lunedì 30 aprile 2012
Chi c'è dietro a Beppe Grillo? Intervista a Pietro Orsatti
Questa è l'intervista che ho fatto al giornalista e documentarista Pietro Orsatti e ci da una visione di insieme della struttura di gestione dei siti di Beppe Grillo e di come le sue idee politiche e le sue rivendicazioni civiche abbiano subito un deciso "cambio di rotta" dopo l'entrata di questa società di gestione: la Casaleggio Associati. Casaleggio plasma le politiche di Beppe Grillo il quale plasma le politiche del Movimento cinque stelle. L'Aspen Institute è tink tank conservatore americano, uno dei responsabili della svolta verso l'economia neo liberista intrapresa da tutta la politica italiana negli ultimi 30 anni. http://it.wikipedia.org/wiki/Aspen
http://soundcloud.com/paolo-perini/chi-c-dietro-a-beppe-grillo
Beppe Grillo: 'La mafia non ha mai strangolato i propri clienti'
da saveriotommasi.it
"La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un'altra mafia (la crisi economica ndr), che strangola la propria vittima".
Devo riconoscere che se quella frase l'avesse detto Marcello Dell'Utri avrei scritto che stava chiedendo voti alla mafia, che del resto da sempre sostiene di proteggere le proprie vittime, al contrario dello Stato che le tormenta.
Invece quella frase l'ha urlata Beppe Grillo, ieri, a Palermo, sostenendo il proprio candidato sindaco, in coincidenza (o forse no), del trentennale dell'omicidio di Pio La Torre. E dunque che devo scrivere? La stessa cosa, ovviamente, altrimenti l'onestà intellettuale andrebbe a farsi friggere. Con due considerazioni:
a) Io non ho dubbi sull'intensità della crisi economica, anche se le proposte di Beppe Grillo non mi convincono e preferisco quelle di Alex Zanotelli.
b) Non raccontatemi che Grillo non deve dimostrare a nessuno di essere contro la mafia perché l'ha già fatto realizzato i (bellissimi, tra parentesi), calendari con i Santi Laici. Perché la lotta alla mafia si fa ogni giorno, e anche Totò Cuffaro, del resto, una volta fece tappezzare le città con il manifesto "La mafia fa schifo".
E dunque, in conclusione, un invito.
Caro Beppe Grillo, il 19 maggio passa da Firenze. Debutterò con l'anteprima assoluta di "La mafia (non) è uno spettacolo", un monologo teatrale che ho scritto a quattro mani con Piero Luigi Vigna, magistrato e già Procuratore nazionale antimafia. Debutterò davanti al monumento in ricordo di Nadia e Caterina Nencioni, le due bambine (nove anni la prima, appena cinquanta giorni la seconda), uccise da una bomba mafiosa in via dei Georgofili, a Firenze. A proposito di "la mafia non strangola i propri clienti".
T'aspetto, Grillo.
sabato 28 aprile 2012
Un Nuovo Soggetto Politico da spendere
di Franco Cilli
Vorrei scrivere qualcosa di interessante sul Nuovo Soggetto Politico e sull'alternativa politica in generale sul nostro paese, ma mi rendo conto che la cosa è estremamente ingarbugliata e che è molto difficile dire cose non scontate e gravate dalla solita retorica, o peggio ancora avvolte nelle spire di un linguaggio oscuro e incomprensibile. Ho letto con interesse l'articolo di Asor Rosa sul Manifesto di ieri e forse dico sciocchezze, ma da tutte quelle belle parole su San Tommaso, accostato indegnamente a Negri, ho ricavato la sensazione che Asor Rosa volesse solo difendere l'esistenza dei partiti come istituzioni pubbliche e la loro valenza come portatori di istanze generali della società, cosa che un soggetto politico amorfo e dai confini incerti non sarebbe in grado di fare.
Vorrei dire solo una cosa in maniera
ben chiara, per quanto mi riguarda sono arcistufo di popoli viola,
indignati e quant'altro, movimenti evanescenti che producono
conseguenze rilevanti solo nella mente di Negri, che li vorrebbe
fuori dalla politica istituzionale, ma non si sa come anche agenti di un
cambiamento radicale (come si cambia davvero se non si cambiano le
istituzioni?). Se questa è un'aporia mi piacerebbe che qualcuno
cercasse di risolverla, anche se personalmente non ho mai creduto
nella “filosofia” né come sistema di indagine della realtà né
come faro della politica, e al contrario ho sempre creduto nella
“sperimentazione politica”, nell'intervento sul campo, fatto di
azioni concrete valutate nelle loro conseguenze pratiche, principio a
cui Negri sembra volersi affidare negli ultimi tempi. La
sperimentazione però deve avere basi solide e solide premesse. Bene,
credo che le basi solide ci siano, sia in termini teorici che
motivazionali, basta solo dire che il sistema capitalistico nella sua
forma più recente, il liberismo, ha prodotto e continua a produrre
disastri incalcolabili per l'umanità, le prove di questo disastro
certo non mancano e negli anni abbiamo elaborato una scienza della
politica e della società sicuramente molto sofisticata. Da quello
che sappiamo possiamo certo ricavare la necessità di un cambiamento
radicale e di sostanza della società senza lambiccarci il cervello
più tanto, e credo che fin qui siamo tutti d'accordo. Occorre adesso
capire in che maniera e seguendo quale “protocollo” vogliamo
sperimentare. Posto che non possiamo fare affidamento su una classe sociale
(fordista o post-fordista che sia) come leva di un cambiamento
radicale, allora dobbiamo dare per assodato che occorra far leva su
una moltitudine umana eterogenea, la quale partendo dalla propria
condizione materiale scorga l'alternativa all'esistente come unico
orizzonte possibile. Bene, tutto ciò non implica alcuna novità,
sono cose che dicono tutti ormai persino commentatori non certo
“radicali”. Il problema vero è come coniugare i “differenti
tipi logici” per mutuare un termine russelliano, cioè come
coniugare l'impulso al cambiamento che viene dalla società civile
con le sue istanze di rinnovamento della politica, di estensione del
concetto di rappresentanza, di tutela dei diritti e del lavoro, con
la necessità di incidere sulle istituzioni e sulle scelte politiche
generali. In altre parole la politica dal basso va bene, ma come si
traduce questo in governo reale del territorio e della macchina
statale? In che modo possiamo sperimentare nuove forme di lotta
politica, senza perdere di vista il potere vero? Appare evidente che
più il movimento proclama la sua alterità nei confronti della
politica dei partiti e quindi delle istituzioni “reali”, minore è
l'impatto della società civile sulle istituzioni stesse. Coniugare i
due momenti diventa allora essenziale - e qui la sperimentazione ha un
senso - comprendendo che questi hanno logiche, contesti e scansioni
temporali affatto diverse, ma che nessuno dei due può essere preso in
considerazione senza l'altro. In definitiva se il nuovo soggetto
politico non sarà in grado di influenzare in maniera determinante il
processo elettorale e insieme a questo una strategia complessiva di
uscita dal liberismo economico, concertata ad un livello perlomeno
europeo, non otterremo nulla di concreto se non qualche fenomeno
folkloristico passeggero. La disponibilità di Vendola a questo
riguardo è una cosa positiva e c'è da auspicarsi che altre forze,
aldilà del Pd, si rendano disponibili ad un dialogo. Sto parlando
chiaramente di rinnovamento della classe politica a partire dai
comuni per arrivare all'apparato statale e allo stesso tempo di una
controffensiva netta e decisa contro il liberismo. La differenza qui
fra pubblico e comune e quindi fra il “benecomunismo” come ultima
frontiera dell'ideologia e il pubblico come categoria economica
pratica radicata nella realtà, mi sembra essa stessa ideologica e
poco interessante. In realtà pubblico e bene comune sono categorie
non nuove come giustamente rileva Asor Rosa, quello che conta
attualmente sono i bisogni reali che queste categorie racchiudono in
sé in termini di fruizioni di servizi, tutela del patrimonio
ambientale (pubblico e privato), di un Welfare efficiente e di
garanzie per il futuro.
Non va però trascurato un altro
fattore determinante: la crescita economica. Sia come sia, ma
dobbiamo capire bene come il concetto di beni comuni o di pubblico si
coniughi con il concetto di crescita, poiché se la decrescita è un
concetto vago e un po' ingenuo, la crescita illimitata è
insostenibile sia da un punto di vista logico che ambientale. Ma non
è tutto, poiché oggigiorno il concetto di crescita o se volete
anche di deficit spending, si contrappone drasticamente ad un
concetto di austerità costruito ad hoc dalle politiche
europee, che penalizza decisamente i ceti poveri a vantaggio di una
classe di rentiers. Non è proprio così si dirà, visto che
persino il FMI si è accorto che l'austerità è un danno per
l'economia (soprattutto quella americana), ma fatto sta che
paradossalmente l'austerità, da sempre vista come misura
calmieratrice di un “consumismo democratico” con l'accesso ai
consumi di una larga massa di persone, è oggi la più preziosa
alleata di un certo capitalismo alimentato dalle varie scuole
neoclassiche e liberiste. Barnard offre una soluzione alternativa
alle teorie neoclassiche in economia, che più che sperimentale è
per lui assiomatica e imprescindibile: la Modern Money Theory, per la
quale si rimanda al sito democraziammt per maggiori approfondimenti. Detta in
parole molto povere si tratta di una sorta di keynesismo rivisitato
che pone come costante imprescindibile un bilancio statale a debito
e contestualmente una moneta sovrana, a garanzia di un accesso diffuso
al reddito e ai consumi.
C'è qualcosa però in questa teoria che non va, parte il paradosso comico di figuri berlusconiani che lanciano
strali contro le politiche tedesche a favore dell'austerità
utilizzando le stesse tesi di Barnard in una cornice semantica di
stampo no-global, ed è l'idea che non si possa uscire da questa
crisi se non con una politica di spesa tout court, senza
alcuna specificazione o revisione del tipo di produzione e dei suoi
processi. Non sono un pauperistica e ritengo che un certo livello di
consumi ce lo siamo guadagnato e che sia ormai da ritenere
“essenziale”, il problema semmai e la generalizzazione di un
determinato standard di vita al mondo intero, ma credo che allo stesso
tempo si debba dare un nome anche ai consumi “inessenziali” e accanto ad una
politica di spesa affiancare una politica di risparmio delle risorse
naturali. Facile a dirsi si dirà, più difficile è dare una risposta a
quelle persone che perdono il lavoro a causa della delocalizzazione
della produzione e di un riassestamento globale dell'economia. Per ora sappiamo per certo che non riusciamo a tenere aperte fabbriche destinate a fallire, e sappiamo in maniera altrettanto certa che dobbiamo dare da spendere alla gente che rimane senza lavoro, ed evitare come dice Barnard che si
ritrovino in un “appartamento marcio e umido” con due figli a
carico senza denaro per il minimo indispensabile.
Ma questo è solo l'inizio della storia, il seguito dipenderà dalla capacità del Nuovo Soggetto Politico di sopravvivere almeno una stagione.
Ma questo è solo l'inizio della storia, il seguito dipenderà dalla capacità del Nuovo Soggetto Politico di sopravvivere almeno una stagione.
George Soros e il golpe patriottico della Bundensbank
di Ambrose Evans-Pritchard da blogs.telegraph.co.uk via ComeDonChisciotte
George Soros ha dichiarato guerra aperta alla Bundesbank.
Nella sua ultima intervista a Le Monde ha detto che se fosse ancora un investitore attivo, oggi avrebbe “scommesso contro l'Euro”, almeno finché non avvenga un cambiamento nella leadership o nelle politiche europee.
“L'Euro minaccia di distruggere l'Unione Europea e, pur con le migliori intenzioni, i leader stanno conducendo l'Europa verso la distruzione attraverso l'imposizione di regole inappropriate. L'introduzione dell'Euro ha portato alla divergenza invece che alla convergenza. I paesi più fragili dell'Eurozona hanno scoperto di essere in una situazione da Terzo Mondo, come se i loro debiti fossero in valuta straniera, con la conseguenza fatale di un reale rischio di default. Cercare di imporre loro il rispetto di regole che non funzionano rischia solo di peggiorare la situazione. È triste, ma le autorità politiche non lo comprendono.
Mario Draghi ha varato misure straordinarie con la sua iniezione di mille miliardi di Euro di liquidità, per mezzo di prestiti triennali. Ma l'efficacia di quest'operazione è stata annullata dal contrattacco della Bundesbank. Osservando la crescita del bilancio della BCE, la Bundesbank si è resa conto di rischiare gravi perdite nel caso di un'espansione di liquidità dell'Euro e si è quindi opposta a questa politica di LTRO [1]. Speriamo che questa non diventi una profezia auto-avverante.”
Queste dichiarazioni fanno seguito a un'intervista alla Süddeutsche Zeitung dello scorso venerdì, nella quale accusava i “burocrati della Bundesbank” di prepararsi a distruggere l'Euro, oltrepassando la loro autorità politica e istituzionale.
Il signor Soros ha una certa competenza in questo campo. Il suo via al lancio di un attacco speculativo – insieme ad altri – contro la Sterlina e la Lira nel settembre del 1992 arrivò dopo che il Presidente della Bundesbank Helmut Schlesinger aveva detto al giornale economico Handelsblatt che le due monete, secondo gli indici dell'ERM [2], erano sopravvalutate. Ci sarebbe dovuto essere un riallineamento.
Era un chiaro segnale che la Bundesbank non intendeva intervenire sui mercati per difendere i parametri ERM – come invece fece in seguito per la Francia. Il signor Soros aveva già venduto allo scoperto 1,5 miliardi di Sterline. Alzò enormemente la posta il mattino seguente. “Puntate alla giugulare,” disse al suo partner Stanley Druckenmiller. La storia viene icasticamente raccontata dal nuovo libro di Sebastian Mallaby More Money than God: Hedge Funds and the Making of a New Elite.
Si potrebbe discutere della condotta della Bundesbak in quell'episodio. Tecnicamente, la banca non riuscì a mantenere i suoi impegni ERM. Ma non è questo il punto. Gli veniva chiesto di rispettare un accordo insostenibile.
Il Governo britannico aveva agganciato la Sterlina al Marco Tedesco tramite un misto di inettitudine e sfortuna proprio mentre i cicli economici dei due paesi divergevano alla grande – con la Germania che si surriscaldava, a fronte di un Regno Unito alle prese con un crollo immobiliare successivo al boom del Cancelliere Lawson. (Non era il tasso di cambio a essere sbagliato: era il tasso di interesse – distinzione cruciale). Le azioni della Bundesbank sono state una liberazione per la Gran Bretagna. Soros meriterebbe di essere fatto Sir per il suo contributo. E al Dr. Schlesinger dovrebbero assegnare un titolo nobiliare onorario.
La situazione attuale è più ambigua, e molto più pericolosa.
Jens Weidman, l'attuale presidente della Buba, mercoledì scorso ha rilasciato un'intervista alla Reuters talmente da “falco” da sconfinare nella caricatura. Sembra suggerire che la crisi in rapido peggioramento di Spagna e Italia non comporti per lui la minima responsabilità, e che non abbia nulla a che fare con la Bundesbank o la Banca Centrale Europea.
“Non dovremmo sempre parlare di fine del mondo se i tassi di interesse a lungo termine di un paese vanno temporaneamente oltre il 6%,” ha detto.
“Questo è anche uno sprone perché la dirigenza politica dei paesi in questione facciano quello che devono [do their homework] e riconquistino la fiducia dei mercati continuando sul sentiero delle riforme.”
Questa l'abbiamo già sentita. Weidmann fece commenti simili l'anno scorso quando i mercati dei titoli spagnoli e italiani entrarono in crisi. In quell'occasione Mario Draghi riuscì a rimediare, lanciando il suo LTRO all'attacco per prevenire l'imminente collasso del sistema bancario del Club Med [3] – o una “molto, molto grave stretta del credito”, secondo le sue parole – che garantì quattro o cinque mesi di calma.
Il signor Weidmann ora ci dice che le operazioni di acquisto di titoli da parte della BCE hanno raggiunto il loro “limite”, e che non fa parte delle funzioni della banca centrale quella di “garantire un particolare livello di tasso di interesse per un paese in particolare.”
Francamente, credo si tratti di panzane ideologiche che hanno superato da parecchio la data di scadenza, cosa che vale anche per le strutture decisionali del mondo intero, dal FMI alla Fed alle autorità cinesi. I vuoti formalismi e i sofismi accademici non possono più affrontare il problema, nello stadio avanzato di una crisi sistemica di cui la Germania è, ed è sempre stata, uno dei protagonisti.
(Sì, c'è anche in corso una partita a poker: i discorsi da duro dovrebbero servire a tenere Spagna e Italia sulla graticola. Ma una strategia del genere da per scontato che per la Spagna sia possibile realizzare quella specie di terapia fiscale d'urto ordinatale dall'UE – sotto l'attuale dirigenza politica – con un tasso di disoccupazione già al 23% e prestiti bancari che non rientrano arrivati all'8,2% e in rapida ascesa)
Non mi è chiaro quali siano gli obbiettivi del signor Weidmann, a meno che la sua intenzione sia quella di arrivare il prima possibile a una crisi drammatica e definitiva.
La Bundesbank è attualmente sotto di 616 miliardi di Euro in crediti Target2 [4] nei confronti del resto del sistema BCE (essenzialmente trasferimenti alle banche centrali di Irlanda e del Club Med per scongiurare la fuga di capitali) con un balzo di 68 miliardi in un solo mese.
Se l'Unione Monetaria regge, questi crediti sono solo un dettaglio contabile. Qualsiasi perdita verrebbe suddivisa all'interno della famiglia delle banche centrali, tanto che si potrebbe gestire perfino una fuoriuscita della Grecia.
Ma se la Germania abbandona, quei crediti sarebbero difficili da esigere, o addirittura inesigibili. I contribuenti tedeschi dovrebbero affrontare perdite ingenti. Ergo, più si va avanti così, più a lungo lo squilibrio nel Target2 aumenterà e sempre più difficile sarà per la Germania districarsi fuori dall'Euro.
Come mi ha detto un banchiere tedesco, il Target2 è la catena al collo della Germania. Controlla il rubinetto dei liquidi.
Quindi, se gli integralisti monetaristi della Bundesbank desiderano davvero spingere verso un dato risultato, devono agire molto in fretta o la porta gli si chiuderà in faccia definitivamente.
Non c'è da meravigliarsi se il signor Soros segue da vicino le dichiarazioni del signor Weidmann.
C'è chi sospetta che la Bundesbank sia impegnata in una specie di golpe/resistenza patriottica. Su questo sospendo il mio giudizio, ma se le cose stanno così si tratterebbe di una situazione oltremodo bizzarra.
Chi sta governando la Germania? Il Cancelliere che dovrebbe occuparsi della politica estera e del destino strategico del paese, rispondendone solo al Bundestag?
O per caso la Bundesbank risponde a quello che che viene ritenuto un potere superiore – la costituzione tedesca e la Legge Fondamentale [5] – invocando la superiorità della Corte Costituzionale rispetto all'invasività dei trattati UE (che in definitiva godono di uno status legislativo inferiore, o addirittura nessuno status giuridico finché restano semplici trattati)?
In questo caso, chi è il legittimo difensore della Germania in quanto nazione sovrana, fondata sulla Legge Fondamentale?
È uno spettacolo interessante. Si potrebbe di certo ipotizzare che il signor Weidmann agisca come ultimo baluardo dello stato nazione tedesco, che egli in effetti sostenga il tipo di amministrazione postbellica che per la Germania è stata fonte di democrazia e libertà per mezzo secolo. Egli ha perfettamente ragione a temere che i meccanismi dell'Unione Monetaria Europea possano sovvertire il sistema di governo della Germania.
Ma è anche chiaro che il suo atteggiamento minaccia di far scoppiare una bomba atomica. Può la Cancelliera Merkel permettere alla Bundesbank di fare questo all'Unione Monetaria? O è lei che sta oltrepassando i limiti costituzionali, tradendo la democrazia tedesca?
Domanda difficile. I lettori tedeschi sono più qualificati di me, a rispondere.
Ho il sospetto che la situazione reale dell'Eurozona abbia raggiunto un punto che lascia spazio a due sole possibili scelte:
1) L'effettiva fusione [folding together] degli stati dell'Eurozona, gestione unitaria del debito, bilanci condivisi, tassazione comune e unione fiscale.
In altre parole, gli stati nazione devono abolire se stessi (lasciando in piedi solo il guscio), e la Germania deve cessare di esistere in ogni forma sostanziale. Questa è sempre stata la logica implicita dell'Unione Monetaria Europea. Si sta avvicinando il momento in cui si dovrà prendere una decisione.
2) Il sistema salta in aria. Dal punto di vista della Germania, il Target2 significa che se bisogna compiere il misfatto “allora sarebbe bene che fosse fatto presto” [6]. Probabilmente molto presto.
Tutto il resto è aria fritta e pio desiderio. Mettendo da parte la cortina di retorica un po' confusa, il signor Weidmann sembra comprendere perfettamente questo punto fondamentale. Cosa dovremmo fare, tifare per lui o averne paura?
Ambrose Evans-Pritchard
Fonte: http://blogs.telegraph.co.uk Link: http://blogs.telegraph.co.uk/finance/ambroseevans-pritchard/100016361/george-soros-and-the-bundesbanks-patriotic-putsch/
19.04.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DOMENICO D'AMICO
NOTE DEL TRADUTTORE
[1] LTRO (Long Term Refinancing Operation). Operazione di rifinanziamento a lungo termine che consiste nel concedere prestiti alle banche a un tasso molto basso (in questo caso 1%), in modo da facilitare (in teoria) l'immissione di liquidi nell'economia “reale”. [ MilanoFinanza ]
[2] “Gli accordi europei di cambio (AEC o ERM, acronimo di Exchange Rate Mechanism), noti anche come meccanismo di cambio europeo (MCE), sono i componenti di un sistema introdotto nell'Unione Europea durante il 1979, appartenenti al Sistema Monetario Europeo (SME). Il loro fine era la riduzione della variabilità del tasso di cambio tra le valute dell'Unione Europea per raggiungere la stabilità monetaria.” [ Wikipedia]
Il problema sorgeva quando, come nel caso della Sterlina e della Lira, il limite di oscillazione stabilito dall'ERM non corrispondeva all'effettiva quotazione della moneta in questione. In un contesto del genere, sapendo che gli investitori (non avendo più fiducia in una moneta) stanno per vendere, basta prendere in prestito una somma in quella valuta, metterla sul mercato e, una volta che il suo valore sia sceso, pagare il prestito (che sarà inferiore a quello originale), intascandosi la differenza. In seguito a quello che venne chiamato il Mercoledì Nero l'Inghilterra si ritirò dall'ERM, mentre l'Italia vi rimase (ma i parametri di oscillazione vennero allentati di molto). In soldoni, una ricerca di “stabilità” che prepara il terreno alle speculazioni più distruttive.
[3] Club Med (nota ormai fissa nella traduzione dei pezzi di Pritchard): appellativo sarcastico riservato ai cosiddetti paesi PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna), ma escludendo l'Irlanda, che secondo la vulgata neoclassica sono i paesi a rischio economico per via dell'alto deficit pubblico, la scarsa competitività, l'eccessiva e inefficiente spesa pubblica, ecc. [ LaVoce.info]
[4] Il Target2 è un RTGS (Acr. di: Real Time Gross Settlement system (in it.: sistema di regolamento lordo in tempo reale). Sistema di regolamento in cui le istruzioni di trasferimento di fondi e il regolamento finale avvengono per ogni singola transazione (ossia senza compensazione) in tempo reale nello stesso giorno di input. - Bankpedia) che facendo passare le transazioni finanziarie in are Euro attraverso le banche centrali tende a consolidare la fiducia nell'istituzione valutaria. Durante l'attuale crisi, il sistema Target2 è servito anche per riequilibrare gli scompensi valutari tra i vari paesi dell'Eurozona.
[5] In realtà “costituzione tedesca” e “Legge Fondamentale” sono sinonimi.
[6] Citazione dal Macbeth (atto I, Scena VII), riguardo al regicidio che il protagonista sta progettando.
venerdì 27 aprile 2012
Elezioni francesi: anticipazioni per discutere dopo il secondo turno
di Toni Negri da Uninomade
Fissiamo, prima di tutto, qualche elemento base non del tutto inutile per cominciare a valutare questo primo turno delle elezioni presidenziali in Francia. Dato il carattere quasi proporzionale del primo turno, i rapporti tra le forze politiche risultano più chiari di quanto avvenga nel secondo turno, maggioritario fra i due candidati prevalenti. Tanto più perché l’assenteismo è stato meno importante di quanto previsto. Ora, è il 20% di Marine Le Pen che colpisce, meglio che rappresenta l’elemento più drammatico e probabilmente trasformativo (delle strutture costituzionali francesi) dato che questo risultato presto (nei prossimi anni) si rispecchierà sulle legislative e sulle amministrative. Al momento non sembra che il Front National voglia negoziare con Sarkozy: a destra si darà una ricomposizione prima o dopo ma, secondo i Le Pen – padre e figlia -, questa dovrà darsi alle loro condizioni. Sia chiaro che l’affermazione FN non si è data semplicemente sulla base del sostegno dei “piccoli bianchi”, reazionari e razzisti, ma che comincia ormai anche a rappresentare ampli strati di una destra non gollista, semplicemente liberale, nazionalista ed antieuropeista. Essa non rappresenta più una Francia periferica, che si colloca nel mondo rurale, attorno alle città e nelle città medie disindustrializzate, ma ha prodotto uno sfondamento nel cuore del potere.
Il secondo elemento importante, da sottolineare fortemente, è che il
risultato di questo voto corrisponde, nuovamente anche se parzialmente, a
delle figure e a delle stratificazioni di classe. Non alludiamo a
quelle vecchie, a quelle fordiste, ma alla nuova composizione sociale di
classe, post-fordista, cognitiva e terziaria. Nelle metropoli (dove
questo modo di produzione è predominante) la sinistra vince, anche nelle
banlieues; la destra gollista si afferma invece nelle zone dove si
concentrano le classi privilegiate, i rentiers, i servizi finanziari, le
aristocrazie agricole ecc.; l’estrema sinistra attraversa i medesimi
spazi della sinistra e Mélenchon raggiunge l’acme del successo nelle
periferie parigine; la destra estrema FN laddove abbiamo già detto. È
interessante notare queste determinazioni spaziali del voto perché ad
esse corrispondono dimensioni sociali. Ciò mostra come, lungi
dall’essere un voto di collera, come gran parte della stampa,
soprattutto internazionale, ha proclamato, questo voto è stato
particolarmente condizionato dai problemi sociali e da un contesto di
riflessione critica “biopolitica” (attenzione alle condizioni economiche
generali, risposta alla nuova organizzazione del mercato del lavoro,
alle riforme restrittive del salario, delle pensioni, all’attacco al
Welfare State, ecc.).
Alla luce di queste considerazioni, sembra dunque che il tempo lungo
delle linee egemoniche (nella fattispecie del neoliberalismo) stia
interrompendosi; il tempo breve degli interessi immediati riprende
invece a confliggere con il primo, e i linguaggi, le parole d’ordine e,
di conseguenza, i comportamenti sociali cominciano a riproporsi in
maniera esplicita, combattiva, antagonista e a porre temi e problemi di
potere. La mia impressione è che sia la diminuzione dell’astensionismo
annunciato, sia la sconfitta di movimenti dagli obiettivi parziali (in
particolare l’annullamento del partito Verde) dipendano dal riproporsi
dello scontro politico attorno a temi generali: quali siano le
prospettive che nella crisi si presentano e quale modello sociale stia
organizzandosi in Europa. Europa: questo il tema fondamentale di questo
primo turno elettorale. Quale enorme distanza da quando estrema destra
ed estrema sinistra insieme avevano espresso un no al trattato di
Lisbona – ora questo no è ripetuto solo dall’estrema destra e mette in
imbarazzo le forze golliste, mentre l’estrema sinistra confluisce verso
Hollande nell’assumere un programma europeo, finalmente rinnovato in
termini socialisti. Ma ciò è sufficiente a garantirci un rinnovamento
del processo dell’unità europea?
Hollande ha presentato un programma nel quale alcuni elementi
particolarmente incisivi erano proposti alla lotta contro la crisi e le
attuali, liberali e depressive, politiche dell’Unione. Per quanto
riguarda la politica interna, il punto centrale della proposta
socialista riguarda la tassazione degli alti patrimoni; per quanto
riguarda l’Unione, i socialisti chiedono una revisione dei criteri del
Fiscal Compact, un accordo eurobond, e una promozione dello sviluppo
economico da parte dell’Unione che assuma come centrale il mantenimento
del Welfare State. Che questa politica possa passare a livello europeo è
evidentemente molto difficile ma è vero che ormai questa politica
incontra un’opinione pubblica sempre meno disponibile alla distruzione
del sistema-Euro ed alla dissoluzione della Eurozona. “Rari sono quelli
che pensano che la reintroduzione di una flessibilità dei tassi di
cambio sarebbe utile e molti continuano a credere che delle svalutazioni
nell’Eurozona non farebbero che aumentare l’inflazione” (Martin Wolf).
Sempre nell’arsenale socialista, sembra emergere anche una forte
attenzione alla difesa contro il prevalere dei “mercati finanziari”, e
quindi all’apprestamento di armi che ne smussino la capacità di attacco
(regolazione e controllo nei confronti dei “paradisi fiscali”, delle
agenzie di valutazione, tassazione delle transazioni, ecc.). E’ chiaro
che tutto ciò potrebbe avere conseguenze ostili alle politiche americane
verso l’Europa – politiche sempre più malevoli – ma ciò comincia a
divenire importante soprattutto se i Paesi Bassi raggiungeranno la Gran
Bretagna nell’osteggiare l’Unione.
È chiaro che la socialdemocrazia europea (e Hollande con essa) non
riuscirà probabilmente a praticare queste linee politiche, anche se in
Germania una “grande coalizione” può forse stabilirsi dopo le prossime
elezioni. Che cosa può fare l’estrema sinistra francese, riorganizzatasi
attorno a Mélenchon, in queste condizioni? Per ora Mélenchon non può
far altro che votare a favore di Hollande. E dopo che cosa avverrà?
Mélenchon ha promesso di non entrare nel governo di Hollande, se questo
vince. Sembra una decisione saggia. Bisogna tuttavia ricordare che nella
coalizione che Mélenchon ha costruito, c’è anche, come forza non
secondaria, il PCF… e si sa con quanta forza i comunisti vecchi e nuovi
vengano attratti verso il governo! Inoltre nel programma di Mélenchon
non esistono spunti adeguati alle richieste, ai claims, dei nuovi
soggetti sociali del proletariato cognitivo: in particolare non si
parla, e neppure si accenna, al reddito garantito di cittadinanza e
neppure si affrontano in maniera radicale le questioni legate al
controllo e dalla gestione di un Welfare “comune”. Nel caso non entri
nel governo, non possiamo prevedere dunque null’altro che un tentativo
di radicalizzare ed estremizzare le proposte di Hollande, oltre che
puntualmente criticarle, da parte di Mélenchon. Povero destino, se le
cose andranno davvero in questi termini. Povero destino anche se – e
fortemente lo auspichiamo – questa relativa impotenza non spingerà
Mélenchon a riprendere quella demagogia antieuropea che talora era
apparsa, più che nelle sue posizioni, in quelle di taluni suoi
sostenitori.
È chiaro che, in questa situazione, supponendo che la vittoria di
Hollande possa darsi di qui a qualche giorno, quanto avverrà in Francia
sarà determinante non solo per la Francia ma per l’Europa. A noi sembra
che, attorno a questa esperienza, potranno misurarsi non semplicemente
programmi di rifondazione dell’Europa, ma soprattutto nuove esperienze
di confronto e di scontro fra la socialdemocrazia al governo e gli
schieramenti dell’estrema sinistra sociale, extragovernamentali. Sarà
possibile, attraverso la continua azione sociale dei movimenti,
attraverso una ricomposizione dei movimenti a livello europeo,
introdurre nuovi motivi “comuni” nella governance che i
socialdemocratici si preparano ad assumere a livello europeo? I dubbi
sono altrettanto forti della speranza. In ogni caso, è solo se si
riuscirà ad organizzare, anche in Francia, dei movimenti sociali di
lotta fuori dalle scadenze elettorali, senza illusioni in quello che i
governi possono fare – è solo in questo caso che anche la vittoria di
Hollande potrà essere benvenuta. Molte esperienze, ormai sviluppatesi a
livello mondiale, ci mostrano che solo l’estraneità dei movimenti ai
governi, alle loro, talora necessarie, talora volontarie, mediazioni
nelle istanze europee, può essere efficace in termini di reinvenzione
programmatica e politica verso il “comune”. Anche dalle forze che hanno
sostenuto Mélenchon e da Mélenchon stesso, ci aspettiamo questa
decisione.
Non dimentichiamo comunque che il successo del FN in questo primo
turno francese costruisce un ostacolo serio ad ogni tentativo di
proporre un rinnovamento democratico dell’Unione. E neppure che un FN
così forte costituirà un elemento di forte attrazione per tutte le
strutture fascistoidi identitarie e reazionarie in Europa. Da oggi in
poi va portata attenzione antagonista nei confronti di ogni provocazione
delle destre europee. Ciò detto senza alcun feticismo antifascista ma
semplicemente con la consapevolezza che si tratta di forze pericolose e
perverse.
giovedì 26 aprile 2012
Evadere le nuove tasse di Monti è un dovere civico. Pagarle è favoreggiare un crimine.
dal blog di Paolo Barnard
Primo assunto: il governo di Mario Monti è illegittimo e criminoso, essendo frutto di un Golpe Finanziario che ha sospeso la democrazia parlamentare in Italia. Il prelievo fiscale di un governo golpista è illegittimo di per sé. (*)
Secondo assunto: il prelievo fiscale del governo
Monti è uno STRUMENTO CRIMINOSO mirato a distruggere il tessuto economico
dell’Italia secondo un piano ordito da elite tecnocratiche Neoclassiche,
Neomercantili e Neoliberiste che su di esso profittano, e che fu imposto ai
cittadini nel corso della creazione dell’Eurozona, anch’essa strumento di
spoliazione illegittima dei popoli europei per il profitto esclusivo di quelle
elite. (**)
Terzo assunto: acconsentire e piegarsi a un siffatto
strumento criminoso è inaccettabile, significa favoreggiamento.
Quarto assunto: con l’entrata dell’Italia
nell’Eurozona e con la ratifica nazionale del Trattato di Lisbona - entrambe le
cose avvenute SENZA ALCUNA CONSULTAZIONE del popolo sovrano - lo Stato italiano
ha perduto la sua moneta sovrana (Lira). Gli è quindi negata la possibilità di emettere
senza limiti teorici una propria moneta per finanziare la spesa corrente, e ciò
lo pone, al pari di tutti i Paesi della zona Euro, nella scandalosa condizione
di doversi approvvigionare di moneta Euro indebitandosi coi mercati di capitali
privati, che ricevono gli Euro dalla BCE direttamente all’emissione. Ne deriva
che oggi con l’Euro lo Stato italiano TASSA i cittadini e aziende fino
all’esasperazione PER RIPAGARE I DEBITI che contrae coi mercati di capitali
privati per far fronte alle spese correnti, i quali mercati poi usurano lo
Stato con tassi d’interesse impossibili, facendo PROFITTI favolosi. Questo
drenaggio fiscale insostenibile sta distruggendo l’economia e i risparmi degli
italiani, ma si ribadisce che esso NON è un accidente di percorso. E’ al
contrario parte del piano di profitti criminosi di cui all’assunto 2, e sta causando
letteralmente la rovina di almeno un’intera generazione di connazionali destinati
a sofferenze inaccettabili nel presente e nel futuro.
Quinto assunto: il prelievo fiscale criminoso di cui
sopra è stato criminosamente istituzionalizzato con la modifica dell’articolo
81 della Costituzione italiana – pareggio di bilancio in Costituzione -
ottenuto nel corso del Golpe Finanziario sotto la MINACCIA ESTERNA dei mercati
dei capitali che sono in grado di paralizzare l’intera Funzione Pubblica
italiana negandogli arbitrariamente la moneta Euro di cui essa ha assoluto
bisogno. Il parlamento italiano non ha avuto alcun potere di dissenso, pena
appunto la distruzione dall’esterno della nostra economia, ed è di fatto
esautorato (Golpe).
Sesto assunto: si ricorda, in quanto cruciale per quanto
poi si va a proporre, che l’istituto del prelievo fiscale in REGIME DI
SOVRANITA’ MONETARIA (la Lira) non è MAI servito a finanziare la spesa dello
Stato. Va compreso che il prelievo fiscale è effettuato su denaro che lo Stato
ha emesso PER PRIMO perché solo lo Stato può creare la moneta. Per cui risulta
un contro senso pensare che lo Stato possa spendere solo dopo aver prelevato da
cittadini e aziende il denaro che lui stesso emette in origine. Ne consegue che
il pagamento delle tasse NON è nato come obbligo di cittadini e aziende per
permettere allo Stato di funzionare, ed è assurdo quindi che lo Stato li tassi a
sangue con quel pretesto. Infatti proprio la natura stessa delle tasse, in
regime di sovranità monetaria, dovrebbe permettere allo Stato di ARRICCHIRE la
cittadinanza perseverando in una spesa statale SUPERIORE alla tassazione, e non
di impoverire la cittadinanza. Ne deriva inoltre che lo Stato italiano della
Lira era teoricamente nella posizione di poter liberamente alleggerire la
pressione fiscale nel caso in cui l’economia del Paese tendesse a una
recessione. Ma a causa del criminoso disegno dell’Eurozona di cui sopra e
all’assunto 4, oggi lo Stato deve proprio attingere da cittadini e aziende con
ampi e crescenti prelievi fiscali (le Austerità) per far fronte al suo
fabbisogno. Ciò inevitabilmente deprime l’economia in un circolo vizioso
micidiale di deflazione dei redditi, quindi crolli aziendali, quindi
disoccupazione, quindi ammortizzatori sociali alle stelle, quindi esborsi
statali improduttivi e quindi ancor più tasse per farvi fronte, e sofferenze
sociali inaccettabili. Tutto ciò aggravato da fatto di essere stato voluto a
tavolino dalle elite Neoclassiche, Neomercantili e Neoliberiste per il fine di
distruggere la sovranità democratica negli Stati del sud Europa imponendovi
povertà di massa, su cui essi speculano immense fortune. Un crimine sociale di
proporzioni storiche. Dunque, QUESTA tassazione del governo Monti è non solo
distruttiva, ma è anche ILLEGITTIMA IN QUANTO CRIMINOSA, e ci è inflitta da una
struttura monetaria e da Trattati europei che CI SONO STATI IMPOSTI CON
L’INGANNO E SENZA ALCUNA CONSULTAZIONE DEL POPOLO SOVRANO. Si badi bene:
NON E’ COLPA DELLE FAMIGLIE DI QUESTO PAESE SE I GOVERNI TECNICI DEGLI
ANNI ’90, DA AMATO A PRODI A D'ALEMA, E I PRESENTI TECNICI AL GOVERNO,
IMPONENDOCI L’EURO CI HANNO MESSO CON L’INGANNO NELLE CONDIZIONI ASSURDE E
SOCIALMENTE MICIDIALI DI DOVER NOI CITTADINI FINANZIARE LA SPESA DELLO STATO
CON LE TASSE SUL NOSTRO RISPARMIO
Date per assodate, cioè frutto di indagini e di lavoro
accademico autorevole (**), le nozioni di cui sopra, risulta che è dovere di
cittadini e aziende italiani opporsi con ogni mezzo a questo crimine. Questo
Golpe Finanziario, che usa quel prelievo fiscale illegittimo come arma di distruzione
economica, viene condotto dal governo illegittimo in carica con la collusione
persino della più alta carica dello Stato. Diventa così lecito per i cittadini
e aziende organizzarsi in una resistenza civica che preveda disubbidienze a
tutto campo, e che si fermi solo di fronte alla scelta della violenza.
Per tutto quanto sopra, con particolare riferimento alla
tassazione devastante del governo Monti, invito i cittadini consapevoli dei danni
epocali e delle sofferenze per generazioni che questo sistema criminoso ci
impone, a DELEGITTIMARE il prelievo fiscale criminoso di questo governo
rifiutandosi apertamente di pagare il prelievo fiscale quando esso raggiunge e
supera il livello complessivo del
40% del PIL italiano.
Ecco la spiegazione:
Il disegno devastante dell’Eurozona, come già detto, ci
impone il pareggio di bilancio, che significa che lo Stato spenderà per noi 50
e ci toglierà 50. A noi rimane zero in tutti i settori, dei servizi essenziali ai
mancati aumenti di reddito, impoverendoci in massa con le conseguenze che già
sono drammatiche oggi. Noi ci ribelliamo a questa condizione di cui non abbiamo
colpa, e che è a favore solo delle speculazioni di elite private. Noi
rivendichiamo il diritto di pagare MENO TASSE di quanto il governo spenda per
noi. E poiché il livello di spesa del governo oggi è del 49,8% del PIL, noi rivendichiamo
il diritto di pagare in tasse non più del 40% del PIL. Ciò sulla base del fatto
che la spesa/tassazione dello Stato deve esistere e ha un senso SOLO SE MIRATA
AL BENESSERE E AL PROGRESSO DEI SUOI CITTADINI E AZIENDE, non al loro
impoverimento criminoso, QUINDI CI DOVRA’ DI NORMA ESSERE PIU’ SPESA DELLO
STATO CHE TASSE.
Come fa quindi il cittadino ad eseguire questa intenzione?
Ecco come:
I cittadini e aziende infliggeranno al governo illegittimo e
golpista di Mario Monti una autoriduzione del prelievo fiscale a random, con
ogni mezzo disponibile non violento, come forma di RESISTENZA PASSIVA CIVICA al piano
criminoso di cui sopra, fino a portare il Paese all’impossibilità di ottenere
il pareggio di bilancio, il che costringerà finalmente la nazione all’uscita
forzata dalla camicia di forza dell’Eurozona (default), che è l’unica strada
per recuperare la SOVRANITA’ MONETARIA, che sottrarrà l’Italia al piano
criminale delle elite e la salverà dalla catastrofe. La fattibilità e la
VIRTUOSITA’ di tale default è supportata da ampia letteratura
accademico/scientifica. (**)
Conclusione:
LE TASSE FACENTI PARTE DELLE AUSTERITA’ CHE MARIO MONTI, GIORGIO
NAPOLITANO E MARIO DRAGHI CI INFLIGGONO PER FINI CRIMINOSI SONO ILLEGITTIMI
STRUMENTI DI SPOLIAZIONE DELLA DEMOCRAZIA E DEL POPOLO SOVRANO, E NON VANNO
PAGATE.
(*) Per la criminosità del presente governo si faccia
riferimento a http://www.paolobarnard.info/intervento_mostra_go.php?id=361
(**) Per la letteratura accademica e investigativa a prova
di quanto affermato si faccia riferimento a Il Più Grande Crimine 2011 e alla
bibliografia in esso citata http://www.paolobarnard.info/
e agli atti del Summit Modern Money Theory tenuto da cinque economisti di fama
internazionale a Rimini pubblicati qui http://www.democraziammt.info/
mercoledì 25 aprile 2012
Il populismo lasciamolo alla destra
Luca Casarini da Globalproject
Vorrei provare a dare uno sguardo alle elezioni francesi da un punto di vista interessato, e quindi per scelta parziale. Mi interessa capire che cosa indicano i risultati dal punto di vista della società, più che da quello della politica istituzionale.
Cominciando dal primo dato: numero dei votanti attorno all’80%, tre punti sotto il 2007. Se pensiamo che questo è il tempo della massima sfiducia nei partiti e nelle istituzioni, che la disaffezione alla politica si accompagna al deficit di sovranità e di democrazia che oggi è palese in Europa, che dalla crisi non solo nessuno sa come uscirne ma anzi, le soluzioni sono peggiori del problema, beh alla fine questo dato è ancora più dirompente. Cosa significa? Che la gente, in Francia come in Italia e in tutta Europa, alla fine a votare ci va. E in massa. Non resta a casa quasi nessuno, e probabilmente coloro che avranno gridato i mesi prima che “a votare non ci vado, sono tutti uguali, etc.” saranno stati i primi, di buon mattino, ad infilare la scheda nell’urna. Ci piaccia o no, questa è la realtà. Questo è il comportamento della “classe” difronte alle elezioni nel pieno della delegittimazione del sistema della rappresentanza. Mi si dirà che gli apparati di cattura del consenso capaci di produrre opinione pubblica e di formare immaginari, sono potentissimi. Che la gente ci va perché ha paura, perché cerca qualcosa per uscire dalla crisi, perché l’hanno convinta, perché, perché, perché. Non me ne frega niente, o meglio, tutto molto interessante. Ma il dato di realtà, ciò che fanno tutti, milioni e milioni, la stragrande maggioranza delle persone in carne ed ossa, operai, impiegati, studenti, disoccupati, e quindi quel metaforico 99% a cui ci si riferisce sempre, è che votano. Da queste parti, in Europa, è così. Traduzione: la sfiducia e l’ostilità verso il sistema della rappresentanza non si traduce in un suo rifiuto da parte dei cittadini. Quindi potremmo anche dire che la crisi della rappresentanza genera molte cose nella società, nel rapporto con i partiti, come ad esempio la percezione diffusa della fine del loro ruolo di rappresentanza degli interessi sociali, ma al voto si va lo stesso. Ma dunque perché tutti vanno a votare?
E qui la seconda considerazione: ci vanno quando è in gioco un cambio di governo possibile. Cioè nessuno vota il partito per essere rappresentato in Parlamento, ma perché si schiera, o auspica di contribuire a far si che uno schieramento, vada al governo. La crisi della rappresentanza in questo caso è piena: nessuno crede più che con il diritto di Tribuna in Parlamento del proprio partitino, possa realmente cambiare qualcosa. Non ci credono nel dal basso del corpo elettorale, né dall’alto dei gruppi dirigenti.In questo senso è finito il parlamentarismo. La grande massa degli elettori vota per il governo, non per essere rappresentata.
Una riflessione la merita però anche il cosiddetto voto di protesta, il “voto della collera” come è stato definito in Francia. Differente, a destra e a sinistra, per qualità, prospettive e quantità. L’estrema destra fa il pieno di voti come non mai, con Marine Le Pen, come qui probabilmente lo farà Grillo. Le storie diverse di queste formazioni, non devono ingannare: è il populismo becero, tendenzialmente xenofobo e arrogante, che ha sia nella versione antieuropeista e nazionalista della Le Pen, sia nella versione tecnoqualunquista di Grillo, una matrice comune. E’ il populismo demagogico, quello di chi la spara più grossa, al quale già la Lega ci aveva abituato. I populismi hanno origini e carismi diversi, a seconda dell’aggregatore che li organizza, ma alla fine tendono ad incontrarsi tutti, e tutti sugli stessi punti: gli immigrati basta cacciarli, dall’euro basta uscire, l’europa basta che sia un campo di combattimento tra patrie o stati o visioni tecnologiche, e così via. Sarebbe un errore pensare che Marine Le Pen è più “nazista” di Grillo: sono e diverranno sempre più populisti di destra, e raccoglieranno consensi perché in questa chiave leggeranno la crisi. Ed è più facile oggi convincere con questi argomenti “il popolo”, che non con la solidarietà, la democrazia, il bene comune. La quantità di voti, come dimostra la Francia e dimostrerà l’Italia tra poco, è molto più alta verso queste formazioni che a sinistra.
O per dirla meglio: il populismo di sinistra, che pure caratterizza spesso la narrazione facilona costruita dalla propaganda per ricevere il voto, è troppo timido, ha troppi problemi di coscienza per sfondare: il complotto delle banche e della finanza sono discorsi che trovi a destra come a sinistra, ma se non ci aggiungi che gli zingari vanno cacciati dai quartieri, che i posti di lavoro devono essere riservati agli autoctoni, che gli immigrati portano le malattie etc, etc., le preferenze si orienteranno per il populismo più forte, più radicale, senza mediazioni. E questo riguarda le prospettive della polarizzazione a sinistra, de “la rive gauche”. Anche qui c’è una grande differenza con la destra. Melenchon, con il suo risultato inferiore a ciò che era stato previsto (addirittura doppiato da quel Front National che doveva battere) non ha potuto far altro che annunciare il suo sostegno, per il secondo turno, ad Hollande. Intanto perché parte di coloro che l’avevano votato, al secondo turno comunque voteranno contro Sarkozy. Il secondo motivo è che solo in coalizione ci sono chances. Invece la destra non ha di questi problemi. L’appello della Le Pen “ai patrioti di destra e di sinistra” rivela un disegno più complesso sull’interpretazione appunto del voto di protesta. Un disegno che dimostra come la prospettiva del populismo di destra possa contare su una maggiore ampiezza di percorso. E anche su una maggiore indipendenza da Sarkozy. Infatti la sconfitta di Sarkò non sarebbe poi così male per il FN, che diventerebbe il polo rinnovato sul quale riorganizzare una destra disintegrata dopo l’avventura fallimentare “dell’ungherese”.
Tutto questo che cosa ci dice, sempre da quel punto di vista parziale di cui sopra? Che ad esempio in questa fase la grande questione è come organizzare FUORI dalla dinamica e dalla finalità elettorale, un blocco sociale capace di leggere la crisi e affrontarla “da sinistra” senza cadere nel populismo. Assistiamo a tempi nei quali la vicenda elettorale viene utilizzata come motore per organizzare il soggetto sociale e politico. Ciò che accade in Francia e che si ripeterà probabilmente in Italia su quel versante, ci dimostra che invece il problema non si aggira: è fuori e prima che il soggetto politico e sociale deve prendere forma, organizzarsi attraverso processi che hanno al centro la capacità di esercitare una forza attraverso il conflitto contro la governace della crisi. E’ evidente che ciò che accadrà in Francia e in Germania, e tantopiù in Italia dal punto di vista delle elezioni, deve interessarci, ma potremo non esserne travolti o ubriacati solo se ancoriamo nella società reale e non solo in funzione delle elezioni, la costruzione di nuova soggettività.
Le elezioni, come fanno anche gli elettori, vanno prese per quello che sono: non vi sono rappresentabili interessi generali, non vi sono parlamenti in cui sperare di avere qualche posto per fare “da sponda alle lotte sociali”. Vi sono lotte sociali e governi, e si scontrano o dialetizzano direttamente. Vi sono dinamiche di governance che possono incepparsi a causa di contraddizioni che rivelano diverse tendenze intercapitalistiche, di gestione della crisi. Se uno legge le dichiarazioni di questi giorni che il board del Fondo Monetario ha fatto uscire attaccando la conduzione tedesca delle politiche di austerity, comprende che non siamo in presenza di una granitica ed omogenea espressione di interessi comuni, quando parliamo della governance. Vi sono linee di tendenza diverse, che dipendono da molte questioni. Il FMI auspica l’introduzione degli Eurobond, la fine del rigorismo della Bundesbank, il ritorno a politiche monetarie espansive che invertano la recessione. E perché, forse che Madame Lagarde si è scoperta socialista? Semplicemente se l’Europa non è più in grado di acquistare merci americane e cinesi, costituisce un problema. Perché l’Europa non è solo la Germania che esporta. E quindi Hollande, paradossalmente, forse è più sostenuto che non avversato in questo momento, da una delle grandi centrali della governance globale che auspica un cambio in Europa, della politica imposta dalla Germania.
Questi cambi, questi inceppamenti e fibrillazioni sulla dimensione del comando, a chi sta fuori possono far bene. Senza mai pensare che risolvano, in radice, i problemi. Solo una combinazione di molti fattori, fuori e dentro le istituzioni, e fuori e dentro l’Europa, possono determinare cicli di cambiamento, fasi di indebolimento della dinamica di controllo sui processi di crisi e quindi momenti di espansione dell’alternativa. Ma se non si consolidano nella società vittorie concrete, come ad esempio quella sull’articolo 18, sul salario e il reddito, non vi sarà nessun cambiamento per via elettorale. Soprattutto non vi sarà se si pensa di poter rappresentare per via elettorale, ciò che si muove fuori dai palazzi. Non è più possibile farlo, se mai lo è stato. Oggi chi sceglie di presentarsi alle elezioni, dovrebbe avere il coraggio di dire perché lo fa. E se ci racconta che è per uscire dalla Nato o nazionalizzare le banche, ci sta prendendo per il culo. Alla gente invece, quella vera, non la imbroglierà. Perché voteranno Grillo, che insieme all’uscita dall’euro propone la cacciata dei Rom. La prima non la otterrà mai, ma la seconda è sempre a portata di mano.
Da fuori possiamo e dobbiamo interloquire con chi sceglie di proporsi alle elezioni come alternativo a ciò che esiste ora. Ma senza tanti discorsi. Su questioni concrete. Come concreta è la constatazione che con il 2% dei voti, o il 4 non stai discutendo con niente, ma solo con qualcuno che ha il problema della rappresentanza propria.
Vorrei provare a dare uno sguardo alle elezioni francesi da un punto di vista interessato, e quindi per scelta parziale. Mi interessa capire che cosa indicano i risultati dal punto di vista della società, più che da quello della politica istituzionale.
Cominciando dal primo dato: numero dei votanti attorno all’80%, tre punti sotto il 2007. Se pensiamo che questo è il tempo della massima sfiducia nei partiti e nelle istituzioni, che la disaffezione alla politica si accompagna al deficit di sovranità e di democrazia che oggi è palese in Europa, che dalla crisi non solo nessuno sa come uscirne ma anzi, le soluzioni sono peggiori del problema, beh alla fine questo dato è ancora più dirompente. Cosa significa? Che la gente, in Francia come in Italia e in tutta Europa, alla fine a votare ci va. E in massa. Non resta a casa quasi nessuno, e probabilmente coloro che avranno gridato i mesi prima che “a votare non ci vado, sono tutti uguali, etc.” saranno stati i primi, di buon mattino, ad infilare la scheda nell’urna. Ci piaccia o no, questa è la realtà. Questo è il comportamento della “classe” difronte alle elezioni nel pieno della delegittimazione del sistema della rappresentanza. Mi si dirà che gli apparati di cattura del consenso capaci di produrre opinione pubblica e di formare immaginari, sono potentissimi. Che la gente ci va perché ha paura, perché cerca qualcosa per uscire dalla crisi, perché l’hanno convinta, perché, perché, perché. Non me ne frega niente, o meglio, tutto molto interessante. Ma il dato di realtà, ciò che fanno tutti, milioni e milioni, la stragrande maggioranza delle persone in carne ed ossa, operai, impiegati, studenti, disoccupati, e quindi quel metaforico 99% a cui ci si riferisce sempre, è che votano. Da queste parti, in Europa, è così. Traduzione: la sfiducia e l’ostilità verso il sistema della rappresentanza non si traduce in un suo rifiuto da parte dei cittadini. Quindi potremmo anche dire che la crisi della rappresentanza genera molte cose nella società, nel rapporto con i partiti, come ad esempio la percezione diffusa della fine del loro ruolo di rappresentanza degli interessi sociali, ma al voto si va lo stesso. Ma dunque perché tutti vanno a votare?
E qui la seconda considerazione: ci vanno quando è in gioco un cambio di governo possibile. Cioè nessuno vota il partito per essere rappresentato in Parlamento, ma perché si schiera, o auspica di contribuire a far si che uno schieramento, vada al governo. La crisi della rappresentanza in questo caso è piena: nessuno crede più che con il diritto di Tribuna in Parlamento del proprio partitino, possa realmente cambiare qualcosa. Non ci credono nel dal basso del corpo elettorale, né dall’alto dei gruppi dirigenti.In questo senso è finito il parlamentarismo. La grande massa degli elettori vota per il governo, non per essere rappresentata.
Una riflessione la merita però anche il cosiddetto voto di protesta, il “voto della collera” come è stato definito in Francia. Differente, a destra e a sinistra, per qualità, prospettive e quantità. L’estrema destra fa il pieno di voti come non mai, con Marine Le Pen, come qui probabilmente lo farà Grillo. Le storie diverse di queste formazioni, non devono ingannare: è il populismo becero, tendenzialmente xenofobo e arrogante, che ha sia nella versione antieuropeista e nazionalista della Le Pen, sia nella versione tecnoqualunquista di Grillo, una matrice comune. E’ il populismo demagogico, quello di chi la spara più grossa, al quale già la Lega ci aveva abituato. I populismi hanno origini e carismi diversi, a seconda dell’aggregatore che li organizza, ma alla fine tendono ad incontrarsi tutti, e tutti sugli stessi punti: gli immigrati basta cacciarli, dall’euro basta uscire, l’europa basta che sia un campo di combattimento tra patrie o stati o visioni tecnologiche, e così via. Sarebbe un errore pensare che Marine Le Pen è più “nazista” di Grillo: sono e diverranno sempre più populisti di destra, e raccoglieranno consensi perché in questa chiave leggeranno la crisi. Ed è più facile oggi convincere con questi argomenti “il popolo”, che non con la solidarietà, la democrazia, il bene comune. La quantità di voti, come dimostra la Francia e dimostrerà l’Italia tra poco, è molto più alta verso queste formazioni che a sinistra.
O per dirla meglio: il populismo di sinistra, che pure caratterizza spesso la narrazione facilona costruita dalla propaganda per ricevere il voto, è troppo timido, ha troppi problemi di coscienza per sfondare: il complotto delle banche e della finanza sono discorsi che trovi a destra come a sinistra, ma se non ci aggiungi che gli zingari vanno cacciati dai quartieri, che i posti di lavoro devono essere riservati agli autoctoni, che gli immigrati portano le malattie etc, etc., le preferenze si orienteranno per il populismo più forte, più radicale, senza mediazioni. E questo riguarda le prospettive della polarizzazione a sinistra, de “la rive gauche”. Anche qui c’è una grande differenza con la destra. Melenchon, con il suo risultato inferiore a ciò che era stato previsto (addirittura doppiato da quel Front National che doveva battere) non ha potuto far altro che annunciare il suo sostegno, per il secondo turno, ad Hollande. Intanto perché parte di coloro che l’avevano votato, al secondo turno comunque voteranno contro Sarkozy. Il secondo motivo è che solo in coalizione ci sono chances. Invece la destra non ha di questi problemi. L’appello della Le Pen “ai patrioti di destra e di sinistra” rivela un disegno più complesso sull’interpretazione appunto del voto di protesta. Un disegno che dimostra come la prospettiva del populismo di destra possa contare su una maggiore ampiezza di percorso. E anche su una maggiore indipendenza da Sarkozy. Infatti la sconfitta di Sarkò non sarebbe poi così male per il FN, che diventerebbe il polo rinnovato sul quale riorganizzare una destra disintegrata dopo l’avventura fallimentare “dell’ungherese”.
Tutto questo che cosa ci dice, sempre da quel punto di vista parziale di cui sopra? Che ad esempio in questa fase la grande questione è come organizzare FUORI dalla dinamica e dalla finalità elettorale, un blocco sociale capace di leggere la crisi e affrontarla “da sinistra” senza cadere nel populismo. Assistiamo a tempi nei quali la vicenda elettorale viene utilizzata come motore per organizzare il soggetto sociale e politico. Ciò che accade in Francia e che si ripeterà probabilmente in Italia su quel versante, ci dimostra che invece il problema non si aggira: è fuori e prima che il soggetto politico e sociale deve prendere forma, organizzarsi attraverso processi che hanno al centro la capacità di esercitare una forza attraverso il conflitto contro la governace della crisi. E’ evidente che ciò che accadrà in Francia e in Germania, e tantopiù in Italia dal punto di vista delle elezioni, deve interessarci, ma potremo non esserne travolti o ubriacati solo se ancoriamo nella società reale e non solo in funzione delle elezioni, la costruzione di nuova soggettività.
Le elezioni, come fanno anche gli elettori, vanno prese per quello che sono: non vi sono rappresentabili interessi generali, non vi sono parlamenti in cui sperare di avere qualche posto per fare “da sponda alle lotte sociali”. Vi sono lotte sociali e governi, e si scontrano o dialetizzano direttamente. Vi sono dinamiche di governance che possono incepparsi a causa di contraddizioni che rivelano diverse tendenze intercapitalistiche, di gestione della crisi. Se uno legge le dichiarazioni di questi giorni che il board del Fondo Monetario ha fatto uscire attaccando la conduzione tedesca delle politiche di austerity, comprende che non siamo in presenza di una granitica ed omogenea espressione di interessi comuni, quando parliamo della governance. Vi sono linee di tendenza diverse, che dipendono da molte questioni. Il FMI auspica l’introduzione degli Eurobond, la fine del rigorismo della Bundesbank, il ritorno a politiche monetarie espansive che invertano la recessione. E perché, forse che Madame Lagarde si è scoperta socialista? Semplicemente se l’Europa non è più in grado di acquistare merci americane e cinesi, costituisce un problema. Perché l’Europa non è solo la Germania che esporta. E quindi Hollande, paradossalmente, forse è più sostenuto che non avversato in questo momento, da una delle grandi centrali della governance globale che auspica un cambio in Europa, della politica imposta dalla Germania.
Questi cambi, questi inceppamenti e fibrillazioni sulla dimensione del comando, a chi sta fuori possono far bene. Senza mai pensare che risolvano, in radice, i problemi. Solo una combinazione di molti fattori, fuori e dentro le istituzioni, e fuori e dentro l’Europa, possono determinare cicli di cambiamento, fasi di indebolimento della dinamica di controllo sui processi di crisi e quindi momenti di espansione dell’alternativa. Ma se non si consolidano nella società vittorie concrete, come ad esempio quella sull’articolo 18, sul salario e il reddito, non vi sarà nessun cambiamento per via elettorale. Soprattutto non vi sarà se si pensa di poter rappresentare per via elettorale, ciò che si muove fuori dai palazzi. Non è più possibile farlo, se mai lo è stato. Oggi chi sceglie di presentarsi alle elezioni, dovrebbe avere il coraggio di dire perché lo fa. E se ci racconta che è per uscire dalla Nato o nazionalizzare le banche, ci sta prendendo per il culo. Alla gente invece, quella vera, non la imbroglierà. Perché voteranno Grillo, che insieme all’uscita dall’euro propone la cacciata dei Rom. La prima non la otterrà mai, ma la seconda è sempre a portata di mano.
Da fuori possiamo e dobbiamo interloquire con chi sceglie di proporsi alle elezioni come alternativo a ciò che esiste ora. Ma senza tanti discorsi. Su questioni concrete. Come concreta è la constatazione che con il 2% dei voti, o il 4 non stai discutendo con niente, ma solo con qualcuno che ha il problema della rappresentanza propria.
Nichi Vendola: pronti a mettere insieme ogni nuova energia
Daniela Preziosi da soggettopoliticonuovo (Il Manifesto 25 aprile 2012)
«Su Hollande in Italia si fa una discussione tutta allusiva, il suo programma è chiaro, Monti sta anche più a destra di Sarkozy. Bersani mi ascolti: in Italia c’è una miscela esplosiva anche più che in Francia, le politiche di rigore del governo sono un fallimento. E il prezzo rischia di finire tutto sulle spalle del centrosinistra». «Sel sabato sarà a Firenze, vogliamo interloquire con il ‘non-partito’»
La discussione italiana sulla vittoria di Hollande, dice Nichi
Vendola al telefono, dalla macchina con cui in questi giorni sta girando
l’Italia per la campagna elettorale ogni volta che può lasciare la
Puglia, «è tutta allusiva e simbolica, non considera i programmi. C’è la
gara a intestarsela, fino persino all’hollandismo di Tremonti. Non ci
si accorge che il profilo politico-programmatico di Monti è quanto di
più distante da Hollande. È anche un po’ più a destra di Sarkozy. E
questo perché i politici liberisti, a differenza dei tecnici liberisti,
un qualche problema di rapporto con il welfare ce l’hanno. Le cose che
dice Hollande, per esempio la tassazione dei patrimoni, l’abbassamento
dell’età pensionabile, la rinegoziazione del fiscal compact, in Italia
sarebbero definite ‘una deriva estremistica’».
Sta dicendo che Bersani dovrebbe decidere se stare con Hollande o con Monti?
Dobbiamo riflettere sul Front national, su quei 6 milioni e mezzo che hanno scelto la politica della collera e del sentimento. Anche in Italia siamo in presenza di una miscela esplosiva: recessione senza un varco di luce, disoccupazione di massa, crollo di credibilità dei partiti. A Bersani dico: le ricette del governo Monti si rivelano un fallimento, e il prezzo può essere messo per intero sulle spalle del centrosinistra. Occorre dare un segnale forte, non con la politica-spettacolo o con il marketing elettorale. Occorre convocare gli stati generali del futuro con tutti i soggetti portatori di domanda di alternativa. I partiti del centrosinistra debbono mobilitare tutte le forze in campo, connettersi ai mondi che nell’associazionismo, nel volontariato, nell’intellettualità, nell’università, nella fabbrica, nelle reti degli amministratori, provano a ragionare sull’uscita dal liberismo.
Oggi Bersani dice: sì a ratificare il fiscal compact, purché integrato con politiche di crescita.
Io sottoscrivo il programma di Hollande che critica il dogma liberista. Che comanda, per esempio, agli stati nazionali di mettere in Costituzione il pareggio di bilancio.
Altro provvedimento a cui il Pd ha detto sì.
Errore gravissimo. E comunque ormai è evidente che le ricette dell’austerità sono catastrofiche. Portano alla Grecia, un paese che dopo gli incalzanti salassi sociali ed economici si ritrova con un debito doppio rispetto all’inizio della crisi. Infatti è scomparsa dai Tg. Molti si vergognerebbero di parlarne.
In Francia Mélenchon dice cose simili a queste, sulla Grecia.
Mélenchon ha fatto un risultato importante. Ma la mia priorità è l’idea di invertire la tendenza in Europa. Puntando sul fatto che le sinistra in Europa cominciano a mettere a tema la fuoriuscita dal liberismo. L’Italia è in ritardo. Se io dicessi le cose che dice un premio Nobel come Paul Krugman, qualche cicisbeo presunto progressista mi taccerebbe di radicalismo.
Questi suoi stati generali sono parenti del soggetto politico nuovo che farà la sua prima assemblea a Firenze sabato prossimo?
Sel è nata sulla pratica di una ricerca senza paletti, nominando l’inadeguatezza della forma partito, inclusa la propria. Sono interessato al soggetto nuovo. Chi lo promuove ragiona in chiave metodologica e con molti argomenti, alcuni dei quali condivisbili, altri meritevoli di approfondimento. Un asse culturale che Rossana Rossanda ha criticato con veemenza, segnalando uno scivolamento fuori dalla centralità della questione del lavoro.
La pensa anche lei così?
Voglio discuterne. A Firenze non ci sarò, in questi giorni sono in campagna elettorale. Ma Sel ci sarà. Ascolteremo, parleremo. Vogliamo essere interlocutori. Lo siamo sempre di chi si chiede come aggregare forze, energie, massa critica di esperienze e desideri per mettere in campo una sinistra libertaria, non testimoniale e anche affascinata dalla sfida del governo.
Ma l’obiettivo di Sel resta quello di un’alleanza più vasta?
Al centro della costruzione dell’alleanza bisogna metterci che Italia vogliamo. Occorre un supplemento di riflessione a proposito dei moderati e del moderatismo, categorie assunte dalla discussione pubblica alla stregua di formule magiche. La realtà ci dice che non ci sono più spazi di compromesso con il liberismo, e che il liberismo è una minaccia per gli equilibri ambientali, sociali e democratici.
La campagna delle amministrative del Pd si intitola «Italia bene comune». I «beni comuni», asset programmatico del «soggetto politico nuovo» fanno nuovi adepti, oppure Bersani si è appropriato di uno slogan che funziona?
Sono contento dell’arricchirsi del vocabolario del centrosinistra. Ma se il lavoro è un bene comune bisogna lottare contro la legge 30 e in difesa dell’art.18. E se l’Italia è un bene comune bisogna salvarla dal rigorismo furioso di chi la sta portando in una drammatica depressione economica. E bisogna avere il coraggio di imporre la tassazione patrimoniale sui grandi redditi e le grandi ricchezze. Non è possibile ascoltare da un esponente del governo che ‘la patrimoniale l’abbiamo già fatta con l’Imu’, come ha detto il viceministro Grilli. Quella è la patrimoniale sui ceti medio-bassi: ma ne aveva già fatte Berlusconi.
Il manifesto del ‘soggetto nuovo’ fa una dura critica ai partiti.La sentite anche su di voi?
Siamo un ‘soggetto’, non gonfio di boria di partito, nato tematizzando la necessità della ricerca per un nuovo soggetto politico. L’obiettivo di Sel non è Sel, è contribuire alla nascita di una sinistra popolare, plurale, innovativa. Possiamo portare un contributo. Intanto dicendo che i rischi da evitare sono due: un dibattito tutto metodologico e le scorciatoie organizzativistiche.
Fate parte di un’area, un ‘quarto polo’ in cerca, come dice Arturo Parisi, di un nuovo Prodi?
Abbiamo bisogno di leader e non di leaderismo. Di progetti collettivi più che di demiurghi. Il carisma necessario al cambiamento dev’essere quello della democrazia, non quello delle virtù individuali.
Il Bersani che ha appoggiato Monti ma ora tifa per Hollande è ancora l’uomo giusto per guidare la prossima alleanza di centrosinistra?
Bersani è un interlocutore prezioso, il popolo democratico è fondamentale per la prospettiva di alternativa di governo. L’alleanza non è un fermo-immagine, è un processo politico. Come è successo nei referendum, l’irruzione di un protagonismo largo e orizzontale può spostare in avanti l’asse programmatico e culturale di una coalizione. Per questo parlo di stati generali del futuro. Anche il centrosinistra ha bisogno di proiettarsi nel futuro.
Berlusconi dice che la sinistra, intendendo però Bersani, vuole andare al voto a ottobre senza fare nuova legge elettorale. A lei l’idea non dispiacerebbe.
A proposito della legge elettorale, ricordo che il mestiere della politica non è quello del Gattopardo. Quanto al voto, l’inconcludenza del governo Monti dal punto di vista delle politiche di sviluppo e di crescita, e la pesantezza depressiva delle sue scelte, implementa la sofferenza del paese. Prima si interrompe quest’esperienza meglio è.
Sta dicendo che Bersani dovrebbe decidere se stare con Hollande o con Monti?
Dobbiamo riflettere sul Front national, su quei 6 milioni e mezzo che hanno scelto la politica della collera e del sentimento. Anche in Italia siamo in presenza di una miscela esplosiva: recessione senza un varco di luce, disoccupazione di massa, crollo di credibilità dei partiti. A Bersani dico: le ricette del governo Monti si rivelano un fallimento, e il prezzo può essere messo per intero sulle spalle del centrosinistra. Occorre dare un segnale forte, non con la politica-spettacolo o con il marketing elettorale. Occorre convocare gli stati generali del futuro con tutti i soggetti portatori di domanda di alternativa. I partiti del centrosinistra debbono mobilitare tutte le forze in campo, connettersi ai mondi che nell’associazionismo, nel volontariato, nell’intellettualità, nell’università, nella fabbrica, nelle reti degli amministratori, provano a ragionare sull’uscita dal liberismo.
Oggi Bersani dice: sì a ratificare il fiscal compact, purché integrato con politiche di crescita.
Io sottoscrivo il programma di Hollande che critica il dogma liberista. Che comanda, per esempio, agli stati nazionali di mettere in Costituzione il pareggio di bilancio.
Altro provvedimento a cui il Pd ha detto sì.
Errore gravissimo. E comunque ormai è evidente che le ricette dell’austerità sono catastrofiche. Portano alla Grecia, un paese che dopo gli incalzanti salassi sociali ed economici si ritrova con un debito doppio rispetto all’inizio della crisi. Infatti è scomparsa dai Tg. Molti si vergognerebbero di parlarne.
In Francia Mélenchon dice cose simili a queste, sulla Grecia.
Mélenchon ha fatto un risultato importante. Ma la mia priorità è l’idea di invertire la tendenza in Europa. Puntando sul fatto che le sinistra in Europa cominciano a mettere a tema la fuoriuscita dal liberismo. L’Italia è in ritardo. Se io dicessi le cose che dice un premio Nobel come Paul Krugman, qualche cicisbeo presunto progressista mi taccerebbe di radicalismo.
Questi suoi stati generali sono parenti del soggetto politico nuovo che farà la sua prima assemblea a Firenze sabato prossimo?
Sel è nata sulla pratica di una ricerca senza paletti, nominando l’inadeguatezza della forma partito, inclusa la propria. Sono interessato al soggetto nuovo. Chi lo promuove ragiona in chiave metodologica e con molti argomenti, alcuni dei quali condivisbili, altri meritevoli di approfondimento. Un asse culturale che Rossana Rossanda ha criticato con veemenza, segnalando uno scivolamento fuori dalla centralità della questione del lavoro.
La pensa anche lei così?
Voglio discuterne. A Firenze non ci sarò, in questi giorni sono in campagna elettorale. Ma Sel ci sarà. Ascolteremo, parleremo. Vogliamo essere interlocutori. Lo siamo sempre di chi si chiede come aggregare forze, energie, massa critica di esperienze e desideri per mettere in campo una sinistra libertaria, non testimoniale e anche affascinata dalla sfida del governo.
Ma l’obiettivo di Sel resta quello di un’alleanza più vasta?
Al centro della costruzione dell’alleanza bisogna metterci che Italia vogliamo. Occorre un supplemento di riflessione a proposito dei moderati e del moderatismo, categorie assunte dalla discussione pubblica alla stregua di formule magiche. La realtà ci dice che non ci sono più spazi di compromesso con il liberismo, e che il liberismo è una minaccia per gli equilibri ambientali, sociali e democratici.
La campagna delle amministrative del Pd si intitola «Italia bene comune». I «beni comuni», asset programmatico del «soggetto politico nuovo» fanno nuovi adepti, oppure Bersani si è appropriato di uno slogan che funziona?
Sono contento dell’arricchirsi del vocabolario del centrosinistra. Ma se il lavoro è un bene comune bisogna lottare contro la legge 30 e in difesa dell’art.18. E se l’Italia è un bene comune bisogna salvarla dal rigorismo furioso di chi la sta portando in una drammatica depressione economica. E bisogna avere il coraggio di imporre la tassazione patrimoniale sui grandi redditi e le grandi ricchezze. Non è possibile ascoltare da un esponente del governo che ‘la patrimoniale l’abbiamo già fatta con l’Imu’, come ha detto il viceministro Grilli. Quella è la patrimoniale sui ceti medio-bassi: ma ne aveva già fatte Berlusconi.
Il manifesto del ‘soggetto nuovo’ fa una dura critica ai partiti.La sentite anche su di voi?
Siamo un ‘soggetto’, non gonfio di boria di partito, nato tematizzando la necessità della ricerca per un nuovo soggetto politico. L’obiettivo di Sel non è Sel, è contribuire alla nascita di una sinistra popolare, plurale, innovativa. Possiamo portare un contributo. Intanto dicendo che i rischi da evitare sono due: un dibattito tutto metodologico e le scorciatoie organizzativistiche.
Fate parte di un’area, un ‘quarto polo’ in cerca, come dice Arturo Parisi, di un nuovo Prodi?
Abbiamo bisogno di leader e non di leaderismo. Di progetti collettivi più che di demiurghi. Il carisma necessario al cambiamento dev’essere quello della democrazia, non quello delle virtù individuali.
Il Bersani che ha appoggiato Monti ma ora tifa per Hollande è ancora l’uomo giusto per guidare la prossima alleanza di centrosinistra?
Bersani è un interlocutore prezioso, il popolo democratico è fondamentale per la prospettiva di alternativa di governo. L’alleanza non è un fermo-immagine, è un processo politico. Come è successo nei referendum, l’irruzione di un protagonismo largo e orizzontale può spostare in avanti l’asse programmatico e culturale di una coalizione. Per questo parlo di stati generali del futuro. Anche il centrosinistra ha bisogno di proiettarsi nel futuro.
Berlusconi dice che la sinistra, intendendo però Bersani, vuole andare al voto a ottobre senza fare nuova legge elettorale. A lei l’idea non dispiacerebbe.
A proposito della legge elettorale, ricordo che il mestiere della politica non è quello del Gattopardo. Quanto al voto, l’inconcludenza del governo Monti dal punto di vista delle politiche di sviluppo e di crescita, e la pesantezza depressiva delle sue scelte, implementa la sofferenza del paese. Prima si interrompe quest’esperienza meglio è.
martedì 24 aprile 2012
La finanza spiegata ai gatti
Un piccolo ripasso non guasta
da Il Manifesto
Tra tutti i problemi che porta la crisi economica, c’è pure quello della lettura dei giornali. Quotidiani, settimanali e persino i siti internet sono ormai invasi da termini e concetti inafferrabili, propri di un linguaggio tecnico, quello dell’economia e in particolare della finanza. Mondo distante dalla testa (e dal cuore) della maggior parte delle persone, ma vicinissimo ai loro portafogli. Se la previsione di tracolli e Armageddon neanche tanto lontani provoca comprensibile ansia, non aiuta il fatto di non capirci un’acca quando cerchiamo di fare il punto, di mettere in fila le informazioni, di strutturare le nostre conoscenze. E’ anche attraverso questo tecnicismo che la finanza divora i nostri risparmi. E che banche e governi sciorinano “soluzioni” , ad armi impari.
I giornalisti, da parte loro, un po’ sono costretti a utilizzare quel linguaggio, e un po’ si fanno prendere dal “gioco” dimenticando i loro lettori.
Allora, visto che siamo arrivati alla resa dei conti, è ora di vederci chiaro. Contro i pescecani della finanza, schieriamo la gatta Savana. Sui giornali si è sempre rifatta le unghie, ma di fronte a certi titoloni appare perplessa. Le piace tenere tutto sotto controllo, ed è diffidente di natura. Chi l’ha detto che la finanza non è a misura di gatto? Guidata da esperti di economia di rango – tutti amanti dei gatti, va da sé – Savana riuscirà a godersi di nuovo i suoi giornali.
Avviso ai pescecani: quando si arrabbia, graffia.
Il manifesto 24 luglio pag. 9
“I portavoce dell’hedge fund Paul Johnson hanno preferito non commentare la notizia di grossi guadagni realizzati giocando sul debito sovrano greco. Non commentare è la prassi per qualsiasi hedge fund. (…)La finanza delle scommesse è oggi cosi redditizia che Citygroup – una delle banche che ha ricevuto oltre 45 miliardi di dollari da Obama per il proprio salvataggio – ha infranto tutte le regole pur di restare nel mercato piu lucrativo. Per avere il prestito bisognava rinunciare ad entrare nel mercato dei derivati con i propri soldi per non rischiare il capitale. Citygroup non l’ha fatto e alle autorità ha risposto che solo facendo cosi avrebbe potuto restituire il prestito.”
Spiega Antonio Tricarico
Cos’è un hedge fund?
Innanzitutto gli hedge fund sono delle società (degli strumenti finanziari gestiti da società di risparmio)*, di cui peraltro la stragrande maggioranza è registrata nei paradisi fiscali. Un hedge fund è un fondo altamente speculativo (una precisazione: qualsiasi investimento sui mercati finanziari tende ad essere speculativo, tende cioè a prevedere una certa situazione del mercato con l’obiettivo di avere ritorni molto superiori ). Questi fondi si basano su questo principio: sul mercato finanziario tendono a fare investimenti a lungo termine, e usano questa “esposizione debitoria” per fare successivi investimenti a breve termine e molto più rischiosi generando così capitale. Per fare un esempio: un hedge fund decide di prendere in prestito grosse somme di mercato attraverso una banca e con questi soldi (che in realtà sono un debito) opera sui mercati finanziari in modo spericolato, investendo su titoli a breve termine e molto rischiosi, ma che proprio perché sono rischiosi danno molti interessi e molti ritorni che vengono incassati in poco tempo. Questo tipo di comportamento sui mercati finanziari può essere considerato “piratesco” per due motivi: gli investimenti a breve termine vengono fattei con vere e proprie scommesse e senza avere tutti i soldi a disposizione. Si può impegnare anche solo un 5% della somma necessaria e incassare anche il 30 o il 40% di profitto. Il secondo motivo è che questi tipi di titoli – molto rischiosi – sono legati a situazioni svantaggiose (altrimenti non avrebbero grossi ritorni). Quindi gli hedge fund tendono a scommettere sui default dei paesi, sui fallimenti di società e così via. Gli hedge fund in genere non sono collegati al sistema bancario, anche se alcune banche stanno mettendo in piedi i loro fondi speculativi.
Cosa sono i derivati?
I derivati sono dei contratti, in origine sono nati come una forma di contratti assicurativi. Questi pezzi di carta hanno un valore di per sé, che si basa su un “bene sottostante”, che può essere una quantità fisica – grano, petrolio – o delle azioni. Il valore dei derivati deriva dal fatto che si scommette sul prezzo futuro o sui comportamenti finanziari di quel “bene sottostante”. Un esempio: A e B stipulano un derivato in cui A si impegna a comprare entro dieci giorni da B una tonnellata di petrolio. Poniamo che al momento della stipula una tonnellata di petrolio costi 100. Il derivato scommette che entro dieci giorni il prezzo sarà calato a 90. Il problema e’ che oggi la stragrande maggioranza di questi contratti sono utilizzati da puri attori finanziari che non producono nulla. Avendo un valore in sé il contratto cosa succede? Se grandi moli di capitali oggi siglano 1 milione di contratti derivati, per un valore di non si sa quanti miliardi di dollari, e scommettono che una tonnellata di petrolio tra dieci giorni costerà 90 anziché 100 si verifica una spinta talmente forte da diventare reale, e il mercato del petrolio si adeguerà a quel prezzo. E’ quella che si chiama finanziarizzazione. Oggi i più grandi trader energetici, cioè i soggetti che spostano le petroliere, non sono più le multinazionali del petrolio ma grosse banche di affari. C’è dunque una commistione pericolosa e inquinante: è chiaro che chi sta scommettendo sul prezzo del petrolio in realtà sa quando quella petroliera arriverà in porto, a quali condizioni. Dunque tutto il “gioco” è truccato. Inoltre la stragrande maggioranza di questi derivati non vengono neanche registrati dalle borse valori. Sono contratti e scommesse che vengono giocati su mercat non regolamentari (in gergo otc – over the counter).
*In neretto trovate delle specificazioni che abbiamo inserito dopo alcune osservazioni di un lettore, che trovate nei commenti.
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Il Manifesto
domenica 22 aprile 2012
Lista Civica Nazionale (di destra)
Se accadrà, vorrà dire che sono stato
un buon profeta. Avevo già paventato da tempo la possibilità che
Berlusconi rubasse l'idea di una lista civica nazionale al fronte
benecomunista e forse sta per accadere sul serio. Sembra che fra le
novità di Angelino Alfano ci sia una Lista Civica Nazionale da
affiancare al nuovo partito in gestazione, “la grande novità”
attesa per dopo le amministrative. Ovvio che non c'è nulla di realmente nuovo nella politica berlusconiana, e il riproporre modelli di comunicazione e di marketing, basati
solo sull'effetto annuncio, sa di vecchio, la solita sparata da
piazzisti di mercato. Il punto però non è questo, il
punto è che forse il Pdl ha colto la potenzialità di
una lista civica nazionale quale aggregatore di soggetti politici e
sociali percepiti come autonomi e apparentemente liberi dalla zavorra
di un partito decotto e ampiamente sputtanato, e che tenti di sfruttarla
alla meglio. E' una cosa da non sottovalutare. Probabilmente
Berlusconi metterà dentro la lista personalità altinsonati del
mondo della cultura, dello spettacolo ed anche dell'industria, come
specchietto per le allodole, e dietro le fila magari piazzerà di
sopiatto il solito stuolo di nani e ballerine a compenso dei loro
servigi. Basterà questo a far dimenticare agli italiani le malefatte di
questi signori? La gente ha la memoria corta si dice, e forse è
vero, ma sicuramente la forza di Berlusconi sta nell'offrire al suo elettorato - il quale si sa ha uno stomaco forte e a cui poco importa se hai legami con la mafia o cosucce del genere - un valido pretesto per ricompattarsi. Di sicuro con le batterie di fuoco mediatico delle armate
berlusconiane insieme ad una totale mancanza di scrupoli morali, si
possono fare miracoli, lo dimostra la storia di questi ultimi venti
anni, quando più di una volta Berlusconi è stato dato per
spacciato, ma grazie ad una strategia che ha miscelato un'abile
propaganda all'occupazione sistematica di tutti gli spazi pubblici e
privati, è sempre resuscitato. La società civile italiana sana,
quella che rappresenta la parte migliore del paese, paga lo scotto di
un ritardo notevole nel mettere a punto strategie di aggregazione e
di conquista del consenso in grado di rapresentare un'alternativa
politica credibile. Solo negli ultimi tempi ci si è accorti che
occorre fornire una sponda ad un soggeto politico
probabilmente maggioritario nella società italiana, ma frammentario
e attraversato da una conflittualità endemica, che rappresenta tutti
coloro che hanno a cuore il bene comune. Si è parlato di liste
civiche nazionali e di soggetti politici nuovi, ma si ha
l'impressione che tali proposte non tengano conto dello stato di
emergenza in cui ci versiamo: si rischiano involuzioni autoritarie e
il consolidamento di un'idea dell'economia che considera il pareggio
di bilancio un bene superiore al benessere delle persone e della
garanzia dei loro diritti, celando dietro l'inganno del dato numerico
e il buonsenso dei “conti in ordine” del buon padre di famiglia,
l'intento di spostare enormi risorse dai ceti medio-bassi ad una
classe parassitaria di rentiers. Non è allarmismo né
complottismo, un medioevo prossimo venturo è alle porte, ci attende
un neofeudalesimo e un ritorno a forme spontanee di aggregazione con
una totale riconfigurazione delle soggettività politiche e sociali e la
perdita del concetto stesso di tutela sociale. Occore dare risposte
immediate ed estremamente chiare. Ciò che va compresa è la
necessità di coniugare il momento dell'annuncio e della visibilità
della proposta con quello necessario dell'elaborazone politica e di
costruzione dal basso del nuovo soggetto. Ci potrà essere una
sfasatura fra i due momenti, poiché il momento dell'elaborazione può
richiedere tempi lunghi, con il rischio di annunci altisonanti e
scarsa coesione ed adesione del soggetto politico in questione, ma è
un rischio che si deve correre.
Grillo è stato bravo, ha capito tutto
in anticipo e ha costruito un radicamento sociale partendo dalla rete
e utilizzando parole d'rdine efficaci in grado di recuperare il
malcontento dei milioni di delusi dalla politica. Certo lo ha fatto
anche vellicando gli istinti peggiori della gente e con una buona
dose di irrazionalsmo, ma non si può dire che il Movimento Cinque
Stelle sia solo un fenomeno virtuale e bollarlo semplicisticamente
come antipolitica o neoqualunquismo.
Non è troppo tardi per rimediare, le
premesse per costruire una coalizione vincente ci sono tutte, basta
solo passare dagli annunci sussurrati e nascosti dalle fumisterie del
linguaggio politico, agli annunci chiari, meno cerebrali e un po' di
più di pancia.
sabato 21 aprile 2012
SULLE SCALE DELLA DIAZ Riflessioni sul film, sul movimento e il Prc
Quella maledetta notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 fui tra i primi
ad entrare nella scuola Diaz. Ricordo ancora ogni passo su quelle scale,
il cuore in gola che pompava sangue . Sangue fresco come quello che
vedevamo sui muri, sugli spigoli delle porte sui sacchi a pelo per
terra. Zaini svrentrati, indumenti e spazzolini da denti sul pavimento,
computer e vetri in frantumi. Era ancora calda la violenza esercitata
dai teppisti in divisa. L'avevamo sentita per ore fuori dalla scuola
fronteggiando il cordone invalicabile di polizia e carabinieri. Adesso
la "sentivamo" in quella palestra, nelle aule devastate, nel pensiero e
nell'angoscia dei nostri compagni portati via in barella, con i loro
volti tumefatti, con le bende bianche che coprivano la vergogna. Si, lo
confesso, la visione del film "Diaz" mi ha restituito quella sensazione,
quel pugno nello stomaco che provavo mentre salivo uno ad uno ogni
scalino della scuola. Devo dire che da questo punto di vista l' utilità
del film è indiscutibile. A mio figlio , che ora ha diciannove anni, il
film può meglio di tante parole raccontate da suo padre restituire il
senso di quella repressione, far percepire la fisicità di quella
brutalità, costringerlo - come larga parte dell'opinione pubblica - ad
interrogarsi su come tutto questo abbia potuto accadere nella
"democratica e civile" Italia. Il film è una opera artistica, parla il
suo linguaggio, non si può pretendere che spieghi tutto. Per noi del
Genoa Social Forum che conosciamo ogni dettaglio di quella repressione
il film non basta. Non può bastare: è ovvio, è naturale che sia così. Ma
sarebbe un errore imperdonabile non comprenderne il suo effetto di
denuncia, il suo mettere in evidenza quei corpi violentati e l'odio - si
l'odio alla stato puro - delle forze dell'ordine nei confronti di quei
cittadini che per la legge avrebbero invece dovuto difendere. Il film
ha tra l'altro il merito di evidenziare il carattere internazionale
della mobilitazione, con i suoi protagonisti non italiani presi di mira
dall'ossessiva macchina repressiva. Se devo fare un appunto al film è
semmai per una certa confusione che viene fatta sovrapponendo, per certi
versi, l'irruzione alla scuola Pertini a quella della Diaz. In senso
temporale l'irruzione avvenne prima alla Pertini, sede del Gsf , del
legal forum e del mediacenter e solo dopo nello stabile dormitorio della
Diaz. L'irruzione alla Pertini meritava di essere raccontata dal film
perchè li la violenza fu "dosata" per la presenza di giornalisti e
parlamentari (l'eurodeputata del Prc Luisa Morganitini) ma anche perchè
la registrazione di quei minuti drammatici dell'irruzione venne
raccontata in diretta dalla radio del movimento - Radio Gap - ubicata
all'ultimo piano della scuola. Raccontare quella irruzione - illegale
perchè era una sede politica e bisogna tornare al fascismo per ricordare
una occupazione militare di una sede di organizzazione di massa -
avrebbe contribuito a chiarire la scelta politica golpista fatta in
quelle ore.
IL GSF E IL PRC, UNA TESSITURA CHE VENIVA DA LONTANO
Non
mi unisco però ai detrattori del film anche se è vero che omette
diverse cose lucidamente riportate nella critica da Vittorio Agnoletto.
Ma un film sull'esperienza di Genova, su quell'assalto al cielo del
mondo globalizzato, non so se esiste al mondo un regista in grado
effettivamente di girarlo. D'altronde anche la copiosa letteratura sul
G8 2001 non ha mai avuto il gusto o la voglia di indagare su come sia
stato possibile la sperimentazione del Genoa Social Forum , sul suo
lungo percorso di avvicinamento, quasi che 200mila persone si potessero
materializzare in un luglio afoso sul lungomare di Genova semplicemente
per moda o per miracolo. Chi ha intrecciato i fili perchè mondi così
diversi, dalle suore di Boccadasse ai disobedienti del Carlini,
parlassero ed agissero insieme? Quale mastodontica opera di pazienza e
di costruzione politica c'è stata dietro nei due anni che hanno
preceduto il G8? Molti si sono accontentati di individuare nel Forum
Sociale Mondiale di Porta Alegre - che si tenne per la prima volta nel
gennaio 2001- il cemento e l'evento internazionale dentro il quale è
stato incubato il Genoa Social Forum. E' una verità parziale, che non
tiene conto di un percorso più lungo, che è non è solo la partecipazione
alla mobilitazione al vertice di Praga o quelli successivi ai fatti di
Napoli (marzo 2001). Perchè affronto questo argomento? Perchè mi pare
che questa menomazione della storia induca un persona di pensiero lucido
e profondo come Fausto Bertinotti ad una autocritica sbagliata. Sia
chiaro Fausto Bertinotti fu tra i dirigenti del Prc che più si sono
battuti - insieme a lui ricorderei a pieno titolo Ramon Mantovani e
Roberto Musacchio - nell' investire l'organizzazione e il progetto della
Rifondazione anima e corpo in quello che allora in Italia si chiamava
"movimento no global". Per chi ha rappresentato il Prc come portavoce
del Genoa Social Forum, come chi scrive, il sostegno e il consiglio di
Bertinotti è stato fondamentale. Senza la sua copertura e condivisione
non avremmo mai potuto superare le tantissime resistenze che
incontravamo nel partito locale e nazionale, in quella che per molti era
una bizzarra idea di sedere alla pari con altri soggetti non partitici,
di essere parte e non tutto del movimento.
SCIOGLIERE IL PRC A GENOVA? UN TEMA INESISTENTE NEL MOVIMENTO
Avevamo
imparato dagli zapatisti ad ascoltare e ad imparare dagli altri. Nelle
giornate di Genova il Prc era in tutte le piazze tematiche: quelle fatte
dalla Rete Lilliput, dalla Rete contro il G8 , da Attac dai Cobas, dai
disobbedienti. Non scegliemmo una nostra piazza, ma decidemmo di stare
ovunque. Avevamo la consapevolenza di funzionare da collante dei vari
pezzi, senza apparire troppo e sempre con spirito di servizio.
Bertinotti ci dice che dovevamo avere più coraggio : sciogliersi nel
movimento e costruire con quelle diverse soggettività una nuova forza. A
me pare che questo sia un ragionamento influenzato a posteriori
dall'attuale marginalità della sinistra di alternativa e totalmente
assente nel dibattito del movimento di allora. Il movimento ci
riconosceva perchè eravamo coerenti tra le cose che dicevamo (in
parlamento, nei talk show televisivi) e quello che facevamo con le
lotte. E' quando tra le enunciazioni e i fatti è sorta una separazione
prima, una contraddizione aperta poi, che il rapporto tra Prc e le altre
anime del movimento è entrato in crisi. Se non sei quello che dici
insomma sei come tutti gli altri animali politici. Dovevamo al contrario
scegliere ed accentuare la nostra attidudine di movimento e di fare
società. Invece c'è stato un corto circuito figlio di scelte politiche.
Fu la scelta - una vera e propria virata - di spostare verso
l'alternativa di governo a Berlusconi e dunque all'alleanza nell'Unione,
la linea politica del partito a portare serissimi contraccolpi alla
nostra credibilità nel movimento. Anche la parola d'ordine che coniammo
"movimento pesante, governo leggero" entrando nel gabinetto di Prodi si è
rivelata aleatoria e irrealistica perchè i pesi della compatibilità
governativa si spostavano decisamente sul secondo e non sul primo. In
sintesi penso che il Prc venne trasformato profondamente dalla
preparazione e dalla generosa partecipazione alle giornate di Genova ma
che non abbiamo avuto il coraggio- questo si- di spostare in modo più
duraturo e centrale il peso dell'esistenza politica del partito nella
società. D'altronde dobbiamo pur farci la domanda di come sia stato
possibile che una generazione di giovani comunisti sia passata in dieci
anni dallo stadio Carlini all'alveo politico/ideologico del Partito
Socalista Europeo del direttore del Wto Pascal Lamì? Questa idea di una
grande occasione persa - il mancato scioglimento nel 2001 del Prc nel
movimento - non può funzionare da rimozione dei nostri veri errori,
che devono essere - e su questo concordo totalmente con Bertinotti -
affrontati senza remore e in profondità.
Alfio Nicotra
"Pareggio di bilancio in costituzione? Svolta antidemocratica" di Luigi de Magistris
da Sostiene De Magistris
L'Europa delle banche che detta la linea al parlamento nazionale, per mezzo del governo tecnico, annullando politica, parlamento, democrazia, Costituzione, sovranità popolare.
L'ossessione per il debito, insieme al diktat degli istituti finanziari europei e internazionali, fanno scivolare, in fondo alla classifica delle priorità, la giustizia sociale, i diritti dei cittadini (del lavoro in primis), il welfare state, la partecipazione delle comunità, l'autonomia degli enti locali. E' la stagione della tecnica che ci governa, è la stagione della sospensione della politica.
Una politica colpevole perché incapace, fino ad oggi, di autoriformarsi dando risposte ad una crisi finanziaria senza precedenti.
Una crisi finanziaria che, a causa di questo vuoto di risposta e reazione politica, ha provocato l'imporsi della risposta e della reazione tecnocratica, generando così una crisi anche democratica e civile. L'ultima pagina di questo tempo buio che stiamo attraversando è stata scritta poche ore fa in Senato, dove è stata approvata l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, modificando l'art. 81.
Spiegano illustri studiosi della materia che si tratta della più importante trasformazione/involuzione della nostra Carta dopo la devolution dell'allora ministro Calderoli.
Uno stravolgimento costituzionale avvenuto nel silenzio generale e senza dibattito pubblico, per il quale non ci sarà nessun referendum fra i cittadini. Evidentemente per per questo parlamento di nominati, che hanno scelto di rinunciare al loro ruolo politico affidandosi alla "salvezza tecnica", la Costituzione è proprietà di pochi che può essere svenduta alle banche centrali europee e alle misure liberiste.
Un obbligo imposto non solo allo Stato ma a tutti gli enti amministrativi e che rientra nel cosiddetto Fiscal compact europeo.
La vittoria integrale del mercato senza regole, lo stesso che ha generato la crisi dimostrando la sua fragilità e pericolosità, e che annichilisce le istituzioni pubbliche, dallo Stato ai Comuni, tutti impossibilitati ad intervenire nella gestione dell'economia nell'interesse dei cittadini.
Come amministratore e come cittadino non posso che aggiungere, dunque, la mia voce di preoccupazione a quella collettiva che si alza in queste ore.
Dopo il vincolo assurdo del patto di stabilità e la vicenda surreale dell'Imu (che i Comuni, ridotti a gabellieri del paese, devono imporre ai loro cittadini, salvo poi consegnare il 50 per cento delle entrate riscosse allo Stato), ecco che un altro limite è imposto all'autonomia degli enti locali che, più di tutti, sentono il peso della responsabilità verso le comunità che governano, poiché sono eletti direttamente e sono in prima fila nel fronteggiare le tensioni sociali che infiammano i territori.
Perché su gli enti locali, soprattutto, grava l'onere di proteggere la democrazia stessa difendendo i diritti e i servizi sociali, i quali non possono essere sacrificati alle sole logiche neoliberiste e ai soli dettami del mercato. Occorre dunque un cambiamento di rotta da parte del governo Monti ed occorre che la risposta politica riprenda il sopravvento su quella tecnica, la quale è tutto fuorché neutrale, avendo imposto una svolta conservatrice e liberista che non risolve la crisi ma ne amplifica la portata negativa per il futuro, anche sotto il profilo democratico.
Occorre che i cittadini, le comunità, gli enti locali si mobilitino a difesa dei loro diritti e della Costituzione. A Napoli stiamo cercando di portare avanti questa battaglia civile, non perdendo occasione per ricordare al Governo che la sovranità appartiene al popolo, che sforeremo il patto di stabilita per difendere i diritti e i servizi essenziali dei cittadini, che gli enti locali non sono gli ammortizzatori nazionali della crisi, che la Carta non si può stravolgere per volere del mercato europeo.
L'Europa delle banche che detta la linea al parlamento nazionale, per mezzo del governo tecnico, annullando politica, parlamento, democrazia, Costituzione, sovranità popolare.
L'ossessione per il debito, insieme al diktat degli istituti finanziari europei e internazionali, fanno scivolare, in fondo alla classifica delle priorità, la giustizia sociale, i diritti dei cittadini (del lavoro in primis), il welfare state, la partecipazione delle comunità, l'autonomia degli enti locali. E' la stagione della tecnica che ci governa, è la stagione della sospensione della politica.
Una politica colpevole perché incapace, fino ad oggi, di autoriformarsi dando risposte ad una crisi finanziaria senza precedenti.
Una crisi finanziaria che, a causa di questo vuoto di risposta e reazione politica, ha provocato l'imporsi della risposta e della reazione tecnocratica, generando così una crisi anche democratica e civile. L'ultima pagina di questo tempo buio che stiamo attraversando è stata scritta poche ore fa in Senato, dove è stata approvata l'introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione, modificando l'art. 81.
Spiegano illustri studiosi della materia che si tratta della più importante trasformazione/involuzione della nostra Carta dopo la devolution dell'allora ministro Calderoli.
Uno stravolgimento costituzionale avvenuto nel silenzio generale e senza dibattito pubblico, per il quale non ci sarà nessun referendum fra i cittadini. Evidentemente per per questo parlamento di nominati, che hanno scelto di rinunciare al loro ruolo politico affidandosi alla "salvezza tecnica", la Costituzione è proprietà di pochi che può essere svenduta alle banche centrali europee e alle misure liberiste.
Un obbligo imposto non solo allo Stato ma a tutti gli enti amministrativi e che rientra nel cosiddetto Fiscal compact europeo.
La vittoria integrale del mercato senza regole, lo stesso che ha generato la crisi dimostrando la sua fragilità e pericolosità, e che annichilisce le istituzioni pubbliche, dallo Stato ai Comuni, tutti impossibilitati ad intervenire nella gestione dell'economia nell'interesse dei cittadini.
Come amministratore e come cittadino non posso che aggiungere, dunque, la mia voce di preoccupazione a quella collettiva che si alza in queste ore.
Dopo il vincolo assurdo del patto di stabilità e la vicenda surreale dell'Imu (che i Comuni, ridotti a gabellieri del paese, devono imporre ai loro cittadini, salvo poi consegnare il 50 per cento delle entrate riscosse allo Stato), ecco che un altro limite è imposto all'autonomia degli enti locali che, più di tutti, sentono il peso della responsabilità verso le comunità che governano, poiché sono eletti direttamente e sono in prima fila nel fronteggiare le tensioni sociali che infiammano i territori.
Perché su gli enti locali, soprattutto, grava l'onere di proteggere la democrazia stessa difendendo i diritti e i servizi sociali, i quali non possono essere sacrificati alle sole logiche neoliberiste e ai soli dettami del mercato. Occorre dunque un cambiamento di rotta da parte del governo Monti ed occorre che la risposta politica riprenda il sopravvento su quella tecnica, la quale è tutto fuorché neutrale, avendo imposto una svolta conservatrice e liberista che non risolve la crisi ma ne amplifica la portata negativa per il futuro, anche sotto il profilo democratico.
Occorre che i cittadini, le comunità, gli enti locali si mobilitino a difesa dei loro diritti e della Costituzione. A Napoli stiamo cercando di portare avanti questa battaglia civile, non perdendo occasione per ricordare al Governo che la sovranità appartiene al popolo, che sforeremo il patto di stabilita per difendere i diritti e i servizi essenziali dei cittadini, che gli enti locali non sono gli ammortizzatori nazionali della crisi, che la Carta non si può stravolgere per volere del mercato europeo.
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