportamento individuale) porta un contributo
potenzialmente molto ricco a questo dibattito.
Non saprei però dire quanto facilmente
saranno superati alcuni ‘compartimenti’ fra le diverse tendenze
critiche. La battaglia per esportare certe idee al di fuori degli ambiti
specialistici è ancora lunga.
Anche alla luce delle attuali
tensioni sulla Grecia, c’è da sperare che siano gli eventi a influenzare
le teorie, piuttosto che il contrario…
Sì, ritengo che oggi -come negli anni ’30,
e come nell’Europa che descriveva Marx- emergano delle contraddizioni
nel sistema e nelle teorie che lo giustificano. Contraddizioni che
impongono un ripensamento, ma non necessariamente di buttare alle
ortiche tutti i capitoli della teoria neoclassica. Non ritengo assurdo
che sul lungo periodo i fattori legati all’offerta giochino il loro
ruolo. Né che un economista neoclassico osservi che la produttività
della Grecia è oggi insufficiente.
La produttività è un tipico
esempio di un parametro che può essere letto in chiave neoclassica, ma
anche, e in tutt’altra ottica, in prospettiva keynesiana…
Infatti se ne può auspicare un aumento
senza aggiungere il corollario delle ‘riforme stutturali’, ma
promuovendo ad esempio l’investimento in ricerca, la qualità della
formazione, e così via.
La stessa Germania, che si presenta come
campione delle virtù neoclassiche, è in realtà lontana da quel modello:
ha un sistema bancario molto poco trasparente, sindacati forti e
consociativi, e così via. È un modello che nel suo insiemè è piuttosto
lontano dal paradigma del libero mercato, ma che ha una sua efficacia.
Si può avere un livello elevato di produttività, senza obbedire alle
prescrizioni dell’ideale economico conservatore. Anzi, alcuni economisti
come Sebastien Dullien notano come le riforme Hartz abbiano avuto
l’effetto di introdurre delle crepe nella poderosa, ed efficiente,
macchina consociativa tedesca. Se Dullien ha ragione, fra qualche anno
potremmo ritrovarci a parlare del fallimento del modello economico
tedesco.
Varoufakis all’Ambrosetti ha
riproposto un’analisi di Kaldor del 1971: una unione monetaria sarà
insostenibile senza uno strumento politico di livello continentale. Non
ci possiamo permettere una Banca Centrale splendidamente indipendente,
senza avere strumenti di leva fiscale, e senza indirizzi sulle politiche
economiche, che spetterebbero ad un governo unico. La
sua proposta è di agire entro i trattati esistenti tramite fondi della
Banca Europea per gli Investimenti, coperti dalla BCE, senza finanziare
direttamente gli stati. Secondo te, è un sistema efficace per compensare
gli squilibri di partite correnti all’interno dell’eurozona?
Fra i contributi importanti della
teoria neoclassica c’è proprio l’indipendenza delle politiche monetarie
come fattore di stabilità del sistema economico. In questo senso,
contesto una premessa della proposta di Varoufakis: non credo che il
problema sia tanto un eccesso ‘di indipendenza’ della BCE, ma piuttosto
la assenza totale di un governo, che la equilibri adeguatamente (senza
arrivare ad un ‘controllo politico’). La FED è indipendente, ma ha un
interlocutore di peso che è il Congresso, è una differenza essenziale
rispetto all’Europa. Cito un articolo di Roberto Tamborini di qualche
anno fa, a proposito dell’eurozona: “Un gigante monetario e dodici nani
fiscali”.
Il problema è proprio qui: un attore di
peso che si occupa di moneta, senza interlocutore. Draghi potrebbe
parafrasare Kissinger e dire “datemi un numero di telefono, e li
chiamo”. Per il momento ha quello della Merkel.
La soluzione ideale -credo oggi molti ne
convengano- sarebbe quella di uno stato federale, ma le premesse
politiche per un tale livello d’intesa mancano tutte. Bisogna quindi
creare un qualche ersatz che la rimpiazzi, e in questo senso la proposta
di Varoufakis è interessante, e vale ben più che una provocazione.
Resta da definire chi gestirebbe questi investimenti, e con quali
criteri, ma mi pare sia percorribile e ambiziosa.
Il ruolo della politica fiscale è doppio:
prima di tutto stabilizza il ciclo economico, là dove la politica
monetaria non può arrivare. In Europa, una politica monetaria
necessariamente unica non può gestire cicli asimmetrici; non può
intervenire nel caso di un boom in Spagna e una contemporanea recessione
in Germania. L’ideale sarebbe un sistema federale (con prelievi e spese
a livello federale), che agisca nel senso di una ridistribuzione
automatica delle entrate: l’esempio classico è quello -evocato da
Krugman- della Florida che con le sue tasse ‘aiuta’ lo stato di New York
in recessione.
In assenza di questi meccanismi, si
possono immaginare soluzioni diverse, ma con lo stesso scopo. Per
esempio, la commissione europea propose nel novembre 2013 l’istituzione
del sussidio di disoccupazione europeo, che potrebbe giocare proprio in
questa direzione: i paesi con più disoccupati percepirebbero di più,
mentre i paesi con i tassi di occupazione più alti verserebbero fondi
maggiori. Un meccanismo di perequazione indiretta, analogo a quello
fiscale.
Anche l’erogazione di fondi strutturali
legati alle fasi di ciclo economico -pur con un approccio più complesso-
può operare in compensazione di un sistema unico di prelievi.
In secondo luogo, la politica fiscale può
incentivare lo sviluppo di lungo periodo: investimento pubblico, fondi
strutturali, per compensare gli scarti di sviluppo fra diverse aree del
continente. La proposta di Varoufakis si inserisce in questo secondo
filone. Resta da vedere come priorizzare e scegliere i progetti che la
BEI finanzierebbe.
Juncker ha per esempio scelto di evitare
un approccio per ‘quota paese’ -che è in linea di principio una buona
idea. Il rischio è però che ‘buoni’ progetti (per rendimento,
obbiettivi, rischi) emergano più facilmente in aree già economicamente
avanzate, o con infrastrutture solide, che nelle regioni periferiche. E
questo rischierebbe di accentuare le divergenze.
Insomma, per quanti surrogati si riescano ad escogitare, l’assenza di un governo federale sarà sempre un handicap.
Il blog di Francesco Saraceno è fsaraceno.wordpress.com | Twitter @fsaraceno
venerdì 12 giugno 2015
Intervista a Francesco Saraceno: “Sta cambiando la narrativa dell’economia ma non nella politica europea”
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