Lo scandalo che ha coinvolto JP Morgan può essere utile: abbiamo appena
assistito a una dimostrazione del perchè Wall Street ha bisogno di
essere regolamentata. Peccato che non si arrenderà facilmente: sta già
versando ingenti quantità di soldi a Mitt Romney, che ha promesso di
abrogare le recenti riforme finanziarie.
di Paul Krugman, da Micromega
Uno dei personaggi dell'intramontabile film Ombre rosse
(1939) è un banchiere, Gatewood, che ai suoi sottoposti propina una
lezione sui mali di Big Government, l'interventismo statale, in
particolare della regolamentazione bancaria.
A un certo punto
Gatewood esclama: «Come se noi banchieri non sapessimo come amministrare
le nostre banche!». In seguito, più avanti nel film, scopriamo che
Gatewood taglia la corda dalla città, portando via una bisaccia piena
zeppa di bigliettoni che ha sottratto indebitamente.
Da quel che
ne sappiamo finora, Jamie Dimon – presidente e amministratore delegato
di JP Morgan Chase - non ha in mente nulla del genere. Tuttavia ci
risulta che spesso gli è piaciuto fare discorsini come quelli di
Gatewood su come lui e i suoi colleghi sanno perfettamente quello che
stanno facendo e non hanno certo bisogno che il governo stia loro col
fiato sul collo. Di conseguenza, nello sconvolgente annuncio da parte
della JP Morgan di essere riuscita a bruciare chissà come due miliardi
di dollari circa, in un tentativo infruttuoso di intrallazzi finanziari,
ci sono un bel po' di giustizia divina e una fondamentale lezione
comportamentale da apprendere.
Giusto per essere chiari: gli
uomini d'affari sono uomini – quantunque i Signori della finanza abbiano
una certa tendenza a dimenticarlo – e di conseguenza commettono di
continuo errori in perdita. Di per sé questa non è una ragione
sufficiente per la quale il governo debba intervenire. Le banche, però,
sono speciali, perché i rischi che si assumono sono sostenuti, in buona
parte, dai contribuenti e dall'economia nel suo complesso. E il caso di
JP Morgan ha appena dimostrato che perfino i presunti banchieri
intelligenti devono avere rigidi limiti nella tipologia di rischio che
sono autorizzati ad assumersi.
Per la precisione: perché le
banche sono speciali? Perché la storia ci insegna che il settore
bancario è ed è sempre stato soggetto a sporadici e devastanti "ondate
di panico", in grado di scatenare il caos in tutta l'economia. La destra
sta attualmente diffondendo la panzana secondo la quale un cattivo
andamento del settore bancario è sempre conseguenza di un intervento del
governo, attuato tramite la Federal Reserve oppure con le ingerenze dei
liberal al Congresso. In realtà, tuttavia, l'America dell'Età Dorata -
quella nella quale il governo si intrometteva il meno possibile e la Fed
non esisteva neppure – era soggetta al panico più o meno una volta ogni
sei anni. E in alcuni casi si inflissero così gravissime perdite
all'economia.
Ma allora, che cosa fare? Negli anni Trenta, dopo
la madre di tutti gli attacchi di panico delle banche, arrivammo a una
soluzione praticabile, che contemplava garanzie e controlli a uno stesso
tempo. Da un lato, il dilagare del panico fu arginato tramite
assicurazioni sui depositi garantite dallo stato; dall'altro, le banche
furono sottoposte a regolamentazioni miranti a impedire che potessero
abusare dello status privilegiato derivante loro proprio
dall'assicurazione sui depositi, in pratica una garanzia governativa dei
loro debiti. Cosa ancora più importante, le banche con depositi
garantiti dallo Stato non furono autorizzate a impegnarsi in
speculazioni spesso rischiose, tipiche di banche di investimento quali
Lehman Brothers.
Questo sistema ci ha regalato mezzo secolo di
relativa stabilità finanziaria. Alla fine, però, ci siamo dimenticati
ciò che la storia ci aveva insegnato. Sono proliferate nuove forme di
attività bancaria senza garanzie statali, e al contempo si è permesso
sia alle banche tradizionali sia a quelle all'avanguardia di accollarsi
rischi sempre maggiori. Come era prevedibile, alla fine abbiamo dovuto
subire la versione Ventunesimo secolo del panico bancario dell'Età
Dorata, con conseguenze tremende.
È evidente pertanto che
dobbiamo assolutamente ripristinare quel tipo di tutela che ci ha
regalato per un paio di generazioni una tregua dalle grandi
preoccupazioni bancarie. O meglio, questo è evidente a tutti fuorché ai
banchieri e ai politici finanziati dai banchieri, in quanto essendo
stati salvati in extremis adesso naturalmente questi ultimi sarebbero
ben felici di tornare a fare affari come al loro solito. Ho già citato
il fatto che Wall Street sta versando ingenti quantità di soldi a Mitt
Romney, che ha promesso di abrogare le recenti riforme finanziarie?
Arriviamo
adesso a Dimon. Dobbiamo riconoscere a JP Morgan – e a Dimon – il
merito di essere riuscita a tenersi alla larga da molti dei pessimi
investimenti che hanno messo in ginocchio altre banche. Questa manifesta
dimostrazione di prudenza ha fatto di Dimon l'uomo di punta nella
battaglia ingaggiata da Wall Street volta a procrastinare, annacquare
e/o abrogare la riforma finanziaria. Egli si è distinto e si è fatto
particolarmente sentire quando si è opposto alla Volcker Rule, che
precluderebbe alle banche con depositi garantiti dallo Stato la
possibilità di impegnarsi nel "proprietary trading", in sostanza di
effettuare speculazioni con i soldi dei depositanti. «Fidatevi di noi»,
ha detto in pratica il capo della JP Morgan. «È tutto sotto controllo».
Pare proprio di no, invece.
Che
cosa ha fatto in realtà la JP Morgan? Da quanto ne sappiamo, ha
utilizzato il mercato dei derivati – complessi dispositivi finanziari –
per scommettere fortemente sulla sicurezza dell'indebitamento delle
aziende, qualcosa di simile alle puntate effettuate dalla compagnia di
assicurazioni Aig sull'indebitamento immobiliare di qualche anno fa. Il
punto cruciale non sta tanto nel fatto che la scommessa non è andata a
buon fine, ma che gli istituti che rivestono un ruolo cruciale nel
sistema finanziario non hanno il diritto di fare simili scommesse. Tanto
meno quando questi stessi istituti sono sorretti da garanzie dei
contribuenti.
Per adesso pare che Dimon sia stato punito. Avrebbe
perfino ammesso che forse chi propone una maggiore regolamentazione ha
segnato un punto a proprio favore. Quasi certamente, però, non durerà:
mi aspetto che Wall Street torni alla sua consueta arroganza nel giro di
settimane, forse addirittura giorni.
In verità, abbiamo appena
assistito a una dimostrazione pratica del motivo per il quale, di fatto,
Wall Street ha bisogno di essere regolamentata. Grazie Mister Dimon.
Fonte:Repubblica, 15 maggio 2012
mercoledì 16 maggio 2012
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