Ritengo questo articolo fondamentale e non solo per come viene trattato il problema specifico relativo all'occupazione del Teatro Valle di Roma e della Torre Galfa di Milano, ma soprattutto perché finalmente il diritto di proprietà, e direi il diritto in generale, viene ricondotto ad una dialettica in seno alla società. Non sta scritto in nessuna tavola dei comandamenti che la proprietà di un bene sia tale per diritto divino e qualora esistesse un tale comandamento sarebbe un buon motivo per violarlo.
Ugo Mattei da soggettopoliticonuovo
Analogie e differenze tra l’esperienza del Teatro Valle di Roma e
quella della Torre Galfa di Milano secondo il dettato costituzionale
Aun anno dalla occupazione del Teatro Valle di Roma vale la pena di
riflettere sul senso costituzionale di una strategia politica, quella
della riconquista dei beni comuni artistici, che sta articolandosi in
tutto il paese e che mi pare costituisca lo specifico italiano della
lotta globale di liberazione dei popoli contro la follia neoliberale. Il
recente sgombero della Torre Galfa di Milano riapre in modo prepotente
la discussione sul rapporto fra legalità e legittimità, nonché quello
fra il potere formalmente costituito, la forza costituente dei beni
comuni e la sua compatibilità con la democrazia rappresentativa e con la
struttura proprietaria oggi dominante. Alcune questioni giuridiche di
diretta rilevanza politica sono sul tappeto e vanno affrontate anche in
vista delle prossime occupazioni che, adeguatamente puntellate sul piano
giuridico e politico, anche tramite la trasformazione della
soggettività (e si legga qui in chiave sovversiva il manifesto di Alba),
devono necessariamente intensificarsi. Le occupazioni sono oggi il solo
strumento idoneo a mettere all’ordine del giorno il grido d’allarme per
una democrazia messa in crisi dal governo tecnico e dalla sospensione
emergenziale della sovranità politica. Infatti, il dispositivo
biopolitico totalizzante rende inutili le armi della critica, se
rimangono incapaci di azione politica concreta, cioè fisica.
L’occupazione, configurandosi appunto come azione di conquista fisica di
uno spazio, è nozione prima di tutto intimamente giuridica, perché il
possesso come «situazione di fatto corrispondente alla proprietà» è il
principale elemento giustificativo della stessa, anche nell’ottica
liberale (da John Locke in avanti). L’occupazione ha cioè nel suo seno
la potenza sovversiva dell’ordine costituito e, se capace di asserire
sovranità fisica, è forza costituente. Giuridicamente, in un mondo che
si presume come tutto occupato dalla proprietà privata o dall’autorità
pubblica (a modello demaniale) l’occupazione è relegata a casi di
scuola, come le conchiglie sulla spiaggia. La res nullius,
giuridicamente occupabile, è nozione culturale (dunque politica) non
ontologica, come ben ci dimostra l’esempio della conquista delle
Americhe, considerate giuridicamente vuote e dunque occupabili, che fu
coeva alle enclosures nella madre patria e parimenti parte
dell’accumulazione originaria del capitalismo nascente. Alla res nullius
ha sempre fatto compagnia la res derelicta , la cosa abbandonata, la
cui proprietà può pure acquisirsi per occupazione (il giornale lasciato
sul treno, il televisore vicino al cassonetto della monnezza). Nel
nostro sistema costituzionale la proprietà privata è riconosciuta e
garantita solo nella misura in cui essa risponda a una «funzione
sociale», idea che i giuristi hanno da sempre visto come legata alle
«utilità» prodotte dal bene e non certo alla cosa “in sé” oggetto di
proprietà (il grattacielo, il giornale o il televisore), perché una
funzione dipende dal contesto e non dall’oggetto. Chi occupa in
“funzione costituente” ancorché limitata alla realizzazione concreta di
uno o più testi costituzionali, come l’art. 42, restati gravemente
lettera morta, critica così la «meritevolezza di tutela» da parte
dell’ordinamento giuridico dell’accumulo proprietario al puro scopo di
accaparramento privato della rendita fondiaria. Noi sosteniamo che
l’indecenza delle pratiche di accumulo antisociale della ricchezza vada
considerata costituzionalmente una derelictio delle utilità comuni del
bene, che le rende occupabili da chi le restituisca, rendendole aperte,
alla loro natura di beni comuni. Questo vale tanto per la proprietà
privata quanto per quella pubblica, perché esse condividono un modello
di governo di tipo autoritario ed escludente. Per questo, esperienze
come Macao si oppongono a istituzioni comunali, ancorché “amiche” che,
invece di lavorare alla giusta distribuzione di quanto prodotto
dall’intera collettività (rendita fondiaria appunto, che dà valore a un
grattacielo fatiscente) tacciono conniventi rispetto agli abusi di un
ministro della Repubblica che manda la forza pubblica per tutelare una
rendita fondiaria privata del tutto parassitaria. Questa è la vera
questione di legalità che Macao ha voluto mettere all’ordine del giorno,
collocandosi in perfetta continuità con l’esperienza di critica alla
proprietà privata antisociale condotta al Cinema Palazzo, recentemente
premiata da un’importantissima sentenza del Tribunale di Roma (VII sez.,
8 febbraio 2012). Che “funzione sociale” può mai avere la proprietà
privata della Torre Galfa, chiusa e abbandonata da 15 anni, rispetto
alla sua apertura come “bene comune” a disposizione della collettività
grazie all’impegno civile e politico di Macao? Che funzione sociale
potrebbe avere il Cinema Palazzo, ridotto ad un bingo, ed invece
restituito al quartiere di San Lorenzo grazie all’impegno sociale e
politico della moltitudine, tramite un’azione di natura politica, non
finalizzata al conseguimento di un profitto personale o di un interesse
di natura patrimoniale? Le utilità di questi beni immobili, come di
altri che invece sono in proprietà pubblica come il Teatro Valle o il
Palazzo Citterio di Brera presso il quale Macao continua la sua
battaglia, sono rivendicate come “beni comuni” in funzione costituente
materiale. Si vuole così dare piena e diretta applicazione popolare del
fraseggio della Costituzione del ’48, contro il suo continuo tradimento
causato della connivenza fra istituzioni private (grandi concentrati di
proprietà, per lo più azionaria) e pubbliche anche al più alto livello.
Se per legittimare l’occupazione di una proprietà privata parassitaria
occorre fondarsi sull’art. 42 (funzione sociale), nel caso di una
proprietà pubblica la norma chiave è l’art. 43 (inserito in Costituzione
riconoscendo il contributo dei consigli di fabbrica alla liberazione
antifascista), e diviene cruciale la proposta di un governo partecipato e
autenticamente democratico delle utilità prodotte dai beni comuni
creativi (di qui l’importanza costituente della natura aperta
dell’istituenda Fondazione Teatro Valle Bene Comune). È dunque ben
evidente come la lotta per i beni comuni creativi ponga al centro
dell’attuale fase politica la questione proprietaria, smascherando la
finta opposizione fra pubblico e privato. L’esempio di Torre Galfa, e la
sua traslazione a Palazzo Citterio, è esplicativo. Un manager (privato)
telefona a un ministro (pubblico) affinché questi usi la forza
(pubblica, ossia pagata da tutti noi) per tutelare una proprietà
(privata) in stato di abbandono terminale da oltre 15 anni, il cui solo
valore è l’assorbimento (privato) della rendita prodotta dalla pressione
urbanistica (con relativa necessità di infrastrutture pubbliche, ecc.).
Si noti che se un cittadino normale, dopo esser stato assente per molto
meno tempo, trova in casa propria un altro cittadino normale ivi
intruso (a maggior ragione o un inquilino moroso) egli non potrà che far
ricorso alle regole del diritto privato per sgomberarlo. In altri
termini, la proprietà privata ordinaria deve contentarsi delle regole
civilistiche (ossia del diritto privato), mentre la grande proprietà
azionaria, che accumula rendita fondiaria in modo parassitario (senza
far uso del bene ma anzi lasciandolo deperire), può contare sull’uso
immediato degli apparati repressivi dello Stato. Ciò dimostra che i
rapporti di potere fra pubblico e privato sono oggi invertiti ed il
potere pubblico semplicemente non ha la forza o il coraggio di resistere
ad un ordine proveniente dai poteri privati (finanziari o quant’altro)
anche se quest’ordine è completamente contrario all’interesse della
cittadinanza. Non c’è dubbio che la Torre Galfa, una volta aperta dagli
occupanti, avrebbe restituito alla cittadinanza in senso ampio almeno
una parte di quella ricchezza collettiva (quel bene comune) che è la
rendita fondiaria, assorbita senza giustificazione alcuna dal gruppo
Ligresti. Lo stesso quotidiano La Repubblica , che nella sua edizione
milanese accusa Macao sgomberata e in transizione democraticamente
decisa verso Brera dell’infamia mediatica di condividere un avvocato col
movimento No Tav, in quella romana, lo stesso giorno, elogia gli
occupanti di una proprietà pubblica, il Teatro Valle, sostenendo
giustamente che il Comune di Roma deve almeno continuare a pagare le
bollette, perché una stagione così bella mai l’avrebbe organizzata! Come
noto ai giuristi, sul piano del diritto positivo vigente, una proprietà
pubblica è tutelata rispetto all’occupazione in modo più intenso di una
proprietà privata (per esempio gli occupanti del Teatro Valle non
potrebbero mai acquistarlo per uso capione) mentre nella pratica le
cose, per il suddetto mutamento dei rapporti di forza, vanno esattamente
al contrario. Per la verità, nel sistema dell’art. 42 Cost., proprietà
privata e pubblica sono poste sullo stesso piano. La «funzione sociale
della proprietà» si garantisce rendendo un bene «accessibile a tutti»,
denunciando chi esclude al solo scopo di accumulare la rendita, sia essa
direttamente economica o indirettamente politica. La prassi
dell’occupazione artistica costituente abbatte la falsa coscienza della
distinzione fra privato e pubblico, mettendo al centro beni comuni le
cui utilità sociali vanno funzionalizzate alla soddisfazione dei diritti
fondamentali (anche di partecipazione politica effettiva e x art.3
Cost.) garantiti alla collettività. In questo senso Macao, spostandosi
dalla Torre Galfa a Brera, offre un contributo definitivo a chiarimento
dell’ irrilevanza del titolo formale per le vertenze sui beni comuni. Al
sindaco di Milano si continua a chiedere di schierarsi apertamente a
favore dei beni comuni, chiarendo l’intreccio dei legami con Ligresti
(Torre Galfa) e condividendo con la cittadinanza attiva le scelte sul
futuro di Palazzo Citterio. Un’occupazione condotta in nome della
cultura come bene comune può mettere in campo il potere della creatività
artistica per abbattere il principale scudo ideologico e mediatico
dietro il quale si nascondono gli abusi del grande accumulo proprietario
parassitario: la paura piccolo-borghese per la critica alla proprietà
privata personale. Chi critica l’accumulo proprietario di Ligresti non
discute la proprietà del signor Rossi, proprio come chi critica un
potere autoritario (anche se esercitato da un sindaco amico), non
discute la democrazia e la legalità, ma si batte per una loro
realizzazione coerente con una Costituzione rispettosa dell’uguaglianza
sostanziale. Questo è il messaggio politico con cui l’arte può
sconfiggere la ricostruzione mediatica dominante.
Fonte: Il Manifesto – 22 maggio 2012
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