di Giorgio Cremaschi da facebook
Due anime percorrono questo Primo Maggio. Una è quella di regime. Essa è
ben simboleggiata dalla orribile pubblicità di Cortina, che usa Pelizza
da Volpedo per chiamare alle ultime discese sui suoi costosi impianti
di sci. È l'assorbimento consumistico della festa dei lavoratori, come
purtroppo è già in gran parte avvenuto per l'8 marzo. Contribuiscono
sicuramente a questa distruzione del senso della giornata appuntamenti
come il Concertone di Roma. Questo spettacolo promosso da CGIL CISL UIL e
concordato censura per censura con le autorità della Rai, ha il compito
di rappresentare un momento di svago che non confligge con nessuno, men
che meno con chi il lavoro lo sfrutta.
E che la parola sfruttamento
sia invece quella più necessaria oggi ce lo dicono da ultimi i dati
dell'INAIL, che proprio alla vigilia della festa dei lavoratori ci
informano che coloro che sono rimasti uccisi sono il 16% in più rispetto
all'anno scorso. 1200 sono le vittime degli omicidi per il mercato, la
competitività, la precarietà, lo sfruttamento.
Chi lavora, chi
riesce ad uscire dalle sabbie mobili della disoccupazione di massa dove
affondano tutti i principi della democrazia, è sottomesso allo
sfruttamento perché subisce il più brutale dei ricatti. O mangi sta
minestra o salti dalla finestra, questa è la antichissima e brutale
filosofia che regola oggi i rapporti di lavoro. E che tiene vincolati
alla stessa catena i braccianti impiegati nei campi a tre euro all'ora,
gli operai della Fiat costretti a turni massacranti, i dipendenti delle
banche che devono vendere obbligazioni a rischio, i lavoratori dei
servizi pubblici sui quali si scaricano addosso i tagli allo stato
sociale. Ricatto è la parola che oggi accompagna e sostiene sempre
l'altra, sfruttamento. Assieme queste due parole sono i pilastri sui
quali si regge l'attuale rapporto di lavoro, spinto sempre di più alla
regressione verso il Medio Evo. A questa marcia indietro del lavoro ha
dato la sua spinta Matteo Renzi, con l'eliminazione dell'articolo 18 e
con la continua aggressione a tutti i diritti residui delle lavoratrici e
dei lavoratori, che il presidente del consiglio condanna come privilegi
da abbattere. Renzi odia i sindacati, soprattutto quelli che fanno il
loro dovere a difesa dei lavoratori, e ama i padroni che come Marchionne
li combattono. Renzi giudica incomprensibili le lotte e le
manifestazioni, che fa regolarmente bastonare dalla polizia. Renzi è
capo di governo più aggressivo e reazionario verso il lavoro da molti
decenni. Il Primo Maggio nel suo vero significato non può che essere
prima di tutto contro Renzi e tutto ciò che fa e rappresenta.
Ecco
emergere allora la seconda, la vera anima della festa delle lavoratrici e
dei lavoratori: quella che nasce dalla lotta contro il potere che
sfrutta. Il segnale più forte e vicino ci viene dalla Francia, dove da
un mese lavoratori e studenti lottano contro la loi travail, almeno lì
il Jobs act lo traducono. Il Primo Maggio in Francia sarà una giornata di
manifestazioni contro Hollande e la sua legge per rendere più facili i
licenziamenti. E quei cortei parleranno a noi e a tutti i lavoratori
d'Europa, imbrogliati e vessati dalla Unione Europea, dall'Euro, dai
sacrifici immani nel nome delle banche e della finanza. Certo rispetto a
ciò che accade in Francia la caduta della mobilitazione in Italia è
impressionante, ma non dobbiamo scoraggiarci. Nonostante il torpore
amministrato dal potere e da Cgil Cisl Uil avremo anche noi tanti
segnali di un Primo Maggio contro. Da chi farà sentire la sua rabbia per
la fabbrica che chiude a chi protesterà contro i supermercati aperti.
Dalle piazze ufficiali dove comunque emergeranno scontento e
indignazione, alle mobilitazioni alternative. Tra cui voglio ricordare
quella che si svolgerà a Napoli, a Bagnoli contro la privatizzazione di
un intero territorio.
Segnali di ripresa di passione e lotta al di
fuori della, e contro la, pacificazione di regime ce ne sono e saranno
sempre di più. Per questo possiamo comunque augurarci un buon Primo
Maggio contro.
sabato 30 aprile 2016
Buon Primo Maggio
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giovedì 28 aprile 2016
Brexit, Grexit, Italexit. Basta con la UE
di Giorgio Cremaschi
La Grecia è tornata al punto di partenza come in un beffardo e tragico gioco dell'oca. Di nuovo deve offrire sangue alla Troika, cioè al grande capitale tedesco e alla finanza USA. La resa di Tsipras non è servita a niente altro che a rafforzare il cappio intorno al popolo. Ora ci sarà un altro giro di corda, mentre il governo prende i soldi degli ospedali per fare cassa. Chi sosteneva che così la sinistra avrebbe preso tempo in attesa di non so cosa, è smentito dai fatti. Siryza ha solo preso disonore e ora è punto e a capo. Intanto l'Austria mette muri e fili spinati e a deciderlo sono popolari e socialisti, cioè i partiti che governano l'Unione Europea e quasi tutti i suoi paesi, gli alleati di Renzi, Hollande, Merkel e persino di Cameron. Che i muri li ha già messi, anche per noi italiani, per poter vincere il referendum e mantenere il suo paese nella UE. Cosa che gli ha chiesto fermamente Obama, spiegando senza troppi giri di parole che se vincesse la Brexit, se la Gran Bretagna uscisse dalla Unione, andrebbe in crisi Il TTIP e sarebbe più difficile fare la guerra in Libia... Magari! Bisogna tenere unita l'Unione Europea in modo da concludere su base continentale l'affare della vendita dei profughi alla Turchia. Bisogna tenere unita la UE per poter continuare ovunque le politiche di austerità. Bisogna tenere unita la UE per fare le guerre in giro. E anche per distruggere nel suo nome le costituzioni antifasciste. Noi ne sappiamo qualcosa.
Da qualsiasi lato la si prenda, l'Unione Europea si rivela come la sede dove tutti i mali e le ingiustizie d'Europa si aggravano. L'Unione Europea è oramai un concentrato di ipocrisie, in una facciata dietro la quale esiste una sola libertà: quella dei capitali, delle banche, degli evasori fiscali, delle multinazionali. Per tutto il resto ci sono solo muri. Se è vero che con la Brexit salta il TTIP dobbiamo solo augurarci che il SI vinca. Se la Grecia affonda nella schiavitù coloniale, la Grexit è la sua sola via d'uscita. E se i francesi continueranno la straordinaria lotta che da settimane dura contro il Jobs act di Hollande, dovranno scontrarsi con la BCE di Draghi a cui la controriforma del lavoro è stata promessa. Basta con l'Unione Europea. E non venite a rompere le scatole con la tiritera sul nazionalismo. Se in Europa tornano razzismo e fascismo la colpa è solo della Unione Europea, dell'Euro, delle politiche di austerità, e di tutto ciò che sta distruggendo le nostre democrazie nel nome del mercato e delle banche. Basta, sono convinto che il primo popolo che trovasse il coraggio di dire basta alla Unione Europea aprirebbe la via a tutti gli altri; e sarebbe una valanga. Basta con la UE, la democrazia e l'eguaglianza sociale stanno da un' altra parte, andiamo a riprendercele. Italexit.
La Grecia è tornata al punto di partenza come in un beffardo e tragico gioco dell'oca. Di nuovo deve offrire sangue alla Troika, cioè al grande capitale tedesco e alla finanza USA. La resa di Tsipras non è servita a niente altro che a rafforzare il cappio intorno al popolo. Ora ci sarà un altro giro di corda, mentre il governo prende i soldi degli ospedali per fare cassa. Chi sosteneva che così la sinistra avrebbe preso tempo in attesa di non so cosa, è smentito dai fatti. Siryza ha solo preso disonore e ora è punto e a capo. Intanto l'Austria mette muri e fili spinati e a deciderlo sono popolari e socialisti, cioè i partiti che governano l'Unione Europea e quasi tutti i suoi paesi, gli alleati di Renzi, Hollande, Merkel e persino di Cameron. Che i muri li ha già messi, anche per noi italiani, per poter vincere il referendum e mantenere il suo paese nella UE. Cosa che gli ha chiesto fermamente Obama, spiegando senza troppi giri di parole che se vincesse la Brexit, se la Gran Bretagna uscisse dalla Unione, andrebbe in crisi Il TTIP e sarebbe più difficile fare la guerra in Libia... Magari! Bisogna tenere unita l'Unione Europea in modo da concludere su base continentale l'affare della vendita dei profughi alla Turchia. Bisogna tenere unita la UE per poter continuare ovunque le politiche di austerità. Bisogna tenere unita la UE per fare le guerre in giro. E anche per distruggere nel suo nome le costituzioni antifasciste. Noi ne sappiamo qualcosa.
Da qualsiasi lato la si prenda, l'Unione Europea si rivela come la sede dove tutti i mali e le ingiustizie d'Europa si aggravano. L'Unione Europea è oramai un concentrato di ipocrisie, in una facciata dietro la quale esiste una sola libertà: quella dei capitali, delle banche, degli evasori fiscali, delle multinazionali. Per tutto il resto ci sono solo muri. Se è vero che con la Brexit salta il TTIP dobbiamo solo augurarci che il SI vinca. Se la Grecia affonda nella schiavitù coloniale, la Grexit è la sua sola via d'uscita. E se i francesi continueranno la straordinaria lotta che da settimane dura contro il Jobs act di Hollande, dovranno scontrarsi con la BCE di Draghi a cui la controriforma del lavoro è stata promessa. Basta con l'Unione Europea. E non venite a rompere le scatole con la tiritera sul nazionalismo. Se in Europa tornano razzismo e fascismo la colpa è solo della Unione Europea, dell'Euro, delle politiche di austerità, e di tutto ciò che sta distruggendo le nostre democrazie nel nome del mercato e delle banche. Basta, sono convinto che il primo popolo che trovasse il coraggio di dire basta alla Unione Europea aprirebbe la via a tutti gli altri; e sarebbe una valanga. Basta con la UE, la democrazia e l'eguaglianza sociale stanno da un' altra parte, andiamo a riprendercele. Italexit.
martedì 26 aprile 2016
Dollaro yuan e oro
Tonino
D’Orazio
Da
quando Kissinger costruì l’accordo globale del petro-dollaro con l’Arabia
Saudita e l’OPEP, nel 1973, il dollaro statunitense è rimasto l’unica valuta di
riserva mondiale per quasi 50 anni. Dal 9 giugno 2015 il regno monetario sta
traballando, poiché il gigante petrolifero russo Gazprom vende ufficialmente
tutto il petrolio e il gas in yuan e in rubli, facendo di fatto del petro-yuan
una riserva mondiale comune. La Cina e la Russia, sostenuti dagli altri paesi
del Brics, hanno concluso un accordo su un paniere equilibrato e condiviso di
valute in funzione dell’oro (Gold Standard) da utilizzare al posto del dollaro.
In
realtà le stupide e auto lesive sanzioni occidentali hanno portato ad una
maggiore utilizzazione della moneta cinese da parte dei russi e delle loro
società. Tra l’altro la Cina e la Russia stanno liquidando la loro massa di
riserva in dollari verso l’Arabia Saudita (ma anche verso gli altri paesi
aderenti all’OPEP) che per la prima volta dopo due decenni, a causa della sua
politica petrolifera suicida, ha estrema necessita di valuta americana. Si sta
creando un scénario dove anche altri paesi iniziano a de-dollarizzarsi e
a non avere bisogno del dollaro per acquistare energia o impegnarsi in commerci
bilaterali. E’ la situazione in atto tra la Russia e la Cina che hanno
convenuto che tutti i loro scambi avverranno con rubli e yuan. E’ iniziata la
« guerra » per il controllo della prossima valuta di riserva
mondiale.
Due
mesi fa anche l’Iran, appena abolite le sanzioni statunitensi, ha annunciato
che non venderà più il suo petrolio in dollari, ma, intanto, in euro, in modo
da non alienarsi subito l’Unione Europea, introducendo l’evidente contrasto politico-economico
con la valuta statunitense.
Con
un accordo firmato domenica la Banca Nazionale Cinese e la Banca Centrale del
Nigeria hanno deciso la libera circolazione della valuta cinese nell’economia
nigeriana, includendo quindi lo yuan (detto anche RMB, oppure renminbi) nelle
sue riserve in valuta, creando uno scenario dove anche altri paesi produttori di
petrolio dovranno avvicinarsi.
Anche
nell’accordo in corso tra Cina e Corea del Sud, al fine di ridurre l’impatto negativo
(ma pilotato) del fluttuare dei tassi di cambio con il dollaro (gestito
unilateralmente dagli anglo-americani), i due paesi hanno concluso di
utilizzare le loro valute nazionali negli scambi bilaterali.
Un
accordo è stato siglato lo scorso anno tra la repubblica del Mali (quasi
protettorato francese) e la Cina, con una promessa di finanziamento globale di
55.000 miliardi di FCFA (10 miliardi di euro) utilizzando anche lo yuan.
Finanziamento sotto forma di prestito o convenzioni in cui la Cina dovrebbe
sostenere il Mali per la realizzazione di infrastrutture strategiche nei trasporti,
energia, agricoltura, miniere e tecnologia. I cinesi hanno ottenuto di
costruire la ferrovia Bamako-Konakry (990 km)e rinnovare la Bamako-Dakar (600
km in Senegal e 644 in Mali). Chiunque è stato qualche volta in Africa avrà pur
notato la presenza predominante dei prodotti cinesi in tutti i rami del mercato,
fin nel commercio locale di villaggi sperduti.
Rimane
da scovare la reazione e i comportamenti della Germania, paese fortemente presente
per i maggiori e elevati scambi europei con la Cina, per commercio e prodotti,
e la Russia per il pagamento del gas di Gazprom. Secondo molti analisti sarebbe
il primo paese a sganciarsi dall’euro e dal dollaro, checché se ne dica. La
Germania ha come governo una vera statista, volente o nolente, che noi non abbiamo
da anni, cioè la Merkel, capace di pensare in grande per il futuro del proprio
paese. L’euro dà fastidio agli statunitensi perché è comunque una forte valuta
di scambio e di riserva, pur gestendone loro il sali-scendi a secondo dei loro
interessi, ma lo sviluppo mondiale è a est.
L’altro
elemento è la reintroduzione dell’oro come punto di riferimento delle valute.
Visto
che il mercato dei metalli preziosi è risultato truccato sin dall’inizio. La
Deutsche Bank, la Banca New Scotland, la Barkleys Bank, la USBC, la Société
Générale, l’USB, e altre banche occidentali più importanti sono state accusate
di manipolare i prezzi dell’oro e dell’argento, sia sui mercati a termine che
sulle opzioni e altri derivati, da parecchi anni. Il 14 aprile la Deutsche Bank
ha ammesso di essere implicata in una cordata con altri membri del cartello e ha accettato di citare i nomi
alla Corte Federale degli Stati Uniti. Sono un altro colpo duro alla
credibilità delle banche.
Tanto
che Cina e Russia si preparano ad esigere pubblicamente dagli Usa la prova che
possiedono realmente la dichiarata riserva di 8.133 tonnellate d’oro che
servono fittiziamente oggi alla copertura minima del dollaro carta straccia.
L’esperto statunitense del governo per le questioni Steve Quayle ha ricordato
che sia la Cina che la Russia detengono fisicamente una enorme riserva di oro,
più di tutti gli altri al mondo. Alcuni paesi europei, come la Germania e la
Svizzera, avevano chiesto da tempo di rimpatriare il loro oro, ma la domanda fu
rigettata, e ottennero solo una piccola parte simbolica. Quayle arriva alla
conclusione che nella Federal Reserve non ce ne sia, e testualmente:”Nessun oro
sarà mai rimpatriato. Nessun paese recupererà in oro ciò che ha investito negli
Usa, anche se i contratti menzionano ‘riserva in oro’”. Mi viene il dubbio che
gli F-35 siano già stati tutti pagati.
L'ex
Sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti, Paul Craig Roberts, reganiano di
ferro, affermava, nel giugno 2014, che tutta la riserva d'oro degli USA,
compreso quello di altri paesi, era finito. "Gli Stati Uniti non hanno oro
e non possono distribuirlo, per questo hanno obbligato la Germania ad un
accordo e smettere di chiedere il suo oro visto che non possono
darglielo," così ha spiegato Craig Roberts la strana situazione del
rientro dell’oro tedesco (1.500 T) dall'America. La Merkel ha fatto finta di
niente, cioè che, se ci sono, i lingotti sono “al sicuro” negli Stati Uniti,
tacitando forti proteste interne.
L’esperto
Quayle suggerisce infine che il mercato alternativo, come lo Shanghai Gold
Exange cinese (inaugurato il 9 aprile) comincia ad essere veramente
interessante per gli investitori stranieri, se non gli stati, e a diventare una
nuova “era dell’oro”, sicuramente in mani più sicure perché partecipate.
Anche
in questo mercato il prezzo dell’oro sarà determinato in yuan facendo si che la
Cina diventi uno dei paesi che possono fissare il prezzo dell’oro nel mondo.
Oggi, questo potere è 80%nelle mani di Londra e New York. Il gran cambiamento
sta nel fatto che i cinesi utilizzeranno lo yuan per comperare e vendere oro al
posto del dollaro.
I
dieci paesi con più riserva in oro sono Stati Uniti (8.100T; 75%, dicono e
sconfessano, per riserva valutaria); Germania (3.395T, 72% riserva); Italia
(2.452T; 72%); Francia (2.435T;71%); Cina (1.154T;1,7%); Svizzera
(1.040T;11,5%); Russia (937T;9,6%); Giappone (765T;3,2%); Paesi Bassi (612T;60%);
India (558T;10%). Ma l’Eurozona ne ha 10.800 di tonnellate, equivalenti a 72%
di riserva monetaria.
Il
mondo intero a motivi in comune per togliere il re dollaro e inserire il
metro-oro per una equità e stabilità mondiale. Ma tutto questo preclude a una
guerra vera. Difficile detronizzare un re così armato e convinto di avere il
diritto divino di estendere il suo impero sul mondo, senza danni collaterali.
Potrebbe essere anche una Europa paralizzata e in standby la moneta di scambio.
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domenica 24 aprile 2016
Israele copia la Turchia – Come operano le oligarchie globali
di
Eric Zuesse (da Strategic
Culture)
Il
4 marzo il governo turco di Tayyip Erdogan ha chiuso
i giornali di opposizione più importanti e più letti, Zaman
e Today's Zaman [la versione in inglese di Zaman – ndt],
oltre alla maggiore agenzia giornalistica (l'equivalente
dell'americana Associated Press), e ha imprigionato la loro
dirigenza sotto l'accusa di tradimento, per poi rimpiazzarla e
riaprire dopo qualche giorno le suddette attività sotto la nuova
gestione.
Ancora
prima, i due principali dirigenti dell'altro giornale indipendente
turco, Cumhuriyet, sono stati arrestati e accusati
di tradimento, dato che avevano riferito che il governo turco
stava rifornendo di armi i jihadisti in Siria.
L'11
marzo, Israele ha fatto
chiudere la Palestine Today TV e arrestato i suoi
dirigenti, ma dato che l'emittente ha sedi non solo a Ramallah (nella
West Bank) ma anche in Libano, essa continua a trasmettere nonostante
gli sforzi del regime israeliano.
I
giornalisti vengono assunti dai membri dell'aristocrazia (nel
concreto dai manager dell'industria dell'informazione), per cui
questo genere di repressione viene messa in atto quando una fazione
minoritaria dell'aristocrazia sfida quella maggioritaria, con in
palio il controllo del pubblico. I mezzi di informazione sono gli
occhi e le orecchie del pubblico, perciò ogni volta che il regime
agisce per eliminare le organizzazioni giornalistiche dissidenti
(come Zaman o Palestine Today TV), questo è il
riflesso di una guerra civile all'interno dell'aristocrazia.
Al
contrario, nei periodi in cui le varie aristocrazie restano unite –
come lo erano, ad esempio, negli Stati Uniti a ridosso degli attacchi
dell'11 settembre – i media dissidenti praticamente non
esistono, e il regime non conosce alcuna reale opposizione
interna: quando l'aristocrazia è unita, il paese può funzionare
come una dittatura e la stampa ci andrà d'amore e d'accordo, lo
considererà suo “dovere patriottico”, il che è naturalmente
falso, in realtà significa tradimento nei confronti del pubblico; ma
quando l'aristocrazia è unita, è il governo stesso a praticare il
tradimento – è la dittatura chiamata talvolta “guerra
perpetua per la pace perpetua” o, più precisamente, il
proseguimento
americano della Guerra Fredda, anche dopo il 1991 e la fine
dell'Unione Sovietica, del suo comunismo e del Patto
di Varsavia.
Nel
corso della Storia, aristocrazie in lotta tra loro hanno trovato
nella guerra il miglior mezzo per determinare i loro rapporti di
dominio e sudditanza; è quello che fanno le aristocrazie, da sempre;
è nel DNA di ogni aristocrazia di ogni nazione. Se l'aristocrazia di
una nazione insiste nel volersi indipendente dalle aristocrazie di
altre nazioni, l'aristocrazia dominante cercherà di soggiogarla a
tutti i costi. Dato che oggi l'aristocrazia dominante è quella
dell'America, l'America pratica invasioni, rovesciamenti e colpi di
stato in più paesi di chiunque altro. Non è caratteristico
dell'America, è caratteristico di qualunque aristocrazia dominante
di qualunque epoca: in ogni periodo storico, l'aristocrazia dominante
si proclama “l'unica
nazione indispensabile” - e per essa le altre nazioni diventano
“dispensabili”. Il messaggio rivolto alle altre aristocrazie è
sempre uguale: sottomettetevi o sarete conquistati. L'eccezionalismo
dell'America fu un tempo quello dell'Impero Britannico, e ancora
prima quello di Roma. Quello che davvero è sempre eistito è il DNA
dell'aristocrazia dominante. L'aristocrazia dominante è sempre la
peggiore di tutte, quella che provoca, più di tutte le altre
aristocrazie, maggior sofferenza e spargimento di sangue. E sempre
con simili, ipocriti
proclami:
“Siamo
il fulcro di un'alleanza di dimensioni mai viste nella storia.
L'America continua ad attrarre immigrati pieni di buona volontà. I
nostri valori fondamentali ispirano i leader politici e i movimenti
di piazza di tutto il mondo. E quando un tifone colpisce le
Filippine, o delle studentesse vengono sequestrate in Nigeria, o
uomini mascherati occupano un edificio in Ucraina [che sono stati in
realtà ingaggiati
dal regime di Obama, quegli uomini mascherati erano agenti
ingaggiati
dagli Stati Uniti, e i diplomatici europei, scoprendolo, sono
restati di stucco, ma, del resto, il golpe era stato preparato
con
un anno di anticipo], e all'America che ci si rivolge per avere
aiuto. (Applausi). Per questo gli Stati Uniti sono e rimangono
l'unica e sola nazione indispensabile. È stato vero nel secolo
passato e continuerà ad esserlo nel secolo che verrà.”
La
Turchia, come anche Israele, fa parte di questa alleanza. Lo stesso
vale per l'Arabia Saudita. E il Qatar. E gli Emirati Arabi Uniti. E
il Kuwait. E anche l'Unione Europea.
Il
conflitto interno all'aristocrazia turca è quello tra la fazione di
Tayyip
Erdogan e quella di Fethullah
Gulen; quest'ultima è a favore della separazione stato-chiesa,
mentre la prima è favorevole al controllo dello Stato da parte del
clero della maggioranza sunnita fondamentalista, alleato con i
Sauditi, la famiglia sunnita fondamentalista che possiede l?Arabia
Saudita, e con la famiglia Thani, cioè i sunniti fondamentalisti che
possiedono il Qatar, e queste due nazioni sono i maggiori produttori
di petrolio e gas del mondo. Il quotidiano Zeman è di
proprietà di Gulen, un particolare che l'articolo relativo di
Wikipedia (curato
dalla CIA) evita perfino di menzionare. (In quello su Gulen,
tuttavia, Wikipedia nasconde il suo rapporto con Zaman nella
sezione “influenze”, che dice: “il suo movimento controlla il
diffuso quotidiano islamico-conservatore Zaman, la banca
privata Bank Asya, la stazione televisiva Samanyolu TV, e
molti altri media e organizzazioni imprenditoriali, inclusa la
Confindustria turca”.
Questo
è falso; Zaman in realtà è islamico-liberale, non
“islamico-conservatore”: Gulen rappresenta quella parte del clero
che che favorisce la separazione tra stato e chiesa di Kemal
Ataturk – la Turchia del passato, quella di Ataturk, è stata
quella con le caratteristiche che l'hanno fatta entrare nella NATO
nel 1952, e in seguito considerare candidata per l'ingresso nell'UE.
Erdogan auspica la restaurazione dell'Impero Ottomano a guida turca,
in cui, con Ataturk di là da venire, chiesa e stato erano uniti.
Il
conflitto interno all'aristocrazia israeliana e tra la fazione di
origine inglese e tedesca, in maggioranza non religiosa, che ha
fondato lo stato d'Israele tra gli anni 40 e i 50, e la nuova
fazione, in maggioranza di fondamentalisti ebraici (dominata da
aristocratici americani e immigrati est-europei visceralmente
anti-russi), tra cui si contano Sheldon
e Miriam Adelson (proprietari di numerosi
media israeliani che fiancheggiano con vigore il teocratico
Benjamin Netanyahu.
Gli
Stati Uniti di oggi (sin da quando nel 1990 il presidente George
Herbert Walker Bush turlupinò il presidente sovietico Mikhail
Gorbachev) vedono la propria aristocrazia unita, di conseguenza non
c'è nessun bisogno di chiudere giornali o rimpiazzarne la direzione;
questi media rappresentano fazioni diverse dell'aristocrazia, ma
tutte sostengono l'agenda
che GHW Bush ha messo in opera dopo la fine dell'Unione Sovietica,
tra il 1990 e il '91.
È
per questo che, mentre in Turchia e in Israele una fasulla
“democrazia” ritiene necessario che il governo prenda il
controllo dei mezzi di cosiddetta informazione (per informare sulla
“democrazia”), in America i mezzi di “informazione” non hanno
bisogno di tale controllo, perché i media sono invece sotto il
controllo di un'aristocrazia unificata, ed è essa a controllare il
governo. È vero che esistono sia aristocratici Democratici sia
aristocratici Repubblicani, tuttavia entrambi i partiti condividono
il medesimo programma di base, che trascende certi minuscoli
disaccordi o dissensi. In un tale contesto, il termine “bipartisan”
definisce un governo che assicura piena soddisfazione a tutte le
fazioni dell'aristocrazia. È il governo del compromesso, anche se
non del popolo e per il popolo. È invece il governo sul
popolo, per conto e a beneficio dell'aristocrazia. Anche se al suo
interno sono presenti fazioni in forte competizione, una dittatura
non è una democrazia. E, almeno
dal 1980, l'America non lo è. Nessun regime imperiale lo è, e
nemmeno potrebbe. Può però praticare l'ipocrisia – è normale. Ma
non può essere democratico. Un regime imperiale è di necessità
dittatoriale: è quello il suo DNA.
Traduzione per doppiocieco di Domenico D'Amico
Le ragioni nascoste della Guerra all'Iraq
di
Robert Parry (da Consortiumnews)
Dieci
anni dopo che il presidente George W. Bush ordinò, senza che ci
fosse stata alcuna provocazione, l'invasione dell'Iraq, resta ancora
il mistero del perché. C'era la spiegazione, rifilata nel 2002-2003
a un popolo americano pieno di paura, di un Saddam Hussein che si
preparava a un attacco con armi di distruzione di massa, ma nessuno
di quelli in posizioni di potere ci credeva davvero.
C'erano
altre spiegazioni plausibili: George Bush il Giovane voleva vendicare
un supposto affronto contro George Bush il Vecchio, e al contempo
surclassare il padre nella veste di “presidente di guerra”; il
vicepresidente Cheney aveva messo gli occhi sulle ricchezze
petrolifere dell'Iraq; e, infine, il Partito Repubblicano vedeva
l'opportunità di creare una “maggioranza permanente” a seguito
di una gloriosa vittoria in Medio Oriente.
Per
quanto i sostenitori di George W. Bush negassero energicamente di
essere motivati da ragionamenti tanto volgari, simili spiegazioni
sembravano quelle più vicine alla verità. Tuttavia, dietro il
desiderio di conquistare l'Iraq c'era un'ulteriore forza trainante:
la credenza dei neoconservatori che quella conquista sarebbe stata il
primo passo verso l'instaurazione di regimi compiacenti (con gli USA)
in tutto il Medio Oriente, permettendo a Israele di imporre ai suoi
vicini condizioni di pace non negoziabili.
Queste
motivazioni sono state spesso imbellettate col concetto di
“democratizzazione” del Medio Oriente, ma l'idea assomigliava di
più a una forma di “neocolonialismo”, in cui proconsoli
americani avrebbero assicurato che leader designati, come Ahmed
Chalabi dell'Iraqi National Congress, acquisissero il controllo di
quei paesi, allineandoli agli interessi degli Stati Uniti e Israele.
Alcuni
analisti fanno risalire quest'idea al Project for the New American
Century, documento neocon dei tardi anni 90, che auspicava un
“cambio di regime” in Iraq. Ma le sue origini risalgono due
eventi determinanti dei primi anni 90.
Il
primo di questi momenti cruciali venne nel 1990-91, quando il
presidente George H. W. Bush sfoggiò un progresso tecnologico
dell'apparato militare statunitense senza precedenti. Quasi dal
momento in cui Saddam Hussein aveva invaso il Kuwait, il dittatore
iracheno comincio a manifestare la volontà di ritirarsi, avendo dato
una lezione di politica di potenza all'arrogante famiglia al-Sabah
(regnante in Kuwait).
Ma
l'amministrazione di Bush il Vecchio non aveva intenzione di
negoziare una soluzione pacifica all'invasione del Kuwait. Invece di
permettere a Hussein di ritirarsi con ordine, Bush cominciò a
esasperarlo, coprendolo di insulti e bloccando ogni strategia di
ritiro che gli permettesse di salvare la faccia.
Gli
abboccamenti di pace da parte di Hussein, e più tardi da parte del
presidente sovietico Mikhail Gorbachev, furono respinti al mittente,
intanto che Bush il Vecchio attendeva l'occasione di dar prova delle
sbalorditive capacità militari del suo Nuovo Ordine Mondiale.
Perfino il comandante statunitense sul campo, il generale Norman
Schwartzkopf, propendeva per il piano di Gorbachev di permettere
[senza interventi] il ritiro delle forze irachene, ma Bush era
determinato ad avere la sua guerra di terra.
Di
conseguenza, il piano di Gorbachev venne scartato, e la guerra di
terra ebbe inizio con il massacro delle truppe irachene, in gran
parte formate da coscritti, falciate e incenerite mentre fuggivano
verso l'Iraq. Dopo cento ore, Bush il Vecchio fermò la carneficina.
In seguito egli rivelò una componente decisiva delle proprie
motivazioni, dichiarando: “Ci siamo sbarazzati della Sindrome del
Vietnam una volta per tutte.” [Per i dettagli, vedi, sempre di
Robert Parry, Secrecy & Privilege: Rise of the Bush Dynasty from Watergate to Iraq]
I neocon fanno festa
La Washington che conta prese atto di queste nuove realtà e del rinnovato entusiasmo bellico del pubblico. In un numero uscito dopo la guerra, Newsweek dedicò un'intera pagina alle frecce “su e giù” del suo “Conventional Wisdom Watch” [Osservatorio dell'Opinione Corrente]. Bush ottenne una grossa freccia in su, accompagnata dal commento sbarazzino: “Dominatore dei sondaggi. Ammirate le mie percentuali, o Democratici, e disperate [1].”
Invece, per il suo tentativo dell'ultimo minuto di negoziare il ritiro iracheno, Gorbachev ebbe una freccia in giù: “Restituisci il Nobel, Compagno Traditore. PS I tuoi carri armati fanno schifo.” Perfino il Vietnam si prende una freccia in giù: “Dov'è che sta? Dite che anche lì c'è stata una guerra? E chi se ne importa?”
I commentatori neocon, che già spadroneggiavano nel panorama intellettuale di Washington, potevano a malapena porre un limite al loro gaudio con l'unico disappunto, che Bush il vecchio avesse smesso troppo presto col tiro al piccione iracheno, mentre avrebbe dovuto prolungare il massacro fino a Bagdad.
Anche il popolo americano fece entusiasticamente sua quella vittoria asimmetrica, celebrandola con parate trionfali, stelle filanti e fuochi d'artificio in onore degli eroi conquistatori. Il circo di questi cortei della vittoria si prolungo per mesi interi, con centinaia di migliaia a ingorgare Washington, per quella che venne chiamata “la madre di tutte le parate.”
Gli americani comprarono le magliette di Desert Storm a camionate; i bambini vennero lasciati arrampicarsi su carri armati e altro materiale bellico; la festa si concluse con quella che fu chiamata “la madre di tutti gli spettacoli pirotecnici.” Il giorno seguente, il Washington Post immortalò lo spirito del momento col titolo: “Una storia d'amore al centro commerciale – La gente e le macchine di guerra.”
Il comune sentire patriottico si estese all'esercito mediatico di Washington, lieto di levarsi di dosso la soma dell'obbiettività professionale per potersi unire al tripudio nazionale.
Durante il ricevimento annuale del Gridiron Club, occasione in cui stagionati funzionari governativi e giornalisti di spicco fanno comunella per una serata di puro spasso, gli uomini e le donne dei mezzi di informazione applaudirono freneticamente qualunque cosa assomigliasse a una divisa.
Il momento clou della serata fu uno speciale omaggio alle “truppe”: la lettera a casa di un soldato, recitata con il sottofondo di “Ashokan Farewell” di Jay Ungar. Alla musica vennero aggiunti versi creati appositamente in onore di Desert Storm, e i giornalisti-cantanti del Gridiron intervennero al momento del coro: “Through the fog of distant war / Shines the strenght of their devotion / To honor, to duty, / To sweet liberty.” [2]
Tra i convitati del ricevimento c'era il Segretario alla Difesa Cheney, che prese atto di come il corpo giornalistico di Washington si stesse genuflettendo di fronte a un conflitto così popolare. Riferendosi a quell'omaggio, Cheney osservò, non senza meraviglia, “Di solito dalla stampa non ci si aspetta una partecipazione tanto sfrenata.”
Il mese successivo, alla cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, quando fu annunciato il generale Schwarzkopf giornalisti e ospiti celebri applaudirono entusiasticamente. “Sembrava una première di Hollywood,” commentò un giornalista, riferendosi ai riflettori che mulinavano intorno al comandante.
L'opinionista neocon Charles Krauthammer fece una ramanzina agli scarsi dissidenti che avevano trovato inquietante vedere la stampa strisciare ai piedi di presidente ed esercito. “Scioglietevi un po', ragazzi,” scrisse “Alzate i calici, lanciate in aria il cappello, agitate un pon pon per gli eroi di Desert Storm. Se così vi sembra di vivere a Sparta, fatevi un altro bicchiere.”
L'egemonia americana
Insieme ad altri osservatori, i neocon avevano constatato come la tecnologia avanzata degli USA avesse cambiato la natura del conflitto bellico. Le “bombe intelligenti” annichilivano obbiettivi inermi; il sabotaggio elettronico spezzava la catena di comando nemica; le truppe americane, col loro equipaggiamento sofisticato, sbaragliavano gli iracheni coi loro sbiellati tank di fabbricazione sovietica. L'immagine della guerra si era fatta facile e divertente, con pochissime perdite statunitensi.
In seguito, il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991 rimosse l'ultimo ostacolo all'egemonia degli Stati Uniti. L'unico problema che restava, per i neocon, era come ottenere e conservare la presa sulle leve del potere americano. Tuttavia, le suddette leve scapparono loro di mano, quando Bush il Vecchio rivolse i propri favori a consiglieri per la politica estera di atteggiamento “realista”, e quindi con l'elezione di Bill Clinton nel 1992.
Ma nei primi anni 90 i neocon avevano ancora molte carte da giocare, dato il credito guadagnato lavorando nell'amministrazione Reagan e le alleanze stipulate con altri falchi come Cheney. Inoltre i neocon avevano conquistato spazi importanti sulle pagine d'opinione di quotidiani di spicco, come il Washington Post e il Wall Street Journal, e posizioni chiave all'interno dei maggiori think tank di politica estera.
Un altra svolta ebbe luogo nel contesto dell'infatuazione dei neocon per i leader del Likud israeliano. Verso la metà degli anni 90, importanti figure neocon, tra cui Richard Perle e Douglas Feith, lavorarono per la campagna elettorale di Benjamin Netanyahu, eliminando dal tappeto le vecchie idee di un negoziato di pace coi vicini arabi di Israele.
Piuttosto che affrontare i dispiaceri di un negoziato per una soluzione a due stati del problema palestinese o avere a che fare con la seccatura degli Hezbollah libanesi, i neocon al seguito di Netanyahu decisero che era venuto il momento di un audace cambio di direzione, che delinearono nel 1996 in uno studio strategico dal titolo A Clean Break: A New Stategy for Securing the Realm [Un Taglio Netto: Una Nuova Strategia per la Sicurezza Del Territorio][3].
Il documento sosteneva l'idea che soltanto un “cambiamento di regime” nei paesi musulmani ostili avrebbe potuto ottenere il necessario “taglio netto” allo stallo diplomatico seguito agli inconcludenti colloqui di pace israelo-palestinesi. Operando questo “taglio netto”, Israele non avrebbe più cercato la pace tramite il compromesso, ma piuttosto attraverso lo scontro, includendo anche la rimozione violenta di leader come Saddam Hussein, sostenitori dei nemici ai confini di Israele.
Il piano definiva la cacciata di Hussein “un importante e legittimo obbiettivo strategico di Israele,” che inoltre avrebbe destabilizzato la dinastia Assad in Siria, facendo carambolare le tessere del domino fino in Libano, dove Hezbollah si sarebbe presto ritrovato senza il loro insostituibile alleato siriano. Anche l'Iran si sarebbe potuto trovare nel mirino del “cambio di regime.”
L'assistenza americana
Ma per il “taglio netto” era necessaria la potenza militare degli Stati Uniti, perché obbiettivi come l'Iraq erano troppo distanti o troppo forti per essere sconfitti dal pur efficientissimo esercito israeliano. Un passo così arrischiato avrebbe avuto per Israele un prezzo spropositato, in costi economici e di vite umane.
Nel 1998 il pensatoio neocon fece fare al piano del “taglio netto” un ulteriore passo avanti, creando il Project for the New American Century, che cominciò a premere su Clinton perché si impegnasse nella defenestrazione di Saddam Hussein.
Tuttavia, Clinton si spinse solo fino a un certo punto, mantenendo un embargo durissimo contro l'Iraq e una “no-fly zone” che comportava periodici bombardamenti da parte dell'aviazione statunitense. Al momento, quindi, sia con Clinton sia col suo supposto successore, AL Gore, un'invasione in piena regola dell'Iraq sembrava fuori questione.
Il primo maggiore ostacolo politico venne rimosso quando i neocon, nelle elezioni del 2000, contribuirono ad architettare l'ascesa di George W. Bush alla presidenza. Tuttavia, la strada non si sgombrò del tutto finché i terroristi di al-Qaeda non attaccarono New York e Washington l'11 settembre 2001, lasciandosi dietro, in tutta America, un clima favorevole a guerra e vendetta.
Naturalmente, Bush il Giovane doveva attaccare per primo l'Afghanista, dove al-Qaeda aveva la sua base principale, ma subito dopo si rivolse verso il bersaglio bramato dai neocon, l'Iraq. Oltre a essere la patria del già demonizzato Saddam Hussein, l'Iraq offriva altri vantaggi strategici. Non era densamente popolato come altri suoi vicini, ed era posizionato grosso modo tra Iran e Siria, altri obbiettivi di punta.
In quegli esaltanti giorni del 2002-2003, una battuta spiritosa dei neocon poneva il quesito di cosa fare dopo aver cacciato Saddam Hussein dall'Iraq, se andare a est, verso l'Iran, o a ovest, verso la Siria. La battuta finiva così: “I veri uomini vanno a Teheran.”
Ma prima bisognava sconfiggere l'Iraq, mentre il piano di ristrutturazione del Medio Oriente per renderlo prono agli interessi di Stati Uniti e Israele doveva tenere un profilo basso, in parte per l'eventuale scetticismo dell'americano medio, e in parte perché gli esperti avrebbero potuto mettere in guardia sui pericoli di una strategia imperiale che gli USA non avrebbero potuto permettersi.
Così Bush il Giovane, il vice presidente Cheney e i loro consiglieri neocon picchiarono sul tasto dolente nell'animo degli americani, ancora terrorizzati dall'orrore dell'11 settembre. Ci si inventò che Saddam Hussein era in possesso di riserve di armi di distruzione di massa che era pronto a fornire ad al-Qaeda, permettendo ai terroristi di recare danni ancora maggiori agli Stati Uniti.
Far imbizzarrire l'America
I neocon, alcuni dei quali cresciuti in in famiglie di sinistrorsi trotskisti, si vedevano come una sorta di “avanguardia” politica che usasse tecniche “agit-prop” per manipolare il “proletariato” americano. Lo spauracchio delle armi di distruzione di massa venne visto come il sistema migliore per scatenare il panico nel gregge americano. A cose fatte, così ragionavano i neocon, la vittoria militare in Iraq avrebbe consolidato il sostegno popolare per la guerra e avrebbe permesso l'attuazione delle fasi successive, i “cambi di regime” in Iran e Siria.
All'inizio il piano sembrò funzionare, visto che l'esercito degli Stati Uniti incalzò e sopraffece l'esercito iracheno e conquistò Bagdad in tre settimane. Bush il Giovane festeggiò presentandosi sulla USS Abraham Lincoln con tanto di giubbotto da pilota, declamando il suo discorso sotto uno striscione che dichiarava “Missione Compiuta.”
E tuttavia, nel piano qualcosa cominciò ad andar storto quando il proconsole neocon Paul Bremer, perseguendo un modello di regime neocon, si sbarazzò di tutte le infrastrutture di governo irachene, smantellò quasi del tutto lo stato sociale e sciolse l'esercito. In più, il leader favorito dai neocon, l'esule Ahmed Chalabi, si rivelò privo di qualsiasi sostegno da parte del popolo iracheno.
Fece la sua apparizione una resistenza armata, che utilizzava armi a bassa tecnologia come gli “improvised explosive devices” [ordigni esploisivi improvvisati]. Ben presto, non solo c'erano migliaia di morti tra i soldati americani, ma l'Iraq veniva lacerato dalle antiche rivalità settarie tra scitti e sunniti. Ne derivarono orribili scene di caos e violenza.
Invece di acquistare popolarità tra gli americani, la guerra cominciò a perdere consensi, recando vantaggi elettorali ai Democratici nel 2006. I neocon si barcamenarono per mantenere la loro influenza promuovendo, nel 2007, un fittizio ma vittorioso “surge” [balzo], apparentemente efficace nel trasformare in trionfo un'imminente sconfitta. Ma la verità era che il “surge” aveva solo rimandato l'inevitabile fallimento dell'impresa statunitense.
Con l'allontanamento di George W. Bush nel 2009, e l'arrivo di Barack Obama, anche i neocon arretrarono. All'interno dell'esecutivo la loro influenza declinò, anche se continuavano a mantenere forti posizioni nei think tank di Washington e sulle pagine di opinione di media nazionali importanti come il Washington Post.
I recenti sviluppi nella regione mediorientale hanno creato nei neocon nuove speranze per i loro vecchi progetti. La Primavera Araba del 2011 ha portato a sommovimenti sociali in Siria, dove la dinastia di Assad, sostenuta da non-sunniti, ha conosciuto l'assalto da un insurrezione a guida sunnita, che annoverava tra le sue file qualche riformatore democratico ma anche jihadisti radicali.
Intanto l'Iran subiva dure sanzioni economiche, per via dell'opposizione internazionale al suo programma nucleare. Sebbene il presidente Obama vedesse le sanzioni come un mezzo per costringere l'Iran ad accettare limitazioni al suo programma nucleare, alcuni neocon fantasticavano su come strumentalizzare le sanzioni in vista di un “cambio di regime.”
Ad ogni modo, la sconfitta nel novembre 2012 di Mitt Romney, favorito dei neocon, da parte di Obama, e lìallontanamento dai vertici della CIA del loro alleato David Petraeus, sono stati un brutto colpo per le aspirazioni neocon alla guida della politica estera statunitense. Oggi sono costretti a cercare il modo di sfruttare la loro tuttora ampia influenza nei circoli politici di Washington, sperando in eventi favorevoli all'estero che spingano Obama ad atteggiamenti più aggressivi nei confronti di Iran e Siria.
Per i neocon resta inoltre cruciale che l'americano medio non rifletta troppo sui retroscena della disastrosa guerra in Iraq, il cui decimo anniversario, per quanto li riguarda, non passerà mai abbastanza presto.
note del traduttore
[1] La seconda frase è una parafrasi di un verso di Shelley, dal sonetto Ozymandias. Dato il contenuto della poesia, la pesante ironia che ne deriva sarà stata sicuramente involontaria.
[2] Ashokan Farewell è una ballata in stile scozzese, dal carattere melanconico, composta dal musicista statunitense Jay Ungar nel 1982. Negli USA è diventata celebre come parte della colonna sonora di un serial televisivo dedicato alla Guerra Civile, tanto che in molti credono si tratti di un brano tradizionale risalente a quel periodo. Nel serial è anche presente una scena, commentata dalla canzone, in cui un ufficiale scrive una lettera alla moglie, prima della battaglia in cui cadrà sotto il fuoco nemico (si tratta di un personaggio storico, e la sua missiva è un testo famoso)! I versi citati grosso modo significano “Attraverso la nebbia di una lontana guerra / Risplende la luce della loro devozione / verso l'onore, il dovere, / verso la dolce libertà”. Tutto ciò ricorda sinistramente Gli Ultimi Giorni dell'Umanità.
[3] Disponibile in traduzione italiana qui. In questo contesto “realm” non vuol dire “regno”, ma paese, entità territoriale.
I neocon fanno festa
La Washington che conta prese atto di queste nuove realtà e del rinnovato entusiasmo bellico del pubblico. In un numero uscito dopo la guerra, Newsweek dedicò un'intera pagina alle frecce “su e giù” del suo “Conventional Wisdom Watch” [Osservatorio dell'Opinione Corrente]. Bush ottenne una grossa freccia in su, accompagnata dal commento sbarazzino: “Dominatore dei sondaggi. Ammirate le mie percentuali, o Democratici, e disperate [1].”
Invece, per il suo tentativo dell'ultimo minuto di negoziare il ritiro iracheno, Gorbachev ebbe una freccia in giù: “Restituisci il Nobel, Compagno Traditore. PS I tuoi carri armati fanno schifo.” Perfino il Vietnam si prende una freccia in giù: “Dov'è che sta? Dite che anche lì c'è stata una guerra? E chi se ne importa?”
I commentatori neocon, che già spadroneggiavano nel panorama intellettuale di Washington, potevano a malapena porre un limite al loro gaudio con l'unico disappunto, che Bush il vecchio avesse smesso troppo presto col tiro al piccione iracheno, mentre avrebbe dovuto prolungare il massacro fino a Bagdad.
Anche il popolo americano fece entusiasticamente sua quella vittoria asimmetrica, celebrandola con parate trionfali, stelle filanti e fuochi d'artificio in onore degli eroi conquistatori. Il circo di questi cortei della vittoria si prolungo per mesi interi, con centinaia di migliaia a ingorgare Washington, per quella che venne chiamata “la madre di tutte le parate.”
Gli americani comprarono le magliette di Desert Storm a camionate; i bambini vennero lasciati arrampicarsi su carri armati e altro materiale bellico; la festa si concluse con quella che fu chiamata “la madre di tutti gli spettacoli pirotecnici.” Il giorno seguente, il Washington Post immortalò lo spirito del momento col titolo: “Una storia d'amore al centro commerciale – La gente e le macchine di guerra.”
Il comune sentire patriottico si estese all'esercito mediatico di Washington, lieto di levarsi di dosso la soma dell'obbiettività professionale per potersi unire al tripudio nazionale.
Durante il ricevimento annuale del Gridiron Club, occasione in cui stagionati funzionari governativi e giornalisti di spicco fanno comunella per una serata di puro spasso, gli uomini e le donne dei mezzi di informazione applaudirono freneticamente qualunque cosa assomigliasse a una divisa.
Il momento clou della serata fu uno speciale omaggio alle “truppe”: la lettera a casa di un soldato, recitata con il sottofondo di “Ashokan Farewell” di Jay Ungar. Alla musica vennero aggiunti versi creati appositamente in onore di Desert Storm, e i giornalisti-cantanti del Gridiron intervennero al momento del coro: “Through the fog of distant war / Shines the strenght of their devotion / To honor, to duty, / To sweet liberty.” [2]
Tra i convitati del ricevimento c'era il Segretario alla Difesa Cheney, che prese atto di come il corpo giornalistico di Washington si stesse genuflettendo di fronte a un conflitto così popolare. Riferendosi a quell'omaggio, Cheney osservò, non senza meraviglia, “Di solito dalla stampa non ci si aspetta una partecipazione tanto sfrenata.”
Il mese successivo, alla cena dei corrispondenti dalla Casa Bianca, quando fu annunciato il generale Schwarzkopf giornalisti e ospiti celebri applaudirono entusiasticamente. “Sembrava una première di Hollywood,” commentò un giornalista, riferendosi ai riflettori che mulinavano intorno al comandante.
L'opinionista neocon Charles Krauthammer fece una ramanzina agli scarsi dissidenti che avevano trovato inquietante vedere la stampa strisciare ai piedi di presidente ed esercito. “Scioglietevi un po', ragazzi,” scrisse “Alzate i calici, lanciate in aria il cappello, agitate un pon pon per gli eroi di Desert Storm. Se così vi sembra di vivere a Sparta, fatevi un altro bicchiere.”
L'egemonia americana
Insieme ad altri osservatori, i neocon avevano constatato come la tecnologia avanzata degli USA avesse cambiato la natura del conflitto bellico. Le “bombe intelligenti” annichilivano obbiettivi inermi; il sabotaggio elettronico spezzava la catena di comando nemica; le truppe americane, col loro equipaggiamento sofisticato, sbaragliavano gli iracheni coi loro sbiellati tank di fabbricazione sovietica. L'immagine della guerra si era fatta facile e divertente, con pochissime perdite statunitensi.
In seguito, il collasso dell'Unione Sovietica nel 1991 rimosse l'ultimo ostacolo all'egemonia degli Stati Uniti. L'unico problema che restava, per i neocon, era come ottenere e conservare la presa sulle leve del potere americano. Tuttavia, le suddette leve scapparono loro di mano, quando Bush il Vecchio rivolse i propri favori a consiglieri per la politica estera di atteggiamento “realista”, e quindi con l'elezione di Bill Clinton nel 1992.
Ma nei primi anni 90 i neocon avevano ancora molte carte da giocare, dato il credito guadagnato lavorando nell'amministrazione Reagan e le alleanze stipulate con altri falchi come Cheney. Inoltre i neocon avevano conquistato spazi importanti sulle pagine d'opinione di quotidiani di spicco, come il Washington Post e il Wall Street Journal, e posizioni chiave all'interno dei maggiori think tank di politica estera.
Un altra svolta ebbe luogo nel contesto dell'infatuazione dei neocon per i leader del Likud israeliano. Verso la metà degli anni 90, importanti figure neocon, tra cui Richard Perle e Douglas Feith, lavorarono per la campagna elettorale di Benjamin Netanyahu, eliminando dal tappeto le vecchie idee di un negoziato di pace coi vicini arabi di Israele.
Piuttosto che affrontare i dispiaceri di un negoziato per una soluzione a due stati del problema palestinese o avere a che fare con la seccatura degli Hezbollah libanesi, i neocon al seguito di Netanyahu decisero che era venuto il momento di un audace cambio di direzione, che delinearono nel 1996 in uno studio strategico dal titolo A Clean Break: A New Stategy for Securing the Realm [Un Taglio Netto: Una Nuova Strategia per la Sicurezza Del Territorio][3].
Il documento sosteneva l'idea che soltanto un “cambiamento di regime” nei paesi musulmani ostili avrebbe potuto ottenere il necessario “taglio netto” allo stallo diplomatico seguito agli inconcludenti colloqui di pace israelo-palestinesi. Operando questo “taglio netto”, Israele non avrebbe più cercato la pace tramite il compromesso, ma piuttosto attraverso lo scontro, includendo anche la rimozione violenta di leader come Saddam Hussein, sostenitori dei nemici ai confini di Israele.
Il piano definiva la cacciata di Hussein “un importante e legittimo obbiettivo strategico di Israele,” che inoltre avrebbe destabilizzato la dinastia Assad in Siria, facendo carambolare le tessere del domino fino in Libano, dove Hezbollah si sarebbe presto ritrovato senza il loro insostituibile alleato siriano. Anche l'Iran si sarebbe potuto trovare nel mirino del “cambio di regime.”
L'assistenza americana
Ma per il “taglio netto” era necessaria la potenza militare degli Stati Uniti, perché obbiettivi come l'Iraq erano troppo distanti o troppo forti per essere sconfitti dal pur efficientissimo esercito israeliano. Un passo così arrischiato avrebbe avuto per Israele un prezzo spropositato, in costi economici e di vite umane.
Nel 1998 il pensatoio neocon fece fare al piano del “taglio netto” un ulteriore passo avanti, creando il Project for the New American Century, che cominciò a premere su Clinton perché si impegnasse nella defenestrazione di Saddam Hussein.
Tuttavia, Clinton si spinse solo fino a un certo punto, mantenendo un embargo durissimo contro l'Iraq e una “no-fly zone” che comportava periodici bombardamenti da parte dell'aviazione statunitense. Al momento, quindi, sia con Clinton sia col suo supposto successore, AL Gore, un'invasione in piena regola dell'Iraq sembrava fuori questione.
Il primo maggiore ostacolo politico venne rimosso quando i neocon, nelle elezioni del 2000, contribuirono ad architettare l'ascesa di George W. Bush alla presidenza. Tuttavia, la strada non si sgombrò del tutto finché i terroristi di al-Qaeda non attaccarono New York e Washington l'11 settembre 2001, lasciandosi dietro, in tutta America, un clima favorevole a guerra e vendetta.
Naturalmente, Bush il Giovane doveva attaccare per primo l'Afghanista, dove al-Qaeda aveva la sua base principale, ma subito dopo si rivolse verso il bersaglio bramato dai neocon, l'Iraq. Oltre a essere la patria del già demonizzato Saddam Hussein, l'Iraq offriva altri vantaggi strategici. Non era densamente popolato come altri suoi vicini, ed era posizionato grosso modo tra Iran e Siria, altri obbiettivi di punta.
In quegli esaltanti giorni del 2002-2003, una battuta spiritosa dei neocon poneva il quesito di cosa fare dopo aver cacciato Saddam Hussein dall'Iraq, se andare a est, verso l'Iran, o a ovest, verso la Siria. La battuta finiva così: “I veri uomini vanno a Teheran.”
Ma prima bisognava sconfiggere l'Iraq, mentre il piano di ristrutturazione del Medio Oriente per renderlo prono agli interessi di Stati Uniti e Israele doveva tenere un profilo basso, in parte per l'eventuale scetticismo dell'americano medio, e in parte perché gli esperti avrebbero potuto mettere in guardia sui pericoli di una strategia imperiale che gli USA non avrebbero potuto permettersi.
Così Bush il Giovane, il vice presidente Cheney e i loro consiglieri neocon picchiarono sul tasto dolente nell'animo degli americani, ancora terrorizzati dall'orrore dell'11 settembre. Ci si inventò che Saddam Hussein era in possesso di riserve di armi di distruzione di massa che era pronto a fornire ad al-Qaeda, permettendo ai terroristi di recare danni ancora maggiori agli Stati Uniti.
Far imbizzarrire l'America
I neocon, alcuni dei quali cresciuti in in famiglie di sinistrorsi trotskisti, si vedevano come una sorta di “avanguardia” politica che usasse tecniche “agit-prop” per manipolare il “proletariato” americano. Lo spauracchio delle armi di distruzione di massa venne visto come il sistema migliore per scatenare il panico nel gregge americano. A cose fatte, così ragionavano i neocon, la vittoria militare in Iraq avrebbe consolidato il sostegno popolare per la guerra e avrebbe permesso l'attuazione delle fasi successive, i “cambi di regime” in Iran e Siria.
All'inizio il piano sembrò funzionare, visto che l'esercito degli Stati Uniti incalzò e sopraffece l'esercito iracheno e conquistò Bagdad in tre settimane. Bush il Giovane festeggiò presentandosi sulla USS Abraham Lincoln con tanto di giubbotto da pilota, declamando il suo discorso sotto uno striscione che dichiarava “Missione Compiuta.”
E tuttavia, nel piano qualcosa cominciò ad andar storto quando il proconsole neocon Paul Bremer, perseguendo un modello di regime neocon, si sbarazzò di tutte le infrastrutture di governo irachene, smantellò quasi del tutto lo stato sociale e sciolse l'esercito. In più, il leader favorito dai neocon, l'esule Ahmed Chalabi, si rivelò privo di qualsiasi sostegno da parte del popolo iracheno.
Fece la sua apparizione una resistenza armata, che utilizzava armi a bassa tecnologia come gli “improvised explosive devices” [ordigni esploisivi improvvisati]. Ben presto, non solo c'erano migliaia di morti tra i soldati americani, ma l'Iraq veniva lacerato dalle antiche rivalità settarie tra scitti e sunniti. Ne derivarono orribili scene di caos e violenza.
Invece di acquistare popolarità tra gli americani, la guerra cominciò a perdere consensi, recando vantaggi elettorali ai Democratici nel 2006. I neocon si barcamenarono per mantenere la loro influenza promuovendo, nel 2007, un fittizio ma vittorioso “surge” [balzo], apparentemente efficace nel trasformare in trionfo un'imminente sconfitta. Ma la verità era che il “surge” aveva solo rimandato l'inevitabile fallimento dell'impresa statunitense.
Con l'allontanamento di George W. Bush nel 2009, e l'arrivo di Barack Obama, anche i neocon arretrarono. All'interno dell'esecutivo la loro influenza declinò, anche se continuavano a mantenere forti posizioni nei think tank di Washington e sulle pagine di opinione di media nazionali importanti come il Washington Post.
I recenti sviluppi nella regione mediorientale hanno creato nei neocon nuove speranze per i loro vecchi progetti. La Primavera Araba del 2011 ha portato a sommovimenti sociali in Siria, dove la dinastia di Assad, sostenuta da non-sunniti, ha conosciuto l'assalto da un insurrezione a guida sunnita, che annoverava tra le sue file qualche riformatore democratico ma anche jihadisti radicali.
Intanto l'Iran subiva dure sanzioni economiche, per via dell'opposizione internazionale al suo programma nucleare. Sebbene il presidente Obama vedesse le sanzioni come un mezzo per costringere l'Iran ad accettare limitazioni al suo programma nucleare, alcuni neocon fantasticavano su come strumentalizzare le sanzioni in vista di un “cambio di regime.”
Ad ogni modo, la sconfitta nel novembre 2012 di Mitt Romney, favorito dei neocon, da parte di Obama, e lìallontanamento dai vertici della CIA del loro alleato David Petraeus, sono stati un brutto colpo per le aspirazioni neocon alla guida della politica estera statunitense. Oggi sono costretti a cercare il modo di sfruttare la loro tuttora ampia influenza nei circoli politici di Washington, sperando in eventi favorevoli all'estero che spingano Obama ad atteggiamenti più aggressivi nei confronti di Iran e Siria.
Per i neocon resta inoltre cruciale che l'americano medio non rifletta troppo sui retroscena della disastrosa guerra in Iraq, il cui decimo anniversario, per quanto li riguarda, non passerà mai abbastanza presto.
note del traduttore
[1] La seconda frase è una parafrasi di un verso di Shelley, dal sonetto Ozymandias. Dato il contenuto della poesia, la pesante ironia che ne deriva sarà stata sicuramente involontaria.
[2] Ashokan Farewell è una ballata in stile scozzese, dal carattere melanconico, composta dal musicista statunitense Jay Ungar nel 1982. Negli USA è diventata celebre come parte della colonna sonora di un serial televisivo dedicato alla Guerra Civile, tanto che in molti credono si tratti di un brano tradizionale risalente a quel periodo. Nel serial è anche presente una scena, commentata dalla canzone, in cui un ufficiale scrive una lettera alla moglie, prima della battaglia in cui cadrà sotto il fuoco nemico (si tratta di un personaggio storico, e la sua missiva è un testo famoso)! I versi citati grosso modo significano “Attraverso la nebbia di una lontana guerra / Risplende la luce della loro devozione / verso l'onore, il dovere, / verso la dolce libertà”. Tutto ciò ricorda sinistramente Gli Ultimi Giorni dell'Umanità.
[3] Disponibile in traduzione italiana qui. In questo contesto “realm” non vuol dire “regno”, ma paese, entità territoriale.
[articolo del 20 marzo 2013]
traduzione
per Doppiocieco
di
Domenico D'Amico
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Saddam Hussein,
USA
sabato 23 aprile 2016
La questione tedesca: alcuni fatti stilizzati
di Alberto Bagnai da goofynomics
Un amico che stimo, Charlie Brown, biasima spesso le menti strategiche statunitensi per aver riportato di attualità per la terza volta in un secolo e senza che se ne sentisse veramente il bisogno la questione tedesca. Lo hanno fatto (a voi è chiaro) gestendo l'Europa non solo e non tanto nell'interesse degli Stati Uniti (e questo era un loro buon diritto, essendo loro una delle due potenze vincitrici), ma soprattutto a immagine e somiglianza degli Stati Uniti, cioè imponendoci un percorso di integrazione, quello degli "Stati Uniti d'Europa", che era forse funzionale ai loro interessi militari, ma che era del tutto disfunzionale rispetto al nostro percorso storico (oltre ad essere antistorico in senso lato, come Alesina vedeva prima di avere interesse a non vederlo).
Avallando l'euro gli Stati Uniti ci hanno e si sono condannati a una nuova Dresda.
Sarà magari una Dresda in tono minore, grazie a Dio, anche se il motivo per il quale lo sarà non deve essere di grande soddisfazione: se non saremo bombardati, ciò non accadrà perché l'umanità sarà diventata migliore, ma perché l'Europa sarà diventata sostanzialmente irrilevante. Come diceva una simpatica coattella sul 64: "Er peggior disprezzo è l'indifferenza!". Con una ere, ovviamente. Verità da autobus, che possono diventare verità storiche...
Trovo nelle osservazioni di Charlie Brown una certa plausibilità. Del resto, se gli imperi crollano un motivo ci sarà, e magari fra questi motivi potrebbe rientrare anche qualche errore strategico, o, come oggi si dice, di visione (che insieme a narrazione è una delle due parole delle quali avremmo fatto a meno e che fanno rima con chi le usa).
Credo che gli Stati Uniti pensino di poter fare a meno dell'Europa (se non come uno dei tanti outlet per i loro prodotti). Sarà la storia a dire se avranno avuto ragione. Io credo che dell'Europa il mondo non possa fare facilmente a meno: non vorrei che quanto dico fosse interpretato come la rivendicazione di una supremazia che in effetti non ha particolare ragione di esistere e soprattutto non si saprebbe in quale metrica valutare, ma vorrei ricordare che per tanti motivi nell'Europa divisa è stato fatto un lavoro di lettura e interpretazione della realtà del quale oggi ancora tutti possiamo beneficiare. Rinnegarlo, abolirlo, significherebbe perdere molto, col rischio di esporsi a errori strategici.
Pensate ad esempio a quella storia del reale e del razionale, ve la ricordate? Qui trovate una sintetica spiegazione a cura di Diego.
Dice: sò parole...
Eh, sì, sò parole, però servono, se le sai usare, e a usarle per tempo forse qualche lutto ce lo saremmo risparmiato. Possiamo però sempre farne un uso postumo, e ve ne fornisco due esempi.
Esempio numero uno. Nel mio articolo sui paradossi dell'Europa (che è piaciuto molto a Thirlwall, ma naturalmente non posso portare a un concorso) mi pongo la domanda: ma perché i governi europei hanno concordemente avallato un regime nel quale l'unica valvola di sfogo è il taglio dei salari? E la risposta è hegeliana: per tagliare i salari. Il reale è razionale (che poi è quella cosa che Polonio diceva parlando di follia e metodo, come ricorderete...).
Esempio numero due. Ieri, al corso che sto tenendo presso Spaziottagoni, mi sono posto un'altra domanda: ma perché i governi europei hanno concordemente avallato un regime nel quale la disoccupazione, ineludibile conseguenza della necessità di tagliare i salari, può essere alleviata solo facilitando l'emigrazione dai paesi deboli? E la risposta è hegeliana: per facilitare l'immigrazione nei paesi forti.
Naturalmente, se la razionalità del taglio dei salari è facilmente intuibile (comandano i potenti, i capitalisti, che nel taglio dei salari vedono un aumento dei propri profitti, pensando di poter lasciare il cerino del crollo della domanda in mano altrui), la razionalità dell'immigrazione, per essere dimostrata, richiede un passaggio in più. Perché gli immigrati sono diversi, sono brutti (chi è ricco, ben educato, istruito, lavato, sbarbato, profumato, ed esercita professioni ad alto valore aggiunto, fa il turista, non l'emigrato) e in quanto tali perturbano il paesaggio: non si sa dove metterli. Quindi perché caricarseli? Perché questo sarebbe razionale? In altre parole: Maastricht collima con la razionalità della potenza egemone, ma Schengen?
Bè, qui se ne è già parlato, ma vale la pena di aggiungere un paio di dettagli. Curiosando sul sito dell'Eurostat potrete trovare questa tabella, dalla quale vi propongo un paio di excerpta in forma grafica.
Voi sapete che la Germania è in crisi demografica, e che questo mette a rischio la sostenibilità delle sue finanze pubbliche nel lungo termine. Ce lo ripete ogni singolo anno a settembre la Commissione nel suo rapporto sulla sostenibilità fiscale, dove ogni singolo anno, da prima che venissero perpetrate le ultime riforme, vediamo grafici di questo tipo:
(...nota per gli ignari: S2 è la soglia di sostenibilità a lungo termine, i paesi sotto la linea rossa - Italia e Croazia - hanno finanze pubbliche sostenibili, quelli sopra le hanno insostenibili, l'indicatore è a lungo termine nel senso che tiene conto delle passività per il bilancio statale derivanti dal carico futuro del sistema pensionistico...)
Questi grafici certificano come l'Italia abbia finanze pubbliche sostenibili a lungo termine sia perché ha una posizione fiscale favorevole (siamo in surplus primario da decenni), sia perché la sua evoluzione demografica a lungo termine è favorevole, mentre la Germania è messa nei guai proprio dalla demografia, come la Commissione ogni anno ci ripete:
Questo grafico e questo commento vengono dall'edizione 2015, ma se andate indietro nel tempo troverete che negli anni precedenti le cose erano poste esattamente in questi termini. Ogni anno la commissione fa un copia e incolla di questo paragrafo e di questo grafico dall'edizione precedente, il che non stupisce: le variabili demografiche hanno una certa inerzia, per cui non è così strano che di anno in anno la situazione non cambi radicalmente.
E, del resto, io ricordo distintamente (e vi avevo anche chiesto di cercarmene il podcast) le parole di Quadrio Curzio che, il giorno dopo la riforma Fornero, intervistato in radio, disse: "Questa riforma delle pensioni non era necessaria perché la riforma Dini aveva risolto i nostri problemi, ma abbiamo dovuto farla perché ce l'hanno chiesta i mercati".
[a chi mi trova questo podcast offro due biglietti al #goofy5]
E, alla stessa stregua, ricordo (e quello devo cercarlo io) un occasional paper del Fmi che a metà anni '90, e quindi prima della riforma Dini, già certificava come la sostenibilità del sistema pensionistico italiano fosse di gran lunga superiore a quella dei sistemi dei paesi del Nord Europa, e sempre per il solito motivo: perché "Italians do it better, or at least more often"...
Naturalmente i collaborazionisti locali negano questa evidenza: il loro scopo è infatti quello di spremere a noi risorse (affossando il nostro settore pubblico con la scusa di salvarlo), per trasferirle alla potenza egemone che, come il grafico dimostra, ne ha bisogno. Aggiungo un paio di grafici, tanto per chiarire il concetto. Questo è il tasso di variazione naturale della popolazione (differenza fra nati e morti nell'anno) nei tre paesi più popolosi dell'Europa continentale:
Notate niente? In Francia è positivo, in Germania è negativo, da noi era nullo ma dall'inizio della crisi ha puntato decisamente in territorio negativo.
Ah, queste donne egoiste, che non danno figli alla patria (ma non era Mussolini a ragionare così?), e che, così facendo, rendono necessario l'apporto dei migranti! Oppure le cose stanno in un altro modo? Forse, visto che l'agenda della comunicazione la detta chi comanda, non è poi strano che qui da noi prevalga l'idea che "abbiamo bisogno di migranti". In effetti, non ci sono grandi evidenze che in termini strettamente economici ne avremmo bisogno (il che, lo ribadisco ad uso dei tanti cretini, non significa che si debba lasciar morire la gente in mare), ma ne ha certamente bisogno la Germania, e quindi...
Ma il problema prescinde dalla questione umanitaria (che va gestita con le logiche e gli strumenti appropriati, i quali peraltro vengono a mancare se ci condanniamo da soli al sottosviluppo), e preesiste ad esso. Per capire la logica della costruzione europea, basta osservare cosa è successo al tasso di migrazione (differenza fra immigrati ed emigrati) prima della crisi dei rifugiati, ma dopo la crisi economica:
Si capisce, no, a cosa servono l'euro e Schengen? A trasformare l'intero continente europeo in una tonnara la cui camera della morte è la Germania. È lì, e solo lì, che i lavoratori devono andare a finire quando uno shock colpisce il sistema, a casa della potenza egemone, perché la potenza (localmente) egemone ne ha bisogno. La gestione della crisi da parte del tandem Draghi/Merkel (ora litigano, ma per tanto tempo sono andati d'accordo) ha avuto due esiti evidenti: permettere al governo tedesco di finanziarsi a tassi negativi, e al sistema industriale tedesco di approvvigionarsi di mano d'opera istruita nei paesi periferici, i quali vengono ora penalizzati per aver sostenuto il costo dell'istruzione proprio di quella mano d'opera della quale l'egemone beneficia. Perché, come sappiamo, sono sempre i migliori che se ne vanno (e non mi riferisco tanto alla morte, che ultimamente si sta dimostrando imparziale, quanto al fatto che in presenza di barriere culturali l'emigrazione è skill biased, come vi ho dettagliatamente ricordato qui).
Il reale è razionale.
Ribadisco che il grafico ovviamente non tiene conto di quanto è successo nel 2015 grazie all'oculata gestione della crisi siriana da parte della signora Merkel: le dinamiche che vedete rappresentate sono quelle tipiche di paesi sottoposti al processo di svalutazione interna (cioè di aumento della disoccupazione, con connessa fuga all'estero). Un processo che reca benefici al paese che ha una componente di crescita naturale della popolazione negativa, e che quindi, non a caso, è un acceso fan della svalutazione interna.
Perché con la svalutazione esterna (quella del cambio) il problema si risolverebbe in un altro modo. Verrebbe infatti da dire, ai nostri amici tedeschi: "Fate l'amore, non fate la guerra", o, almeno, tornate in vacanza in Romagna, che se proprio non avete voglia ci pensiamo noi. Ma purtroppo la loro valuta sottovalutata (l'euro), o, se volete, la nostra valuta sopravvalutata (l'euro), impedisce questa piacevole composizione del conflitto, che verrebbe realizzata rimuovendo la principale causa di attriti europei: l'impasse demografica di un paese che da due millenni aspira ad essere una potenza mondiale, e che non lo sarà mai.
E quando dico mai, intendo mai.
Accetto scommesse: hanno cinque miliardi di anni per provarci, anche se, come sapete, sono cinque miliardi teorici, perché potrebbe arrivare Apollo a scombinare le carte.
Ah, per i diversamente astrofili mi affretto a specificare che non mi riferisco al simpatico fondo avvoltoio americano, ma a questo oggetto qui, che, peraltro, se il Signore nella sua infinita lungimiranza e misericordia deciderà in tal senso, potrebbe atterrare anche su Wall Street.
Buona visione (e non dimenticate l'ombrello)...
(...d'altra parte, i tedeschi vanno anche capiti: meglio la svalutazione interna a casa altrui, che le corna in casa propria...)
giovedì 21 aprile 2016
Un nuovo Maggio 68
Tonino D’Orazio
Gli ingredienti ci sono
tutti, anche questa volta si parte dal lavoro e le libertà in filigrana. Di
nuovo la Francia, anche come caloroso risveglio di primavera, con gli studenti
di nuovo in partenariato con i lavoratori, precarizzati o da precarizzare di
più, con la riforma del mercato del lavoro copiato dal Job Act renziano, da un
altro se dicente socialista, Hollande. Meno con i sindacati, eccetto la CGT.
Anche, allora c’ero in quelle strade parigine, le organizzazioni, scavalcate
direttamente dai lavoratori si unirono poi con la CGT per la manifestazione
decisiva dell’11 maggio 1968, facendo scappare a Strasburgo (cioè vicino alla
frontiera tedesca) il presidente De Gaule. Con i francesi non si sa mai. In
Italia i sindacati attrezzarono un autunno caldo solo nel 1969, ma diede ai
lavoratori, negli anni successivi, gran parte dei diritti oggi perduti.
Oggi i francesi
sembrano arrivare in ritardo, dopo il M5S in Italia, Syriza in Grecia, Podemos
in Spagna e Blocco della Sinistra in Portogallo, e dopo che Occupy Wall Street sembra
sia stato recuperato ufficialmente. Sembrano però aver creato l’effetto Sanders
negli Stati Uniti e un ritorno dei socialisti operaisti con Jeremy
Corbyn a capo del Labour in
Gran Bretagna. E’ assente la Germania, non a caso, visto che la mangiatoia è
piena e possono iniziare anche a battere moneta. Tutti contro il neoliberismo,
il FMI, la Bce, la troika di Bruxelles e le politiche di austerità che
impoveriscono molti e arricchiscono pochi. Tutti, come filo conduttore che li
lega, contro l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento e la compressione della
democrazia. Tutti contro i partiti tradizionali e i risultati
politico-sociali dei loro governi.
Fanno paura? Forse sì,
a vedere con quale incredibile violenza i celerini hanno “accolto” i liceali
andati ad incontrare i ferrovieri della stazione Saint Lazare in sciopero. Il
timore è proprio quello di un vero collegamento di lotta tra studenti e
lavoratori. Sono sempre “convergenze” pericolose.
Da novembre scorso e la
proclamazione dello “stato d’urgenza” lo Stato della regressione sociale e del
manganello si è rapidamente sviluppato. Il neoliberismo (o fascismo) padronale
ne approfitta per “spezzare” qualsiasi movimento di rivendicazione sociale, facendo
arrestare tutti i contestatari in nome della sicurezza, e trasferire nei
tribunali, non proprio come “terroristi”, perché nessuno ci crederebbe
veramente, ma quasi, e comunque persone da ritenere “pericolose”. Centinaia di
liceali sono stati arrestati, “rinfrescati” e rimessi in libertà provvisoria. Altri
sono ancora agli arresti. Nel frattempo sono aumentate le violenze della
polizia, tanto da far protestare ufficialmente la CGT. Rimane il concetto che
manganellare liceali in manifestazioni pacifiche è la dimostrazione del “timore”
e della malafede dello stato. A meno di pensare a “educarli”, come diceva bene
l’ex presidente Cossiga.
In realtà, più che le
manifestazioni e gli scontri, che tengono accesi la lotta e l’informazione, il
fenomeno “nuovo” è il ritorno all’occupazione delle piazze. A Parigi, in
particolare, e carica di significati, è quella della République. Stessa piazza occupata in altre città importanti della
Francia. Dove tutte le notti si radunano migliaia di persone, studenti compresi,
allo slogan “Nuit debout” (notte in
piedi). Ogni notte i giovani cantano, ballano e discutono sui diritti e sulla
situazione economica. Vengono sgomberati al mattino dalla polizia, ma sembra
più un balletto, perché tutti tornano la notte seguente. Dura da 51 giorni.
Sappiatelo, perché tanto le televisioni padronali, Rai compresa, non ve lo
diranno.
Cosa fanno? Discutono
di tutto, anzi si organizzano in gruppi di lavoro “popolari”, con nozioni
semplici e precise sui diritti inviolabili, non solo sociali, contro lo
strapotere delle banche e per la ridistribuzione della ricchezza prodotta nel
paese. Vogliono il rispetto dei diritti, giustizia sociale ed eguaglianza.
Insomma la storia ritorna sempre con la loro bussola di Liberté, Egalité, Fraternité, (anche se rimpiazzata da: Equité, solidarité, dignité), da Place de la République a Place de la Bastille. Dove gli
universitari, dopo aver bloccato alcune università di Parigi, ballano
ritmicamente su “tre passi a destra, tre
passi indietro, è la politica del governo”. “Abbiamo una sinistra che merita un destro!” Ma guarda! Forse i
giovani iniziano a muoversi per prendere in mano il loro destino, oggi così
insicuro. Quelli francesi vogliono reagire, non vogliono cedere, asettizzati, come
hanno fatto la grande maggioranza dei giovani degli altri paesi del Sud Europa.
Sembrano voler rilanciare lo slogan di Stephane Hessel, “Indignatevi”. Momentaneamente
queste manifestazioni sono sostenute solo dalla CGT, sindacato notoriamente
“comunista” e anti liberista, in nome della libertà di espressione. Sono
sostenute anche dalla Lega dei Diritti Umani, che ha chiesto allo stato di
intervenire approntando almeno box-wc.
Questione filosofica? E
se in queste piazze si stesse fabbricando, anche se in maniera balbuziente, una
concezione della politica più degna e quotidiana, lontana dalla deriva
arbitraria di regimi partitici diventati pretesa unica di democrazia? Se fosse
un dispositivo pratico e sicuro per rilanciare l’immaginario politico-ideale di
una società, anche squisitamente europea e umanistica, che invece sta
scivolando sempre più in un fango oligarchico e nelle mani di una destra
fascistoide?
L’inizio di questi
“assembramenti” di piazza ha coinciso con una protesta immensa contro la legge
di riforma del mercato del lavoro in Francia. Spesso si pensa che fatta la
manifestazione, poi, non succede mai nulla. Invece proprio dal lavoro è
ripartita la discussione democratica e la continuità della lotta. Nelle piazze
di tutta la Francia.
La risposta, tutta
politica, del padronato francese è di stampo marchionniano: sospendere tutte le
trattative di rinnovo contrattuale con i sindacati e i lavoratori. Tanto gli
amici al governo regalano loro, democraticamente, le leggi per lo sfruttamento
dei lavoratori nel mercato a senso unico del lavoro.
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