giovedì 9 febbraio 2012

L'obbedienza civile dei beni comuni


da Facebook

Dopo l'importante appuntamento di Napoli promosso dal sindaco Luigi De Magistris, svoltosi sabato 28 gennaio tra il Teatro Politeama e il Maschio Angioino, dove amministrazioni comunali, movimenti sociali, cittadine e cittadini si sono incontrati per discutere e riflettere sui temi dei beni comuni, della sostenibilità, del lavoro e della democrazia partecipativa, e stimolati in particolare dalla lettura dell'articolo di Alberto Lucarelli dal titolo «La disobbedienza dei beni comuni» («il manifesto», 16 dicembre 2011), i rappresentanti delle comunità locali sono chiamati a fornire un contributo. Un contributo che possa arricchire il dibattito non solo e non tanto sul bene comune e sui beni comuni, quanto sulla necessità di sperimentare nuove forme di democrazia e introdurre alternative politiche e sociali. 
Nel suo articolo, Lucarelli, attraverso riflessioni di natura politica e argomentazioni di carattere giuridico, rilancia la proposta del sindaco partenopeo di costruire una Rete dei Comuni per i beni comuni. Che i Comuni italiani debbano potersi ritrovare sui temi di interesse generale per lanciare una piattaforma di valori condivisi e, soprattutto, di proposte politiche da attuare a livello nazionale, è questione da ritenere, prima ancora che condivisibile, auspicabile, se non necessaria. 
Considerata inoltre la situazione di grave crisi nella quale versano le istituzioni e le forme classiche della rappresentanza di matrice liberaldemocratica, è davvero giunto il momento di promuovere con vigore e convinzione un progetto politico e culturale che parta dal basso. Che unisca nel rispetto reciproco e nella condivisione delle scelte per un possibile, concreto e reale cambiamento amministratori, mondo del lavoro e portatori di interessi diffusi e collettivi. 
Prima di entrare nel merito della proposta, sarebbe opportuno ricordare e al contempo fare presente che nella penisola ci sono comunità, perlopiù di piccole dimensioni (l'Italia per il 70% è costituita da piccoli Comuni sotto i cinquemila abitanti), amministrate da uomini e donne che denotano grande senso civico e spirito repubblicano. Amministratori che operano con passione, trasparenza e buonsenso all'insegna del bene comune e del cambiamento. Senza tema di cadere in errore o, peggio ancora, di dare prova di non saper leggere o interpretare la realtà politica, è possibile affermare che il cambiamento è già in atto, attraverso la diffusione di buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale. 
Dal 2005 l'Associazione nazionale dei Comuni virtuosi, nata per volontà di quattro amministrazioni comunali, quelle di Monsano, Colorno, Vezzano Ligure e Melpignano, si pone come obiettivi la diffusione delle buone prassi amministrative, la promozione della bioeconomia, la tutela della natura, del paesaggio e del territorio, l'introduzione di nuovi stili di vita, la difesa dei beni comuni, materiali e immateriali. Per che cosa? Sulla base di quali prospettive? Per migliorare la qualità della vita e creare le condizioni favorevoli al fine di poter vivere in comunità aperte, inclusive, solidali e profondamente democratiche. Ora, ma solo per portare un piccolo esempio, nel Comune di Corchiano (Viterbo) - tra i fondatori del Coordinamento Enti locali per l’acqua bene comune e la gestione pubblica del servizio idrico, della Rete nazionale Rifiuti zero e, con Riccardo Petrella, della Rete europea delle città e dell’acqua -, dove chi scrive ricopre la carica di vicesindaco, si percorre da oltre cinque anni la strada di uno sviluppo sostenibile e attento alle vocazioni territoriali in virtù della diffusione di piccole e grandi buone pratiche, soprattutto partecipative. 
Senza partecipazione e condivisione non vi sarebbe infatti democrazia. Una democrazia che vada tuttavia oltre la delega e la rappresentanza, caratteristiche ormai del tutto asfittiche e inadeguate. Le classi dirigenti devono avere il coraggio di cedere autorità e autorevolezza per consentire ai cittadini e alle associazioni di partecipare attivamente, da protagonisti, alla vita politica delle comunità. Nei territori, ad esempio, si sperimenta con successo come la partecipazione nelle scelte di governo sia fondamentale per condividere e programmare percorsi di valorizzazione del paesaggio e del tessuto urbano al fine di armonizzare la natura con l’abitare. Pertanto, grazie alla partecipazione, è possibile introdurre un nuovo modello dello stare insieme ovvero un paradigma politico e sociale alternativo, basato sulla difesa ma soprattutto sul rilancio dei beni comuni. 
La partecipazione, pratica invero non del tutto semplice, anzi, complessa, sottende necessariamente un percorso educativo e autoeducativo, fondato sul rispetto dell’altro, sul dialogo incessante, sulla riflessione. Solo così possono o potrebbero scaturire proposte condivise per la gestione del proprio territorio. Nella rete dei Comuni virtuosi è possibile trovare innumerevoli esempi e testimonianze di come questo sia possibile, di come le buone pratiche siano in grado di modificare comportamenti e mentalità. Tra queste, la raccolta differenziata dei rifiuti porta a porta, il compostaggio, le energie rinnovabili, la bioedilizia, la strategia rifiuti zero mediante riduzione, recupero, riciclo e riutilizzo dei materiali, le case dell’acqua pubblica, le botteghe dove comprare sfuso, in particolare prodotti biologici e a km 0, le case del latte fresco, la banca dei semi per salvaguardare le sementi autoctone e della tradizione rurale, così come le banche della memoria o del tempo, luoghi, fisici e virtuali insieme, dove poter raccogliere e restituire alla collettività, in particolare ai più giovani, saperi e memorie. Per non parlare di tutte quelle esperienze di socialità diffusa, come ad esempio i gruppi di acquisto solidale o gli orti sociali e urbani, che favoriscono, dove possibile, l’autoproduzione dei beni e lo scambio dei servizi sottraendoli al mercato per una società della sobrietà. E ancora, la realizzazione di biodistretti rurali come di parchi naturalistici e archeologici per tutelare biodiversità, colture e testimonianze del passato. 
Non meno importante la questione urbanistica e del consumo di territorio, che nell’ultimo ventennio ha assunto proporzioni preoccupanti. Soltanto negli ultimi 15 anni, circa 3 milioni di ettari, destinati un tempo all’agricoltura e all’allevamento, sono stati preda di asfalto e cemento: edilizia privata, zone artigianali, industriali e commerciali, grandi opere. Questo consumo di suolo si è trasformato spesso in puro spreco, con migliaia di capannoni vuoti e case sfitte. Non solo, questa crescita senza limiti considera il territorio una risorsa inesauribile, con risultati devastanti: dove esistevano identità municipali, oggi si trovano solo immense periferie urbane e quartieri dormitorio. Al punto in cui si è arrivati, per chi riveste ruoli di responsabilità di governo negli Enti locali è doveroso seguire strade alternative, partendo da piani regolatori partecipati e condivisi. Occorre quindi una politica urbanistica ispirata al principio del risparmio di suolo e alla crescita zero, che punti sul recupero, sulla ricostruzione e sulla ristrutturazione, anche e soprattutto energetica, del patrimonio architettonico ed edilizio esistente. Non può essere più consentito che il suolo ancora non cementificato sia utilizzato come moneta corrente per i bilanci comunali. Bisogna dunque cambiare strategia, altrimenti in meno di 50 anni una buona parte del territorio nazionale rimasta naturale sarà urbanizzata e conurbata. 
Tutto questo immenso patrimonio di buone pratiche e testimonianze di comunità virtuose, figlio del "pensare globale, agire locale", deve necessariamente essere messo a disposizione di un vero progetto politico di respiro nazionale, che saldi sostenibilità ambientale, lavoro, diritti, welfare e democrazia. 
Democrazia? Come recentemente scritto da Donatella della Porta nel suo ultimo saggio intitolato «Democrazie», la «definizione di democrazia è mutevole nel tempo». Si tratta infatti di un «processo permanente di definizione e ridefinizione» in quanto si possono trovare varietà e intrecci di forme: liberale, partecipativa, deliberativa e partecipativa-deliberativa. Su questi terreni la politica e i movimenti sociali sono chiamati a misurarsi e, soprattutto, svilupparsi. In particolare sulla pratica della democrazia partecipativa e deliberativa. La democrazia non può esaurirsi nel momento dell'assunzione di una decisione o, nella peggiore delle ipotesi, attraverso un voto a maggioranza. Quello democratico deve essere invece un processo complesso e dinamico, dove, nel riconoscimento del conflitto, il confronto incessante e la conseguente trasformazione delle opinioni diventano elementi non secondari per la formazione di nuove identità. A tale proposito, alcune realtà amministrative locali si configurano già come laboratori di democrazia diretta e partecipativa. 
I Comuni per la loro essenza giuridica e politica potrebbero infatti costituire un modello alternativo di democrazia. Occorre, dunque, che ai Comuni sia consentito di svolgere le funzioni previste dalla Costituzione repubblicana, coerentemente alle disposizioni sulle autonomie locali e sul decentramento amministrativo, di potersi indebitare per finanziare opere, beni e servizi, di pretendere che la Cassa depositi e prestiti torni a operare nell'interesse degli Enti locali al di fuori di qualsiasi logica di mercato investendo nelle infrastrutture territoriali. Fondamentale poi risulta la gestione diretta dei beni comuni ovvero dei servizi pubblici locali, a partire da quello idrico, attraverso la costituzione di società di diritto pubblico, al fine di rendere le comunità protagoniste del proprio destino, allontanando così i frutti avvelenati di un trentennio di politiche neoliberali e liberiste basate su liberalizzazioni, privatizzazioni e sottrazione di spazi collettivi. Proprio su questo terreno i Comuni dovranno presto far sentire la loro voce. Dopo lo straordinario risultato referendario del 12 e 13 giugno, dove 27 milioni di cittadini si sono espressi contro qualsiasi gestione privatistica dell'acqua, il governo nel mese di agosto, prima con il decreto 138, poi con la legge 148, ha reintrodotto criteri di privatizzazione forzata nell'ambito dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, eccezion fatta per quello idrico. Ora il governo "tecnico" vorrebbe estendere le abrogate disposizioni del Decreto Ronchi anche alla gestione dell'acqua, certificando il tradimento della volontà popolare e violando la legge fondamentale dello Stato. 
Che cosa fare a questo punto? Promuovere una forte campagna di disobbedienza? Di sicuro bisogna aprire una grande stagione delle proposte e della fermezza all'insegna dell'obbedienza civile. Non disobbedienza, bensì obbedienza, poiché i Comuni, essendo del resto realtà costituenti la Repubblica, non possono non rivendicare il rispetto della volontà referendaria, delle leggi e soprattutto della Costituzione. Considerato dunque il momento storico e politico, caratterizzato, come sostenuto, sia dalla crisi del modello della democrazia rappresentativa, sia dal fallimento delle politiche economiche fin qui adottate, è necessario predisporre, attraverso il confronto tra amministratori e movimenti, un progetto politico che, partendo dalle comunità e dai territori, abbia la forza di mettere insieme una pluralità di soggetti attorno a una idea di società basata sulla partecipazione, sulla difesa dei beni comuni e dei diritti collettivi, non dimenticando la centralità del lavoro.

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