Queste sono le riforme di cui vorremmo sentir parlare, non quelle di Monti e di Bersani, che chiamano riforma l'abolizione delle tutele sul lavoro, le privatizzazioni, la riforma Fornero sulle pensioni e i tagli al Welfare.
Esattamente
settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di
protezione sociale elaborato dal rettore dell'Univeristy College di
Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di
welfare. Ecco perchè le sue idee sono ancora attualissime.
di Lucio Villari, da Micromega
C’era
una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e
l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della
Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate
1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero
testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare
recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli
inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile
The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi.
Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge.
In
autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli
italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito
dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa
internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di
documentazione democratica.
Il Piano Beveridge aveva
questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al
Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116
pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più
essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite
culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più
consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà
tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei
ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per
assicurare e garantire libertà e democrazia.
Mentre imperversava una
guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità
propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione
socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di
dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i
popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore
della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di
democrazia, vera, attiva.
Il Piano Beveridge era un piano
pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia,
industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva
negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana
esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo
aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come
iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni
sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui
guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni,
rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si
faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione
Barbarossa tedesca contro la Russia.
L’opinione pubblica inglese,
anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi
in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e
i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega
pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in
quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del
disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che
pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con
molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano,
quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu
elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre
1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione
sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale
e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.
Sono
trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e
i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano
implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e
di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma
politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare
l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende
anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di
Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata
ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede,
coraggio e sentimento di unità nazionale”.
Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society.
E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600
pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno
della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e
terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre
alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle
sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico
privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera —
scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può
realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.
giovedì 31 gennaio 2013
lunedì 28 gennaio 2013
Il lavoro cannibale
dal blog di Beppe Grillo
Ci sarà un motivo se i boscimani e gli irochesi lavoravano per nutrirsi un'ora al giorno e oggi dobbiamo lavorare per 8/10 ore al giorno per 40 anni, fino alla soglia della morte, per sopravvivere. Il lavoro ci divora. Cos'è cambiato in peggio da allora? Qual è il significato della parola "lavoro"? A cosa serve l'aumento del lavoro? A consumare la propria esistenza in una miniera o in un ufficio 2x2 fino alla consunzione, spegnendosi come delle candele? All'acquisto di beni inutili per far crescere il Pil? Ad accumulare ricchezze materiali che non ci seguiranno nell'aldilà? A pagare le tasse a uno Stato ipertrofico? Quando è iniziata questa follia che ormai non riusciamo più a vedere, che ci ha trasportati in un "altrove" cognitivo che scambiamo per l'unico mondo possibile? Il tempo, la felicità, la crescita interiore sembrano scomparsi. Al loro posto ci sono solo il lavoro e il suo opposto: "la mancanza di lavoro", la disoccupazione, temibile come e più della schiavitù quotidiana a cui siamo soggetti.
"Gli imprenditori europei furono i primi a svolgere i loro affari senza che qualche "ufficio del saccheggio interno" cercasse di ridimensionarli. Essi potevano accumulare ricchezze senza preoccuparsi di dividerle. Gli imprenditori accumulavano ricchezze spingendo i loro seguaci, chiamati ora dipendenti, a lavorare più sodo. Grazie al possesso di capitali, potevano comprare aiuto e noleggiare mani (oltre a schiene, spalle, piedi e cervelli). L'imprenditore non era obbligato a promettere di consumare tutto alla prossima festa del villaggio e poteva facilmente disattendere le richieste di una più ampia partecipazione al prodotto. Inoltre, la forza-lavoro, manuale o intellettuale, aveva ben poca scelta. Privi di accesso alle terre e alle macchine, non potevano lavorare in nessun modo se non accettavano la legittimità delle pretese dell'imprenditore. Essi assistevano l'imprenditore semplicemente per evitar di morire di fame. L'imprenditore era finalmente libero di considerare l'accumulazione di capitale come un obbligo superiore a quello della redistribuzione della ricchezza e del benessere. Il capitalismo è un sistema che tende a un aumento illimitato della produzione in vista di un illimitato accrescimento dei profitti. Ma la produzione non può crescere in modo illimitato. Liberi dalle restrizioni di despoti e di poveri, gli imprenditori capitalisti debbono comunque fare i conti con le restrizioni imposte dalla natura. La redditività della produzione non può estendersi indefinitamente. Ogni aumento della quantità di suolo, acqua, minerali o piante impiegati in un particolare processo produttivo per unità di tempo costituisce un'intensificazione che porta a una diminuzione del rendimento. E questo diminuito rendimento ha effetti negativi sullo standard di vita medio ... secondo la legge della domanda e dell'offerta, la scarsità porta a prezzi più elevati che tendono a ridurre il consumo pro capite." Marvin Harris, antropologo, autore di "Cannibali e re"
Ci sarà un motivo se i boscimani e gli irochesi lavoravano per nutrirsi un'ora al giorno e oggi dobbiamo lavorare per 8/10 ore al giorno per 40 anni, fino alla soglia della morte, per sopravvivere. Il lavoro ci divora. Cos'è cambiato in peggio da allora? Qual è il significato della parola "lavoro"? A cosa serve l'aumento del lavoro? A consumare la propria esistenza in una miniera o in un ufficio 2x2 fino alla consunzione, spegnendosi come delle candele? All'acquisto di beni inutili per far crescere il Pil? Ad accumulare ricchezze materiali che non ci seguiranno nell'aldilà? A pagare le tasse a uno Stato ipertrofico? Quando è iniziata questa follia che ormai non riusciamo più a vedere, che ci ha trasportati in un "altrove" cognitivo che scambiamo per l'unico mondo possibile? Il tempo, la felicità, la crescita interiore sembrano scomparsi. Al loro posto ci sono solo il lavoro e il suo opposto: "la mancanza di lavoro", la disoccupazione, temibile come e più della schiavitù quotidiana a cui siamo soggetti.
"Gli imprenditori europei furono i primi a svolgere i loro affari senza che qualche "ufficio del saccheggio interno" cercasse di ridimensionarli. Essi potevano accumulare ricchezze senza preoccuparsi di dividerle. Gli imprenditori accumulavano ricchezze spingendo i loro seguaci, chiamati ora dipendenti, a lavorare più sodo. Grazie al possesso di capitali, potevano comprare aiuto e noleggiare mani (oltre a schiene, spalle, piedi e cervelli). L'imprenditore non era obbligato a promettere di consumare tutto alla prossima festa del villaggio e poteva facilmente disattendere le richieste di una più ampia partecipazione al prodotto. Inoltre, la forza-lavoro, manuale o intellettuale, aveva ben poca scelta. Privi di accesso alle terre e alle macchine, non potevano lavorare in nessun modo se non accettavano la legittimità delle pretese dell'imprenditore. Essi assistevano l'imprenditore semplicemente per evitar di morire di fame. L'imprenditore era finalmente libero di considerare l'accumulazione di capitale come un obbligo superiore a quello della redistribuzione della ricchezza e del benessere. Il capitalismo è un sistema che tende a un aumento illimitato della produzione in vista di un illimitato accrescimento dei profitti. Ma la produzione non può crescere in modo illimitato. Liberi dalle restrizioni di despoti e di poveri, gli imprenditori capitalisti debbono comunque fare i conti con le restrizioni imposte dalla natura. La redditività della produzione non può estendersi indefinitamente. Ogni aumento della quantità di suolo, acqua, minerali o piante impiegati in un particolare processo produttivo per unità di tempo costituisce un'intensificazione che porta a una diminuzione del rendimento. E questo diminuito rendimento ha effetti negativi sullo standard di vita medio ... secondo la legge della domanda e dell'offerta, la scarsità porta a prezzi più elevati che tendono a ridurre il consumo pro capite." Marvin Harris, antropologo, autore di "Cannibali e re"
sabato 26 gennaio 2013
Alla conquista del deserto: le guerre del Mali
di Alessandra Corrado da Uninomade
Il Mali è oggi al centro delle cronache internazionali per le crisi e le dinamiche complesse che sta vivendo, e per la nuova “guerra mondiale” che potrebbe preparasi. Dal 2009 i ribelli Touaregs del Mouvement National de Libération de l’Azawad (MNLA) tornano a reclamare l’indipendenza delle tre regioni del Nord (Gao, Tombouctou e Kidal) e di parte della regione di Mopti, e progressivamente ne realizzano l’occupazione; gruppi integralisti religiosi – Ansar Dine, il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO), Al-Qaïda au Maghreb Islamique (AQMI) e Boko Haram – si uniscono alla ribellione rivendicando l’applicazione della charia su tutto il territorio nazionale; nel marzo 2011 un colpo di stato militare, nella capitale Bamako, ha deposto il presidente Amadou Toumani Touré (ATT).
Al Nord le violenze e i saccheggi hanno determinato lo sfollamento e la fuga verso il Sud (Segou, Sikasso) e attraverso le frontiere (verso Burkina Faso, Niger, Mauritania) di centinaia di migliaia di persone, e in tutto il Paese regna lo scompiglio più totale, in virtù di una crisi politica e istituzionale che sembra non trovare soluzione al proprio interno e di una crisi militare che ha cercato soluzione già all’esterno, invocando l’intervento dell’ex madrepatria, la Francia.
Se alcune cronache, generalizzando in modo azzardato e miope, vedono la possibilità di una “somalizzazione” del Mali, ovvero di una guerra a bassa intensità permanente tra tribù e gruppi etnici diversi per il controllo del potere e delle risorse, altre invece parlano del rischio di una “afghanizzazione” del Paese, ossia di una internazionalizzazione della crisi, con un progressivo contagio ad altri paesi limitrofi e di una destabilizzazione continua.
Calchi Novati (su il Manifesto) scrive che «non è il caso di gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito», considerando che il 60% dello spazio territoriale è occupato da ribelli e organizzazioni fondamentaliste e nella capitale governativa vige una precaria convivenza tra una giunta militare e un governo civile provvisorio insediato dall’esercito stesso.
Al-Qaida ha rappresentato molto di più che un pretesto per rafforzare l’ingerenza straniera nelle questioni di casa e nell’intera area. Tuttavia, il presidio militare messo in atto da Stati Uniti e alleati in un ambiente che è soprattutto uno “spazio di movimento”, riproduce e alimenta in maniera aggressiva gli stessi fenomeni che vorrebbe scongiurare, e rischia di compattare ribellismi e organizzazioni diverse.
L’area Sahelo-sahariana è il regno dei tuareg e più in generale delle popolazioni berbere, tradizionalmente nomadi ma sempre più costrette alla sedentarizzazione, in primis dalle frontiere statuali. Si tratta di un’area caratterizzata dal nomadismo, lungo antiche linee carovaniere, e da traffici, leciti e illeciti: prodotti, bestiame, sigarette, armi, droga, esseri umani (migranti e sotaggi). Il fondamentalismo islamico vi è presente da più tempo ma solo di recente ha assunto una valenza anti-occidentale. Il pretesto del terrorismo ha fatto sì che il Mali divenisse sede di Africom, il comando militare unificato per l’Africa costituito nel 2007 da Bush e consolidato da Obama. Gli Stati Uniti da anni formano e armano l’esercito locale, al fine di sostenerlo nella battaglia al terrorismo appunto, quello stesso esercito che ha messo a segno il putsch militare e da cui si sono sfilate componenti che si sono poi unite alle organizzazioni ribelli.
Per comprendere dunque la crisi aperta in Mali e nell’intera area Sahelo-sahariana, è importante conoscere la storia coloniale e postcoloniale nella quale si sono prodotte e riprodotte periodicamente le ribellioni delle popolazioni del Nord, nonché aver chiaro il quadro geopolitico ridisegnato nel post 11 settembre 2001 e dominato da imprese transtatali, con la loro capacità di penetrazione delle strutture statali e interstatali.
Mai in passato le popolazioni berbere (Tamasheq o Touaregs) hanno cercato di costituire un potere politico unitario. Le differenti tribù hanno perseguito la riproduzione della vita comunitaria e la sopravvivenza garantendosi soprattutto l’accesso alle risorse economiche. L’indipendenza oggi rivendicata dai ribelli del Nord è un progetto vecchio sessant’anni. La loro rivendicazione ricorda infatti il progetto Organisation commune des régions sahariennes (OCRS), con il quale la Francia, negli anni ’50, sul finire della dominazione coloniale, aveva tentato di recuperare le regioni sahariane di diversi Stati (Niger, Mali, Algérie, Soudan) e di mettere insieme le diverse tribù Tuareg, al fine di mantenere il controllo sulle risorse minerarie dell’area. Tuttavia, a partire dal 1958 i capi tribù e comunità, Tamasheq, Tuareg e arabe, hanno scelto di aderire alla causa indipendentista del Mali, preferendo l’opzione dello stato unitario alla dominazione straniera.
Le ribellioni Tuareg prodotte a più riprese (1963-64, 1989-1991, 2003-2009, e oggi) possono in parte essere analizzate in termini di lotta per il riconoscimento e per l’indigenizzazione dello Stato moderno. Se al principio, quasi certamente contestavano soprattutto la messa in discussione delle proprie forme di potere ed organizzazione di tipo tradizionale, progressivamente il problema della distribuzione delle risorse e dell’accesso ai servizi di base è stato associato a quello del riconoscimento identitario. Tuttavia, la ribellione armata è servita anche a produrre una élite politica, attraverso il reinserimento e la promozione nelle cariche istituzionali di capi che si sono così trasformati in “imprenditori politici”, barattando la destabilizzazione politica e armata con concessioni diverse e con il potere.
Bisogna comunque sottolineare la matrice socio-economica di povertà e miseria, su cui si attivano le continue mobilitazioni sociali e che alimenta il reclutamento nelle organizzazioni armate, in un’area che ancor più terribilmente di altre ha sofferto, per le condizioni climatiche e i ricorrenti periodi di siccità, la pochezza ventennale di un intervento pubblico in grado di assicurare finanche i servizi di base (acqua, salute, elettricità, istruzione) e un avvenire a giovani, spesso analfabeti, così costretti a migrare o a nutrire le fila delle milizie.
Ancora una volta ci si ritova così ad assistere ad una mobilitazione quasi corale degli eserciti di forze alleate straniere nella guerra al terrorismo e a supporto della democrazia. C’è da dire quasi perché l’iniziativa è stata presa per prima dalla Francia, che da sola ha interpretato come un nullaosta all’offensiva bellica la risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso 22 dicembre, che autorizzava – dietro sollecitazione dell’Unione Africana (UA) e della Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest (CEDEAO) – un negoziato politico (distinguendo la questione Tuareg dalla costituzione di poli jihadisti) e l’avvio di una “missione internazionale di sostegno al Mali affidata a forze africane” (MISMA), affiancate da quelle occidentali. La sollecitudine francese è da ricondurre all’ansia di una perdita di controllo in un’area che sì ha il proprio marchio coloniale ma che, insieme alle penetrazioni del fondamentalismo islamico, ha progressivamente visto anche quelle americane, ovvero del “fondamentalismo del libero mercato”, per dirla con Harvey. La Francia, come tutta l’Europa, non può rischiare la destabilizzazione del Paese e l’effetto domino in tutta l’area, in ragione delle attività estrattive in essa concentrate e delle immense risorse ancora non sfruttate, che fanno gola a molti.
Tuttavia, la guerra senza fine mossa dall’Occidente contro il terrorismo sta avendo l’effetto paradossale di rafforzare e unire le organizzazioni fondamentaliste, producendo come si legge su Le Monde diplomatique una «autostrada dell’internazionale sovversiva», che va dal Pakistan al Sahel, passando per l’Irak e la Somalia e attraverso la quale circolano combattenti, idee, tecniche di lotta, armi, in una guerra contro le “nuove crociate”. Si rileva infatti che dal 2001 queste nuove guerre hanno avuto luogo in paesi musulmani – Afghanistan, Irak, Somalia, Libano, Mali, e non dimenticando Gaza. Ma individuando solo nella motivazione cultural-religiosa l’elemento di scontro e lotta si occultano quelli che sono i veri interessi in gioco fra le parti – quelli di una economia mineraria ed espropriatrice – e le strategie di mobilitazione sociale attivate, anti-occidentali da un parte e securitarie e islamofobiche dall’altra.
I problemi con cui adesso il Mali deve confrontarsi non sono solo il jihadismo e la guerra, ma anche i rapporti politici e sociali interni e la riorganizzazione democratica.
Abbiamo raccolto a distanza la testimonianza di un giornalista maliano.
Come può essere letto e interpretato il colpo di stato?
«Qui a parte i governanti, il colpo di stato non ha sorpreso nessuno. Perché l’ imputridimento della situazione aveva raggiunto il parossismo, anche se in fondo non lo si desiderava, perché nel ventunesimo secolo un colpo di stato militare non dovrebbe essere considerato l’ultima soluzione. Se ne parlava già a voce bassa quasi dappertuttuto, soprattutto dopo l’attacco di Menaka il 17 gennaio 2012 da pare del MNLA. Poi sono state le mogli dei militari a Kati che si sono mobilitate in seguito alla tragedia di Aghelhoc per denunciare la gestione di questa crisi da parte di ATT, al punto di fomentare i militari di questo campo.
In realtà il colpo di stato è stato un male necessario, ma sono anche certo che non si sarebbe prodotto senza questa crisi del Nord, crisi che del resto è un corollario del modo di gestire il Paese: cupidigia, sperpero del denaro pubblico, condiscendenza, incapacità di analisi della situazione e incoscienza, quando i vicini si attivavano per gestire al meglio le loro frontiere. Tuttavia, poiché ciò procura del denaro, alcuni governanti si erano anche specializzati in “negoziatori-liberatori” di ostaggi, ovvero in trafficanti, attraverso degli elementi che sono oggi alla testa di alcuni gruppi jihadisti. E peggio, l’esercito ufficiale – questi poveri soldati senza braccia lunghe come hanno detto – è stato emarginato, mal equipaggiato e senza motivazioni, nelle diverse guarnigioni: e come in complicità, i governanti hanno anche accolto dei gruppi armati fino ai denti, offrendogli del denaro (50.000.000 de francs CFA), viveri, e lasciandoli con armi che superavano l’arsenale dell’esercito nazionale. Se i nostri militari non volevano lasciarsi uccidere come topi, bisognava che se la prendessero con il capo delle forze armate! Inoltre, il colpo di stato è stato salutare non solo per il paese che viveva una modalità di gestione tra le più ignobili – con persone che si sono arricchite attraverso le casse del paese, che andavano come sempre tranquillamente comprando voti di scambio elettorale per restare al comando – ma anche e soprattutto per l’esercito che era già sconfitto: i jihadisti li sgozzavano tutti, uno per uno, al fronte!».
Secondo te, quale relazione vi è stata tra il cambiamento al potere e le manovre degli islamisti?
«Evidentemente questo cambiamento è stato favorevole ai jihadisti, poichè dopo il copo di stato, invece di affrontare subito gli occupanti, la classe politica, con delle complicità esterne, si è lanciata e persa in una lotta ridicola per il potere di gestione di un paese che quasi non esisteva più poichè diviso in due. Certo il colpo di stato militare è inimmaginabile e inaccettabile in democrazia, ma poiché la democrazia si esercita in un paese, lo si può fare normalmente in un paese che sta già bruciando? Una marcata incoscienza da parte degli uni e degli altri a non comprendere che ciò veniva dopo il lavoro più urgente da sbrigare! I jihadisti hanno così avuto tutto il piacere e il tempo di armarsi e di ingrossare i loro ranghi e, se la Francia non fosse venuta così velocemente in soccorso, sarebbe stata la fine per tutto il paese, compresi i cosiddetti “politici”».
L’opinione pubblica è divisa riguardo all’intervento straniero, occidentale e africano. Il movimento popolare del 22 Marzo (MP22), nato all’indomani del colpo di stato richiamandosi ai valori della rivoluzione del 26 marzo 1991 contro il regime di Moussa Traoré, lo giudica con sospetto. Membro della Coordination des organisations patriotiques (COPAM), MP22 racchiude un insieme di partiti e movimenti politici, associazioni e organizzazioni della società civile e soggetti indipendenti. Ha dichiarato da subito il proprio sostegno al Comité National de Redressement de la Démocratie et de la Restauration de l’Etat, organo guidato da Amadou Sanogo, capo della rivolta, e opera per sostenere e promuovere la riorganizzazione democratica del Paese.
Riportiamo alcune parti di una intervista rilasciata dalla sua portavoce Rokia Sanogo.
Come giudicate l’intervento delle truppe straniere, francesi e africane?
«La nostra posizione è chiara: sì al rafforzamento dell’esercito maliano per la liberazione del Mali. Durante questi 9 mesi tutte le nostre azioni hano contribuito al rafforzamento materiale e al sostegno morale all’esercito maliano. Faccio presente la nostra forte mobilitazione contro l’ingiustificato blocco al rifornimento di armi all’esercito maliano, che è durato circa sei mesi. (…)
Pertanto, oggi diciamo sì a tutti gli aiuti e supporti (logistica, copertura aerea e consigli) di cui l’esercito maliano ha bisogno per rafforzarsi e poter liberare in maniera efficace le regioni del Nord.
Ma non siamo d’accordo con l’intervento delle truppe straniere al posto dell’esercito maliano. Non siamo d’accordo con coloro che ancora oggi, all’interno e all’esterno del Mali, continuano ad affermare che l’esecito maliano non esiste, per giustificare così l’intervento straniero».
Riguardo alle divergenze tra i diversi raggruppamenti e alle orientamenti politici sulla questione, si potrà arrivare ad una unione per far fronte alla minaccia securitaria?
«É il consenso sulla base delle menzogne che ci ha portato tutti questi problemi. Non si può dunque oggi fare una unione per uscire dalla crisi sulla base della stessa mensogna. Noi rifiutiamo l’utilizzo strumentale della minaccia securitaria per evitare ogni concertazione. Non si può realizzare un’unione senza avere gli stessi obiettivi. Non si può fare un’unione senza parlarsi.
(…) Non si può fare un’unione con i nemici del Mali, che hanno venduto il nord del Mali ai rapitori di ostaggi e ai narcotrafficanti e che sono alleati del MNLA.
Noi siamo per la mobilitazione patriottica del poplo maliano al fianco del suo esercito sulla base della verità!»
Pensa che bisognerebbe ancora realizzare una consultazione nazionale in un Mali in piena guerra?
«La realizzazione di una consultazione nazionale poteva evitare al Mali di essere in piena guerra. Anche oggi, una consultazione nazionale è più che mai necessaria per assicurare una buona gestione della guerra in corso, per trovare delle risposte efficaci alla crisi e per dare più mezzi all’esercito maliano. Ci sono state numerose consultazioni sul Mali senza il Mali e senza il popolo maliano. Anche in piena guerra la CEDEAO si consulta sul Mali e perchè noi maliani non possiamo confrontarci?».
Per scongiurare un nuova guerra senza fine è dunque necessario che le forze sociali del Mali si riorganizzino, contrastando le ingerenze e strumentalizzazioni internazionali e rispondendo ai bisogni e problemi socio-economici che sono alla base di questa complessa crisi.
Il Mali è oggi al centro delle cronache internazionali per le crisi e le dinamiche complesse che sta vivendo, e per la nuova “guerra mondiale” che potrebbe preparasi. Dal 2009 i ribelli Touaregs del Mouvement National de Libération de l’Azawad (MNLA) tornano a reclamare l’indipendenza delle tre regioni del Nord (Gao, Tombouctou e Kidal) e di parte della regione di Mopti, e progressivamente ne realizzano l’occupazione; gruppi integralisti religiosi – Ansar Dine, il Mouvement pour l’Unicité et le Jihad en Afrique de l’Ouest (MUJAO), Al-Qaïda au Maghreb Islamique (AQMI) e Boko Haram – si uniscono alla ribellione rivendicando l’applicazione della charia su tutto il territorio nazionale; nel marzo 2011 un colpo di stato militare, nella capitale Bamako, ha deposto il presidente Amadou Toumani Touré (ATT).
Al Nord le violenze e i saccheggi hanno determinato lo sfollamento e la fuga verso il Sud (Segou, Sikasso) e attraverso le frontiere (verso Burkina Faso, Niger, Mauritania) di centinaia di migliaia di persone, e in tutto il Paese regna lo scompiglio più totale, in virtù di una crisi politica e istituzionale che sembra non trovare soluzione al proprio interno e di una crisi militare che ha cercato soluzione già all’esterno, invocando l’intervento dell’ex madrepatria, la Francia.
Se alcune cronache, generalizzando in modo azzardato e miope, vedono la possibilità di una “somalizzazione” del Mali, ovvero di una guerra a bassa intensità permanente tra tribù e gruppi etnici diversi per il controllo del potere e delle risorse, altre invece parlano del rischio di una “afghanizzazione” del Paese, ossia di una internazionalizzazione della crisi, con un progressivo contagio ad altri paesi limitrofi e di una destabilizzazione continua.
Calchi Novati (su il Manifesto) scrive che «non è il caso di gridare all’usurpazione perché il Mali è di fatto uno stato fallito», considerando che il 60% dello spazio territoriale è occupato da ribelli e organizzazioni fondamentaliste e nella capitale governativa vige una precaria convivenza tra una giunta militare e un governo civile provvisorio insediato dall’esercito stesso.
Al-Qaida ha rappresentato molto di più che un pretesto per rafforzare l’ingerenza straniera nelle questioni di casa e nell’intera area. Tuttavia, il presidio militare messo in atto da Stati Uniti e alleati in un ambiente che è soprattutto uno “spazio di movimento”, riproduce e alimenta in maniera aggressiva gli stessi fenomeni che vorrebbe scongiurare, e rischia di compattare ribellismi e organizzazioni diverse.
L’area Sahelo-sahariana è il regno dei tuareg e più in generale delle popolazioni berbere, tradizionalmente nomadi ma sempre più costrette alla sedentarizzazione, in primis dalle frontiere statuali. Si tratta di un’area caratterizzata dal nomadismo, lungo antiche linee carovaniere, e da traffici, leciti e illeciti: prodotti, bestiame, sigarette, armi, droga, esseri umani (migranti e sotaggi). Il fondamentalismo islamico vi è presente da più tempo ma solo di recente ha assunto una valenza anti-occidentale. Il pretesto del terrorismo ha fatto sì che il Mali divenisse sede di Africom, il comando militare unificato per l’Africa costituito nel 2007 da Bush e consolidato da Obama. Gli Stati Uniti da anni formano e armano l’esercito locale, al fine di sostenerlo nella battaglia al terrorismo appunto, quello stesso esercito che ha messo a segno il putsch militare e da cui si sono sfilate componenti che si sono poi unite alle organizzazioni ribelli.
Per comprendere dunque la crisi aperta in Mali e nell’intera area Sahelo-sahariana, è importante conoscere la storia coloniale e postcoloniale nella quale si sono prodotte e riprodotte periodicamente le ribellioni delle popolazioni del Nord, nonché aver chiaro il quadro geopolitico ridisegnato nel post 11 settembre 2001 e dominato da imprese transtatali, con la loro capacità di penetrazione delle strutture statali e interstatali.
Mai in passato le popolazioni berbere (Tamasheq o Touaregs) hanno cercato di costituire un potere politico unitario. Le differenti tribù hanno perseguito la riproduzione della vita comunitaria e la sopravvivenza garantendosi soprattutto l’accesso alle risorse economiche. L’indipendenza oggi rivendicata dai ribelli del Nord è un progetto vecchio sessant’anni. La loro rivendicazione ricorda infatti il progetto Organisation commune des régions sahariennes (OCRS), con il quale la Francia, negli anni ’50, sul finire della dominazione coloniale, aveva tentato di recuperare le regioni sahariane di diversi Stati (Niger, Mali, Algérie, Soudan) e di mettere insieme le diverse tribù Tuareg, al fine di mantenere il controllo sulle risorse minerarie dell’area. Tuttavia, a partire dal 1958 i capi tribù e comunità, Tamasheq, Tuareg e arabe, hanno scelto di aderire alla causa indipendentista del Mali, preferendo l’opzione dello stato unitario alla dominazione straniera.
Le ribellioni Tuareg prodotte a più riprese (1963-64, 1989-1991, 2003-2009, e oggi) possono in parte essere analizzate in termini di lotta per il riconoscimento e per l’indigenizzazione dello Stato moderno. Se al principio, quasi certamente contestavano soprattutto la messa in discussione delle proprie forme di potere ed organizzazione di tipo tradizionale, progressivamente il problema della distribuzione delle risorse e dell’accesso ai servizi di base è stato associato a quello del riconoscimento identitario. Tuttavia, la ribellione armata è servita anche a produrre una élite politica, attraverso il reinserimento e la promozione nelle cariche istituzionali di capi che si sono così trasformati in “imprenditori politici”, barattando la destabilizzazione politica e armata con concessioni diverse e con il potere.
Bisogna comunque sottolineare la matrice socio-economica di povertà e miseria, su cui si attivano le continue mobilitazioni sociali e che alimenta il reclutamento nelle organizzazioni armate, in un’area che ancor più terribilmente di altre ha sofferto, per le condizioni climatiche e i ricorrenti periodi di siccità, la pochezza ventennale di un intervento pubblico in grado di assicurare finanche i servizi di base (acqua, salute, elettricità, istruzione) e un avvenire a giovani, spesso analfabeti, così costretti a migrare o a nutrire le fila delle milizie.
Ancora una volta ci si ritova così ad assistere ad una mobilitazione quasi corale degli eserciti di forze alleate straniere nella guerra al terrorismo e a supporto della democrazia. C’è da dire quasi perché l’iniziativa è stata presa per prima dalla Francia, che da sola ha interpretato come un nullaosta all’offensiva bellica la risoluzione 2085 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU dello scorso 22 dicembre, che autorizzava – dietro sollecitazione dell’Unione Africana (UA) e della Communauté économique des Etats d’Afrique de l’Ouest (CEDEAO) – un negoziato politico (distinguendo la questione Tuareg dalla costituzione di poli jihadisti) e l’avvio di una “missione internazionale di sostegno al Mali affidata a forze africane” (MISMA), affiancate da quelle occidentali. La sollecitudine francese è da ricondurre all’ansia di una perdita di controllo in un’area che sì ha il proprio marchio coloniale ma che, insieme alle penetrazioni del fondamentalismo islamico, ha progressivamente visto anche quelle americane, ovvero del “fondamentalismo del libero mercato”, per dirla con Harvey. La Francia, come tutta l’Europa, non può rischiare la destabilizzazione del Paese e l’effetto domino in tutta l’area, in ragione delle attività estrattive in essa concentrate e delle immense risorse ancora non sfruttate, che fanno gola a molti.
Tuttavia, la guerra senza fine mossa dall’Occidente contro il terrorismo sta avendo l’effetto paradossale di rafforzare e unire le organizzazioni fondamentaliste, producendo come si legge su Le Monde diplomatique una «autostrada dell’internazionale sovversiva», che va dal Pakistan al Sahel, passando per l’Irak e la Somalia e attraverso la quale circolano combattenti, idee, tecniche di lotta, armi, in una guerra contro le “nuove crociate”. Si rileva infatti che dal 2001 queste nuove guerre hanno avuto luogo in paesi musulmani – Afghanistan, Irak, Somalia, Libano, Mali, e non dimenticando Gaza. Ma individuando solo nella motivazione cultural-religiosa l’elemento di scontro e lotta si occultano quelli che sono i veri interessi in gioco fra le parti – quelli di una economia mineraria ed espropriatrice – e le strategie di mobilitazione sociale attivate, anti-occidentali da un parte e securitarie e islamofobiche dall’altra.
I problemi con cui adesso il Mali deve confrontarsi non sono solo il jihadismo e la guerra, ma anche i rapporti politici e sociali interni e la riorganizzazione democratica.
Abbiamo raccolto a distanza la testimonianza di un giornalista maliano.
Come può essere letto e interpretato il colpo di stato?
«Qui a parte i governanti, il colpo di stato non ha sorpreso nessuno. Perché l’ imputridimento della situazione aveva raggiunto il parossismo, anche se in fondo non lo si desiderava, perché nel ventunesimo secolo un colpo di stato militare non dovrebbe essere considerato l’ultima soluzione. Se ne parlava già a voce bassa quasi dappertuttuto, soprattutto dopo l’attacco di Menaka il 17 gennaio 2012 da pare del MNLA. Poi sono state le mogli dei militari a Kati che si sono mobilitate in seguito alla tragedia di Aghelhoc per denunciare la gestione di questa crisi da parte di ATT, al punto di fomentare i militari di questo campo.
In realtà il colpo di stato è stato un male necessario, ma sono anche certo che non si sarebbe prodotto senza questa crisi del Nord, crisi che del resto è un corollario del modo di gestire il Paese: cupidigia, sperpero del denaro pubblico, condiscendenza, incapacità di analisi della situazione e incoscienza, quando i vicini si attivavano per gestire al meglio le loro frontiere. Tuttavia, poiché ciò procura del denaro, alcuni governanti si erano anche specializzati in “negoziatori-liberatori” di ostaggi, ovvero in trafficanti, attraverso degli elementi che sono oggi alla testa di alcuni gruppi jihadisti. E peggio, l’esercito ufficiale – questi poveri soldati senza braccia lunghe come hanno detto – è stato emarginato, mal equipaggiato e senza motivazioni, nelle diverse guarnigioni: e come in complicità, i governanti hanno anche accolto dei gruppi armati fino ai denti, offrendogli del denaro (50.000.000 de francs CFA), viveri, e lasciandoli con armi che superavano l’arsenale dell’esercito nazionale. Se i nostri militari non volevano lasciarsi uccidere come topi, bisognava che se la prendessero con il capo delle forze armate! Inoltre, il colpo di stato è stato salutare non solo per il paese che viveva una modalità di gestione tra le più ignobili – con persone che si sono arricchite attraverso le casse del paese, che andavano come sempre tranquillamente comprando voti di scambio elettorale per restare al comando – ma anche e soprattutto per l’esercito che era già sconfitto: i jihadisti li sgozzavano tutti, uno per uno, al fronte!».
Secondo te, quale relazione vi è stata tra il cambiamento al potere e le manovre degli islamisti?
«Evidentemente questo cambiamento è stato favorevole ai jihadisti, poichè dopo il copo di stato, invece di affrontare subito gli occupanti, la classe politica, con delle complicità esterne, si è lanciata e persa in una lotta ridicola per il potere di gestione di un paese che quasi non esisteva più poichè diviso in due. Certo il colpo di stato militare è inimmaginabile e inaccettabile in democrazia, ma poiché la democrazia si esercita in un paese, lo si può fare normalmente in un paese che sta già bruciando? Una marcata incoscienza da parte degli uni e degli altri a non comprendere che ciò veniva dopo il lavoro più urgente da sbrigare! I jihadisti hanno così avuto tutto il piacere e il tempo di armarsi e di ingrossare i loro ranghi e, se la Francia non fosse venuta così velocemente in soccorso, sarebbe stata la fine per tutto il paese, compresi i cosiddetti “politici”».
L’opinione pubblica è divisa riguardo all’intervento straniero, occidentale e africano. Il movimento popolare del 22 Marzo (MP22), nato all’indomani del colpo di stato richiamandosi ai valori della rivoluzione del 26 marzo 1991 contro il regime di Moussa Traoré, lo giudica con sospetto. Membro della Coordination des organisations patriotiques (COPAM), MP22 racchiude un insieme di partiti e movimenti politici, associazioni e organizzazioni della società civile e soggetti indipendenti. Ha dichiarato da subito il proprio sostegno al Comité National de Redressement de la Démocratie et de la Restauration de l’Etat, organo guidato da Amadou Sanogo, capo della rivolta, e opera per sostenere e promuovere la riorganizzazione democratica del Paese.
Riportiamo alcune parti di una intervista rilasciata dalla sua portavoce Rokia Sanogo.
Come giudicate l’intervento delle truppe straniere, francesi e africane?
«La nostra posizione è chiara: sì al rafforzamento dell’esercito maliano per la liberazione del Mali. Durante questi 9 mesi tutte le nostre azioni hano contribuito al rafforzamento materiale e al sostegno morale all’esercito maliano. Faccio presente la nostra forte mobilitazione contro l’ingiustificato blocco al rifornimento di armi all’esercito maliano, che è durato circa sei mesi. (…)
Pertanto, oggi diciamo sì a tutti gli aiuti e supporti (logistica, copertura aerea e consigli) di cui l’esercito maliano ha bisogno per rafforzarsi e poter liberare in maniera efficace le regioni del Nord.
Ma non siamo d’accordo con l’intervento delle truppe straniere al posto dell’esercito maliano. Non siamo d’accordo con coloro che ancora oggi, all’interno e all’esterno del Mali, continuano ad affermare che l’esecito maliano non esiste, per giustificare così l’intervento straniero».
Riguardo alle divergenze tra i diversi raggruppamenti e alle orientamenti politici sulla questione, si potrà arrivare ad una unione per far fronte alla minaccia securitaria?
«É il consenso sulla base delle menzogne che ci ha portato tutti questi problemi. Non si può dunque oggi fare una unione per uscire dalla crisi sulla base della stessa mensogna. Noi rifiutiamo l’utilizzo strumentale della minaccia securitaria per evitare ogni concertazione. Non si può realizzare un’unione senza avere gli stessi obiettivi. Non si può fare un’unione senza parlarsi.
(…) Non si può fare un’unione con i nemici del Mali, che hanno venduto il nord del Mali ai rapitori di ostaggi e ai narcotrafficanti e che sono alleati del MNLA.
Noi siamo per la mobilitazione patriottica del poplo maliano al fianco del suo esercito sulla base della verità!»
Pensa che bisognerebbe ancora realizzare una consultazione nazionale in un Mali in piena guerra?
«La realizzazione di una consultazione nazionale poteva evitare al Mali di essere in piena guerra. Anche oggi, una consultazione nazionale è più che mai necessaria per assicurare una buona gestione della guerra in corso, per trovare delle risposte efficaci alla crisi e per dare più mezzi all’esercito maliano. Ci sono state numerose consultazioni sul Mali senza il Mali e senza il popolo maliano. Anche in piena guerra la CEDEAO si consulta sul Mali e perchè noi maliani non possiamo confrontarci?».
Per scongiurare un nuova guerra senza fine è dunque necessario che le forze sociali del Mali si riorganizzino, contrastando le ingerenze e strumentalizzazioni internazionali e rispondendo ai bisogni e problemi socio-economici che sono alla base di questa complessa crisi.
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Masochismo mediatico
di Tonino D'Orazio
Come riuscire ad
ascoltare un telegiornale fino in fondo.
Sembrano tutti uguali
bollettini di guerra, eppure le notizie vengono declamate quasi con
enfasi stupita, come se si trattasse di record sportivi.
Effettivamente sono record del disastro sociale della nostra
collettività nazionale.
Sono pronti tutti i
freddi dati Istat, scientificità a parte sui metodi approssimativi
di valutazione o di opportunità politica di divulgazione, a volte a
tempo.
In Italia 8,2 milioni
sono poveri (quelli “relativi”), il 14% dei residenti. 3,4
milioni (5,2%) sono poveri “assoluti”. E’ un bene suddividerli
in categorie di povertà, sembrano di meno, e si confondono i
concetti. Poi c’è il pollo di Trilussa. Il reddito “medio” in
Italia è di 2.482€ mensili. 60% dei lavoratori non lo raggiunge,
grasso che cola se superano le 1.000€/mensili, e addirittura se
vengono pagati regolarmente. Un salto indietro di 27 anni (pari al
1986!) quello compiuto dal reddito disponibile degli italiani.
Flessione dei consumi: -4,4% sul 2011. Vedremo il 2012. Una famiglia
su tre, con le entrate, non arriva alla terza settimana del mese.
Avete presente anche quei 4/5 milioni di precari a 7/800€/mensili?
Quei 6 milioni di pensionati con meno di 500€/mensile? Quel 20% dei
bambini del Sud Italia che “patiscono” anche la fame? I lauti
guadagni dei cassa-integrati?
La disoccupazione
giovanile è al 37/40 %. Tra i 15 e 24 anni è al 29,1%, in aumento
per il quarto anno consecutivo, non c’è dubbio che aumenterà
sempre di più con la voluta recessione in atto, e superiore al dato
medio dell'Unione europea (21,4%). Il tasso di inattività ammonta al
37% della popolazione, uno dei valori più alti in Europa (battuti
solo da Malta). In un anno sono morte 100mila imprese (Saldo 2012 tra
natalità e mortalità).
Particolarmente elevata è
l'inattività femminile (48,5%), ma guarda. Sono considerati inattivi
coloro che né sono occupati né sono in cerca di un lavoro. La
disoccupazione di lunga durata invece, oltre 12 mesi, ha riguardato,
nel 2011, il 51,3% dei disoccupati nazionali, il livello più alto
raggiunto nell'ultimo decennio, (evviva i record) e non parliamo del
2012, anno notoriamente in ripresa.
Una volta a settimana
varie agenzie ci dicono quanto una famiglia spenderà di più
all’anno. Una specie di terrorismo psicologico aderente alla realtà
prossima e al “lasciate ogni speranza”. Ho contato, e gennaio non
è ancora passato, una volta ci hanno pronosticato 1.200 €, la
settimana dopo altri 750€, qualche giorno fa hanno aggiunto di
nuovo 380€. Non spenderemo per divertimento, quello scordatevelo,
ma per beni necessari in mano a monopoli privati: riscaldamento e
energia, carburanti (che non diminuiscono mai, anche quando il
petrolio diminuisce vistosamente di costo al barile), assicurazioni,
balzelli bancari, tasse comunali (municipalizzate di acqua, nettezza
urbana...). Se non volete pagare l’Iva al 21% (già prevista al 22%
a giugno malgrado le menzogne pre-elettorali) provate a non comperare
più niente. Per l’Imu la Commissione europea ci ha rassicurati
perché questa tassa “non ha inciso sulla povertà”, era la
vecchia Ici ad averlo fatto. Masochismo? l’UE, che non c’entra
niente con i diktat della Bce e del FMI, aggiunge che ormai “l’Italia
è nella trappola della povertà e con poche probabilità di
uscirne”. Finalmente un altro record.
Superate queste veloci
informazioni possiamo tornare al nostro ottimismo preferito, il
gossip (storie di scintillante benessere e di ricchi
scambisti) e il calcio, in mezzo a una arena politica urlata e
parolaia e una pubblicità assillante di acquisto macchine che non si
vendono più.
venerdì 25 gennaio 2013
La Lettonia e i discepoli della “svalutazione interna”
[nota
del traduttore – Quest'articolo è interessante, pur essendo del
2011, perché la Lettonia ha molto da insegnarci. Come si riferisce
nella nota 2, non ha importanza chi vinca le elezioni, l'austerità
deve proseguire finché i debitori non avranno recuperato i
loro soldi. Ed è anche un monito: l'organizzazione terroristica dei
sostenitori (teorici e politici, propagandisti e lobbisti,
marchettari e portatori d'acqua) dell'austerity non ha il minimo
scrupolo di portare intere nazioni addirittura alla loro
dissoluzione. Prendete nota per le vicine elezioni]
Anders
Åslund, insieme ad altri cantori dell'austerità, esalta la Lettonia
come testimonial a favore dei grandi tagli. Niente di più lontano
dalla verità
I
dati dello scorso mese rivelano che la crisi economica globale
continua a peggiorare, e per durata e intensità rischia di diventare
nota come la Seconda Grande Depressione. Eppure, sebbene sia evidente
che la maggior parte delle nostre difficoltà sia derivata da una
finanza impazzita, molti opinionisti dichiarano che la colpa è delle
vittime, cioè il pubblico. Invece di mettere un freno alla finanza,
consigliano ai governi di imporre radicali misure di austerità, il
che, in questo contesto economico, equivale a gettare un'ancora alle
vittime che annegano, e invece un salvagente zeppo di soldi ai
colpevoli del naufragio.
Secondo
Robert Samuelson (sul Washington
Post) la soluzione dichiarata alla crisi mondiale, una
soluzione sconcertante (finché non ci si chiede “cui bono?”), va
trovata in una delle più piccole (e povere) nazioni dell'Unione
Europea, la Lettonia;
un paese che ha imposto alla sua popolazione uno dei regimi di
austerità più brutali del mondo, le cui politiche hanno spinto la
nazione quasi al collasso demografico. La Lettonia ha una popolazione
con un alto livello d'istruzione, e ha punti in comune con i paesi
scandinavi, tra i più ricchi del mondo. Ha anche la fortuna di
possedere porti intensamente trafficati. Ma ha anche una parità di
potere d'acquisto [1] pro-capite che è metà di quello della Grecia
e solo marginalmente superiore a quella della Bielorussia,
politicamente isolata e priva di sbocchi sul mare.
E
tuttavia questo è il modello che i banchieri e i loro compari nei
governi e negli ambienti che contano vogliono che gli altri paesi
imitino. I commentatori che promuovono la soluzione lettone,
comunque, non capiscono (o scelgono di non capire) né quel paese né
le conseguenze delle sue politiche d'austerità. Non solo insistono
nel dire che l'austerità lettone era necessaria, ma che si è
trattato del primo paese in cui la popolazione ha approvato quel tipo
di misure. La storia, dunque, sarebbe che gli elettori possono
mostrarsi “maturi” e “ragionevoli”, e che perciò i politici
non devono temere di imporre l'austerità a una collettività
adeguatamente “educata”. Queste affermazioni sono sia false sia
pericolose, eppure ottengono sempre più credito.
La
realtà è che la Lettonia, dopo aver sperimentato la peggiore
contrazione economica nel contesto della crisi del 2008, ora ha
prodotto il piccolo balzo che fa un gatto morto quando finalmente si
schianta sul selciato. Il modesto rialzo del tasso di crescita è
principalmente una conseguenza della domanda svedese per il legname
lettone. Le prospettive economiche a lungo termine rimangono
ugualmente piuttosto grame.
Inoltre,
la riscrittura della storia recente della Lettonia fatta da Samuelson
e altri opinionisti, che sostengono che la popolazione abbia
approvato l'austerità, è contraddetta dalle proteste di massa
scatenatesi sin dall'inizio della crisi. Quando le proteste si sono
dimostrate inette al cambiamento, il popolo ha reagito votando con i
piedi e ha lasciato il paese. In effetti, se combinata col basso
tasso di natalità, l'emigrazione lettone sta innescando una sorta di
eutanasia demografica che mette a rischio la stessa esistenza della
nazione. In aggiunta, il partito politico che ha gestito il programma
di austerità risulta terzo, e con un bel distacco, nei sondaggi per
le elezioni nazionali del 17
settembre [2011] [2]. Data questa rovinosa serie di fallimenti
del regime di austerità lettone, viene da chiedersi da dove venga
questa percezione di successo economico e sostegno popolare.
Ogni
crisi attira gli opportunisti e ogni fallimento aumenta il desiderio
di un “secondo atto” alla Scott Fitzgerald [3]. Con la crisi
economica della Lettonia, entrambi i profili si sono fusi nel
consulente economico viaggiante (a spese del sistema bancario) Anders
Åslund. Nella corsa verso la Seconda Grande Depressione, la
Lettonia ha conosciuto la peggiore delle orgie debitorie e quindi il
più terribile dei crolli. La crisi del 2008 ha colpito con più
durezza proprio i paesi che seguivano il tipo di economia politica
neo-liberista di Åslund, che negli anni 90 l'aveva spacciato nel
blocco dell'ex Unione Sovietica. In Lettonia la crisi del 2008, in
ogni caso, fornì ad Åslund l'opportunità di rigenerare la sua
reputazione di analista politico e consulente, scovando allo stesso
tempo, in banche e governi, i “dottori” desiderosi di
amministrare la sua tossica medicina d'austerità contro la crisi
economica.
Åslund
dipinge
l'austerità come una narrazione vincente – tanto vincente da
fornire un modello che sia l'Europa
sia gli Stati Uniti dovrebbero imitare. Inoltre la sua narrazione ha
introdotto nel lessico economico l'espressione “svalutazione
interna”. Questa politica viene presentata agli altri membri
dell'Eurozona come
un metodo per tenere a galla l'euro, e ai candidati membri un mezzo
per evitare il deprezzamento delle loro valute, nella prospettiva di
una futura inclusione nell'Eurozona. I suoi sostenitori consigliano
di abbattere i salari e i sussidi, facendo così diminuire la spesa
pubblica. Questo è un programma che stabilizza la spesa generale per
il debito pubblico e privato, evitando ai banchieri l'inconveniente
di un “taglio di capelli” – altro neologismo creato dalla lobby
bancaria.
In
sintesi, le banche vengono pagate, ed è il pubblico a pagare il
conto. Per la finanza questa sembrerebbe una soluzione netta e
precisa del problema – far pagare al pubblico l'enorme debito che
grava sull'economia, riducendo i suoi consumi. Sfortunatamente,
mentre tutto questo è utile al settore bancario, uccide l'economia
reale attraverso la riduzione della domanda, facendo tornare così la
Lettonia a una sorta di servitù da debito – una condizione alla
quale i lettoni credevano di essere sfuggiti all'inizio del XIX
Secolo. È notevole il fatto che Åslund stia facendo il suo giro
d'onore vantandosi dell'ideazione di questo piano deleterio. Il suo
“successo” si è materializzato in un libro, Come la Lettonia
Ha Superato la Crisi Politica [How Latvia Came Through the
Political Crisis] (pdf)
pubblicato dal Petersen Institute (finanziato dalle banche), che ha
come co-autore il primo ministro lettone, quello dell'austerity,
Valdis Dombrovskis. Åslund afferma che per le travagliate economie
europee il lungo inverno della crisi economica, protagonisti i Pigs
(Grecia e altri), si sta avviando alla fine. Le Campane [Bells] [4],
secondo Åslund e Dombrovskis, hanno annunciato una nuova stagione di
speranza, mostrando la via d'uscita dalla crisi alle economie
europee in difficoltà.
In
questo modo il libro è diventato una specie di galateo per gli
economisti neoliberisti che cercano di dimostrare che l'austerità
funziona. Secondo Åslund e Samuelson, e altri adepti del
neoliberismo, tutti i paesi dovrebbero imitare il modo in cui
Lettonia e Irlanda hanno pagato il debito alle banche, a costo di
vedere le loro economie ristagnare e il tessuto sociale disgregarsi.
Nel
frattempo altri, come gli elettori islandesi, hanno rifiutato il
neoliberismo e ritengono che l'attrattiva dell'Eurozona abbia perso
il suo smalto, mentre i greci fanno scioperi generali per spingere
all'uscita dall'euro, se questo è il prezzo da pagare per evitare la
servitù del debito, l'austerità e le privatizzazioni-svendita fatte
per pagare le banche straniere che hanno fatto quelli che appaiono
come prestiti irresponsabili.
Perciò
domandiamoci in cosa consiste il “successo” della Lettonia. Per
prima cosa, le banche vengono pagate. Non c'è stata nessuna
svalutazione del debito. Questa potrebbe essere una risposta alla
domanda di prima, il cui bono. I lettoni stanno ripagando il
loro debito privato (per gran parte alla Svezia, la patria di Åslund,
un contributo al fatto che la Svezia non abbia subito alcuna crisi
economica). Il costo, tuttavia, consiste in una riduzione del 25% del
PIL lettone, e una riduzione dei salari nel pubblico impiego del 30%,
insieme a una contrazione dei salari nel settore privato dovuta al
taglio della spesa pubblica. E nel contempo i lettoni dovranno farsi
carico dei costi di questo programma, dovendo affrontare i futuri
pagamenti del prestito di più di 4,4 miliardi di euro ottenuti dalla
UE e dal FMI, necessario a mantenere in vita il governo nel corso
della crisi.
I
sostenitori della soluzione lettone, in ogni caso, affermano che la
contrazione dell'economia è terminata, e che si è tornati alla
crescita, seppure modesta, e che il tasso di disoccupazione
finalmente è sceso sotto il 15%. Ma l'emigrazione è stata un
elemento che ha contribuito alla riduzione del tasso di
disoccupazione [5], mentre i finanziamenti per il settore
manifatturiero e al risparmio sono troppo esigui per promuovere una
nuova, robusta crescita. A differenza, per dire, dell'Argentina, che
ha rigettato l'austerità e ha visto la sua economia crescere del 6%
annuo per 6 dei 7 anni successivi alla crisi, la Lettonia non mostra
alcun segno di poter raggiungere cifre simili.
In
secondo luogo c'è l'affermazione di Åslund, che i lettoni hanno
sostenuto il programma di austerità – come dimostrato dal ritorno
al potere del partito dell'austerità, Vienotiba, nelle elezioni
dell'ottobre 2010. Dal punto di vista di chiunque abbia familiarità
con la politica lettone non è successo nulla del genere. Le elezioni
lettoni del 2010 si sono ridotte a una questione di sciovinismo e
nazionalismo puri e semplici. Quella stagione elettorale aveva avuto
un inizio promettente: il partito più o meno di centro-sinistra
Centro dell'Armonia proponeva un piano per la ricostruzione
dell'economia e di riavvicinamento tra le etnie lettone e russa. Alla
fine, tuttavia, la manipolazione da parte del partito dell'austerità
della paura di collegamenti con il Cremlino [del “filorusso”
Centro dell'Armonia – ndt] ha portato a un elettorato
prevedibilmente spaccato lungo linee etniche. A partire dall'anno
scorso, tuttavia, il parlamento lettone, ampiamente pro-austerità,
ha visto il suo tasso di approvazione da parte del pubblico oscillare
tra il 5 e il 15%, difficile da considerare come un'approvazione
entusiastica.
In
sintesi, il popolo lettone e le sue prospettive a lungo termine sono
stati gravemente danneggiati da queste politiche di austerità. Di
conseguenza, l'affermazione che la cittadinanza lettone abbia
sostenuto queste politiche è una fesseria.
Allora,
la Lettonia è davvero in via di guarigione? Ce lo potrà dire solo
il tempo, ma i primi segnali sono pessimi. Demograficamente, la
stessa sopravvivenza del paese sembra a rischio. Economicamente, a
parere dei sostenitori della svalutazione interna, il paese dovrà
risollevarsi ricorrendo alle esportazioni. Eppure, come mostrato
dall'economista Edward
Hugh, solo il 10% dell'economia lettone appartiene al settore
manifatturiero, una enorme differenza dal circa 40% di un'economia
industrializzata come quella tedesca. Lo stesso sottosviluppo
strutturale che le politiche di Åslund hanno sostenuto (nessuna
politica industriale, flat tax [6], affidamento agli investimenti
diretti dall'estero) hanno lasciato la Lettonia priva della base
economica su cui sorreggere una ripresa.
La
buona notizia è che i lettoni hanno cominciato nuovamente a
protestare contro il dominio degli oligarchi, e cercano alternative
all'austerità. Se solo avessero una seria politica economica che
riflettesse la volontà dei cittadini, forse potrebbero realizzare
quelle aspirazioni per cui lottarono tanto coraggiosamente negli
ultimi anni 80, sotto l'occupazione sovietica.
note
del traduttore
[1]
“Le parità di
potere d'acquisto
(PPA;
in inglese Purchasing
Power Parity, PPP)
sono prezzi relativi che esprimono il rapporto tra i prezzi nelle
valute nazionali
degli stessi beni o servizi in paesi diversi.” [Wikipedia]
[2]
I sondaggi erano attendibili: “Il 17 settembre 2011 si sono svolte
le elezioni anticipate del Parlamento unicamerale lettone (Saeima).
Le elezioni hanno visto l’affermazione come partito di maggioranza
relativa, per la prima volta nella storia della Lettonia
indipendente, del partito di sinistra e russofono Centro
dell’Armonia, guidato dal Nils Usakovs, che ha ottenuto il 28,37
per cento dei voti e 31 seggi. Si sono altresì affermati il nuovo
Partito della Riforma fondato dall’ex-presidente della Repubblica
Valdis Zatlers, con il 20,82 per cento dei voti e 22 seggi e Unità,
partito del primo ministro uscente Valdis Dombrovskis, con il 18,83
dei voti e 20 seggi. Una buona affermazione è stata ottenuta anche
da Alleanza Nazionale - Tutti per la Lettonia, movimento di destra
nato dalla fusione tra l’Unione per la Patria e la Libertà e il
partito di estrema destra Tutti per la Lettonia, con il 13,88 per
cento dei voti e 14 seggi. Non è pertanto scontata la partecipazione
del “Centro dell’Armonia” al nuovo governo, poiché vi
potrebbero essere i numeri anche per una coalizione di governo di
centro-destra. L’affluenza alle urne è stata del 60,55 per cento,
con un calo dell’1,45 per cento rispetto alle precedenti elezioni
del 2010.” [dossier
della Camera dei Deputati] Come volevasi dimostrare, il partito di
maggioranza relativa è finito all'opposizione, mentre tutti gli
altri si sono uniti per garantire una maggioranza di 56 seggi su 100
al governo di Valdis Dombrovskis, il presidente uscente, quello che
ha “salvato” il paese dalla crisi con l'austerità. [il
Post]
[3] Il riferimento è a una
frase famosa dello scrittore Francis Scott Fitzgerald: “Nella vita
degli americani non esiste un secondo atto” [“There are no second
acts in American lives”], che sarebbe
presente nelle sue note al romanzo The
Last Tycoon.
[4]
Bells: i paesi (Bulgaria, Estonia, Lettonia e Lituania) dell'ex area
sovietica che hanno agganciato il loro tasso di scambio all'euro
“caschi
il mondo”.
[5]
“I demografi stimano che negli ultimi dieci anni siano emigrate
200.000 persone – all'incirca il 10% della popolazione – a un
ritmo accelerato corrispondente al vigore dell'austerità imposta.
(…) In aggiunta, il tasso di natalità, già basso in origine, è
calato ulteriormente. Se si fa un paragone con gli Stati Uniti, è
come se se ne fossero andati in 30 milioni.” [Latvia’s
Fake Economic Model –
Counterpunch]
[6]
La flat tax piace molto a liberisti,
libertarian,
italo-reaganiani e
austriaci
vari. “Una
volta tolti di mezzo il fumo e i giochi di specchi, ci si rende conto
che quello che la flat tax realizza DAVVERO è l'eliminazione del
concetto di progressività. Quello che intende DAVVERO è che il
ricco pagherà le tasse con la stessa aliquota di chiunque altro.
Ora, tutto questo sarà d'aiuto per chiunque altro o sarà d'aiuto
per il ricco? Il vero obbiettivo è di distruggere il sistema attuale
e introdurre l'idea
della flat tax, che in ultima istanza deve comportare tasse più alte
per chiunque tranne
che per i benestanti.” [The
Jefferson Perspective]
mercoledì 23 gennaio 2013
Sta arrivando l’inferno, ma i candidati non lo vedono
da libreidee
Sull’Italia sta per scatenarsi l’inferno, ma nessuno lo dice chiaro e tondo: sia i politici che i grandi media non hanno ancora spiegato cosa significano, in concreto, il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Tagli sanguinosi: 40 miliardi di euro all’anno, per vent’anni. Traduce Luciano Gallino: vuol dire ridurre in miseria due o tre generazioni di italiani, e retrocedere la nostra economia in sedie D. E tutto questo, aggiunge Giorgio Cremaschi, sulla base di miseri calcoli tragicamente errati: la Merkel, Draghi e Monti hanno inaugurato le micidiali politiche di rigore credendo che un punto di taglio del deficit pubblico avrebbe ridotto la crescita di mezzo punto. Tutto sbagliato: un punto di tagli produce un mezzo di danno economico, cioè tre volte le previsioni. A dirlo non è Cremaschi, ma il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, come riporta il “Sole 24 Ore”.
Tecnocrati incapaci, oltre che spietati: «Hanno sbagliato i conti – dice Cremaschi – e la politica di austerità che hanno consapevolmente deciso ha prodotto disoccupazione e povertà tre volte di più di quanto avevano pensato di farci pagare». Ecco spiegata la dismisura della spirale recessiva, sempre più pesante e senza soluzioni, che sta dilagando in Europa. «In concreto – scrive Cremaschi su “Micromega” – questo vuol dire che il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale, votato anche da Lega e Idv», comporta un’austerity «non più economicamente e socialmente sostenibile», perché il patto fiscale europeo ci obbliga a dimezzare il debito pubblico in appena vent’anni. E’ l’orrore sociale del Fiscal Compact, di cui i media prefriscono parlare il meno possibile, «con buona pace della politica di unità nazionale che ha deliberato queste scelte e dello stesso Presidente della Repubblica che le ha auspicate e benedette».
Scelte sciagurate, che secondo Cremaschi «vanno concretamente e rapidamente messe in discussione, cioè revocate», perché per rimediare a danni epocali «sarà necessaria una politica economica di segno opposto a quella sinora attuata». Una nuova politica democratica, «che come prima misura decida di rompere il tabù liberista che domina il nostro continente». E’ il tabù del debito e del pareggio di bilancio, spauracchio «che invece viene messo in discussione nel resto del mondo, dagli Stati Uniti al Giappone alla Cina all’America latina», dove peraltro le economie si basano su moneta sovrana, senza cioè il ricatto di una valuta “straniera” come l’euro. Parliamoci chiaro, insiste Cremaschi: «Per affrontare la crisi e il suo primo effetto, la disoccupazione di massa, bisogna spendere soldi pubblici», come fa Obama, «senza timore di avere un bilancio in deficit». E dunque: «In Italia e in Europa deve saltare tutto il sistema di patti, accordi e regole che promuovono e disciplinano l’austerità».
In Italia invece il confronto elettorale parla d’altro, aggiunge Cremaschi, anche se la campagna elettorale si fonda sulle promesse più varie. «Monti evidentemente non può certo smentire sé stesso, Berlusconi è sicuramente capace di farlo ma proprio per questo non ha alcuna credibilità». E Bersani? «Nel proprio programma elettorale ha scritto che si impegna a rispettare tutti gli impegni assunti e lo ribadisce in continuazione per rassicurare l’Europa e lo spread». Ma se si allarga l’orizzonte, il risultato non cambia: «Anche chi si oppone a questi tre leader e ai loro schieramenti non affronta davvero questi temi, e in ogni caso non li mette al centro della propria propaganda». Grillo, per esempio: «A volte ne parla, ma poi al centro di tutto mette la lotta al sistema dei partiti». E Ingroia? Lui pure ne fa accenno, «ma ben dopo i temi della legalità che gli sono più cari». Così, nel confronto sulla politica economica «trionfano i “ma anche” di veltroniana memoria». Coniugare austerità e crescita, rigore con equità? «Sono formulette abusate, che non vogliono dire un bel nulla».
La crisi economica mondiale, aggiunge Cremaschi, si è alimentata pochi anni fa dalla esplosione della bolla finanziaria. In Italia, la crisi politica è letteralmente assorbita in una bolla mediatica, che sta gonfiando queste elezioni presentando uno scontro tanto più aspro quanto più si allontana dalle decisioni vere da assumere. «Prima o poi la bolla mediatica scoppierà come è successo per i quella dei derivati», dice Cremaschi. E allora, «il peso delle decisioni non prese e nemmeno discusse davvero si abbatterà su di noi con il perdurare della crisi». Ci sono le elezioni a febbraio? Bene. Non resta che «pretendere da chi si candida» di chiarire un punto fondamentale: «Dica con chiarezza se vuol mantenere o mettere in discussione pareggio di bilancio e Fiscal Compact: è su questo che ci si divide in Europa alle elezioni e sarebbe ora che accadesse anche da noi, nonostante la bolla mediatica».
Sull’Italia sta per scatenarsi l’inferno, ma nessuno lo dice chiaro e tondo: sia i politici che i grandi media non hanno ancora spiegato cosa significano, in concreto, il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio. Tagli sanguinosi: 40 miliardi di euro all’anno, per vent’anni. Traduce Luciano Gallino: vuol dire ridurre in miseria due o tre generazioni di italiani, e retrocedere la nostra economia in sedie D. E tutto questo, aggiunge Giorgio Cremaschi, sulla base di miseri calcoli tragicamente errati: la Merkel, Draghi e Monti hanno inaugurato le micidiali politiche di rigore credendo che un punto di taglio del deficit pubblico avrebbe ridotto la crescita di mezzo punto. Tutto sbagliato: un punto di tagli produce un mezzo di danno economico, cioè tre volte le previsioni. A dirlo non è Cremaschi, ma il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, come riporta il “Sole 24 Ore”.
Tecnocrati incapaci, oltre che spietati: «Hanno sbagliato i conti – dice Cremaschi – e la politica di austerità che hanno consapevolmente deciso ha prodotto disoccupazione e povertà tre volte di più di quanto avevano pensato di farci pagare». Ecco spiegata la dismisura della spirale recessiva, sempre più pesante e senza soluzioni, che sta dilagando in Europa. «In concreto – scrive Cremaschi su “Micromega” – questo vuol dire che il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale, votato anche da Lega e Idv», comporta un’austerity «non più economicamente e socialmente sostenibile», perché il patto fiscale europeo ci obbliga a dimezzare il debito pubblico in appena vent’anni. E’ l’orrore sociale del Fiscal Compact, di cui i media prefriscono parlare il meno possibile, «con buona pace della politica di unità nazionale che ha deliberato queste scelte e dello stesso Presidente della Repubblica che le ha auspicate e benedette».
Scelte sciagurate, che secondo Cremaschi «vanno concretamente e rapidamente messe in discussione, cioè revocate», perché per rimediare a danni epocali «sarà necessaria una politica economica di segno opposto a quella sinora attuata». Una nuova politica democratica, «che come prima misura decida di rompere il tabù liberista che domina il nostro continente». E’ il tabù del debito e del pareggio di bilancio, spauracchio «che invece viene messo in discussione nel resto del mondo, dagli Stati Uniti al Giappone alla Cina all’America latina», dove peraltro le economie si basano su moneta sovrana, senza cioè il ricatto di una valuta “straniera” come l’euro. Parliamoci chiaro, insiste Cremaschi: «Per affrontare la crisi e il suo primo effetto, la disoccupazione di massa, bisogna spendere soldi pubblici», come fa Obama, «senza timore di avere un bilancio in deficit». E dunque: «In Italia e in Europa deve saltare tutto il sistema di patti, accordi e regole che promuovono e disciplinano l’austerità».
In Italia invece il confronto elettorale parla d’altro, aggiunge Cremaschi, anche se la campagna elettorale si fonda sulle promesse più varie. «Monti evidentemente non può certo smentire sé stesso, Berlusconi è sicuramente capace di farlo ma proprio per questo non ha alcuna credibilità». E Bersani? «Nel proprio programma elettorale ha scritto che si impegna a rispettare tutti gli impegni assunti e lo ribadisce in continuazione per rassicurare l’Europa e lo spread». Ma se si allarga l’orizzonte, il risultato non cambia: «Anche chi si oppone a questi tre leader e ai loro schieramenti non affronta davvero questi temi, e in ogni caso non li mette al centro della propria propaganda». Grillo, per esempio: «A volte ne parla, ma poi al centro di tutto mette la lotta al sistema dei partiti». E Ingroia? Lui pure ne fa accenno, «ma ben dopo i temi della legalità che gli sono più cari». Così, nel confronto sulla politica economica «trionfano i “ma anche” di veltroniana memoria». Coniugare austerità e crescita, rigore con equità? «Sono formulette abusate, che non vogliono dire un bel nulla».
La crisi economica mondiale, aggiunge Cremaschi, si è alimentata pochi anni fa dalla esplosione della bolla finanziaria. In Italia, la crisi politica è letteralmente assorbita in una bolla mediatica, che sta gonfiando queste elezioni presentando uno scontro tanto più aspro quanto più si allontana dalle decisioni vere da assumere. «Prima o poi la bolla mediatica scoppierà come è successo per i quella dei derivati», dice Cremaschi. E allora, «il peso delle decisioni non prese e nemmeno discusse davvero si abbatterà su di noi con il perdurare della crisi». Ci sono le elezioni a febbraio? Bene. Non resta che «pretendere da chi si candida» di chiarire un punto fondamentale: «Dica con chiarezza se vuol mantenere o mettere in discussione pareggio di bilancio e Fiscal Compact: è su questo che ci si divide in Europa alle elezioni e sarebbe ora che accadesse anche da noi, nonostante la bolla mediatica».
martedì 22 gennaio 2013
Declini paralleli. Perché ci vuole “più sinistra” per uscire dalla crisi
Il declino economico dell'Italia è cominciato ben prima di questa crisi.
E affonda le sue radici in un modello di sviluppo perdente, fatto di
precarietà e svalutazione del lavoro. Ecco perché c'è bisogno di più
sinistra non solo per difendere i diritti, ma anche per far ripartire
l'economia.
di Emilio Carnevali da Micromega
Nel 1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano più della metà dell'intera flotta europea e solcavano i mari portando le merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le 34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.
Il primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds, l'illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.
Pochi decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica – si apprestava a trasferirsi al di là dell'Atlantico. Cosa era mai potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?
Il quesito ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno indubbiamente complesso.
Certamente ebbe un ruolo quello che oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi. Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione. L'Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto con la frontiera delle tecnologie più avanzate.
Anche il sistema educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori. L'insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto dell'esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto l'importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei settori più all'avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer, dell'elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi, nacquero proprio nella seconda metà dell'Ottocento sotto la spinta di quella poderosa accelerazione industriale.
Già nel 1913 la quota dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo secolo dell'egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).
Quale lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche l'Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico cominciato ben prima di questa crisi. Anch'esso ha origine dalla scelta di un modello di sviluppo perdente.
Tra il 2000 e il 2011 – proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua seconda esperienza di governo, prometteva l'avvento di un “nuovo miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l'1,1% di Germania e Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era stata dell'1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell'arco temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l'anno, un dato che non ha eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.
Dunque, non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell'area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.
Quel che è peggio, tanto per indulgere ancora un po' nel pessimismo, è che le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati Piigs, l'Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva nel 2007.
Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel dettaglio l'economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori tradizionali e poco innovativi come l'alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese (l'84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l'1,26% del Pil, contro la media dell'Europa a 27 dell'1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).
Si tratta naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con l'avvento dell'euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di riequilibrare i conti con l'estero. Gli aggiustamenti sono stati interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle variazioni della produttività).
E allora ci siamo inventati una “bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l'onere della nostra competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual'era il disegno strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo modello si è persa l'occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida della qualità e dell'innovazione, a investire nelle proprie aziende, in quel capitale umano che è l'unico vero volano di sviluppo nelle moderne economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della Romania.
Fossimo l'impero inglese di fine Ottocento, almeno avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere il primato della nostra flotta. Invece siamo l'Italia del terzo millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche isola turistica...
Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il lavoro e l'economia reale, che dovranno essere messi al centro dell'iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci investimenti nella scuola e nell'università, servizi pubblici e infrastrutture adeguati.
Ha ragione il ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a causa delle politiche di austerity imposte dall'Europa e di cui lo stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione, peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di più la recessione.
Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o 3 mesi). E questa è materia propria dell'arte della politica. Di una politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla disperazione sociale di un paese in ginocchio.
di Emilio Carnevali da Micromega
Nel 1870 la Gran Bretagna deteneva una quota pari al 31,8% della produzione manifatturiera mondiale. Nello stesso periodo le sue navi costituivano più della metà dell'intera flotta europea e solcavano i mari portando le merci inglesi in ogni più remoto angolo del pianeta. Dalle sue miniere si estraevano ogni anno 112.203 mila tonnellate di carbone, contro le 34.003 mila tonnellate estratte in Germania e le 36.667 mila negli Stati Uniti. Dagli altoforni delle città industriali del Galles e della Scozia uscivano ogni anno 897 mila tonnellate di acciaio, più del doppio di quelle prodotte in Germania, 300 mila in più che negli Stati Uniti.
Il primato industriale, economico e finanziario della Gran Bretagna sembrava regnare incontrastato dal tempo in cui le prime macchina per la filatura del cotone erano state installate nelle fabbriche di Leeds, l'illuminazione a gas aveva rischiarato le notti nelle strade del centro di Londra e le prime locomotive a vapore cominciavano a viaggiare – a velocità mai viste prime – fra Liverpool e Manchester.
Pochi decenni dopo, alla vigilia della Prima guerra mondiale, quel primato era già un ricordo. La Germania, e sopratutto gli Stati Uniti, avevano già compiuto il sorpasso nei confronti dei sudditi di sua maestà. La leadership economica del mondo – e successivamente anche quella politica – si apprestava a trasferirsi al di là dell'Atlantico. Cosa era mai potuto succedere in un così ristretto arco di tempo?
Il quesito ha fatto riempire agli storici le pagine dei volumi di intere biblioteche. Moltissime sono le teorie formulate, diverse le spiegazioni che colgono almeno in parte i molteplici aspetti di un fenomeno indubbiamente complesso.
Certamente ebbe un ruolo quello che oggi chiameremmo il “modello di sviluppo” adottato dai rispettivi paesi. Negli Stati Uniti la carenza relativa di manodopera comportava un più alto costo del lavoro che spingeva gli industriali americani a investire molto di più in macchinari ed innovativi dispositivi di produzione. L'Inghilterra, per altro, poteva contare su un vastissimo impero coloniale dove riversare i suoi manufatti. Questo la spinse ad attardarsi per molto tempo su produzioni tipiche della prima rivoluzione industriale, senza sentire la necessità di penetrare mercati più sofisticati. In altre parole, non fu “costretta” a tenere il contatto con la frontiera delle tecnologie più avanzate.
Anche il sistema educativo inglese era carente rispetto a quello dei suoi competitori. L'insegnamento di base divenne gratuito solo nel 1891 e un certo “culto dell'esperienza pratica” contribuì a non far tenere in dovuto conto l'importanza della formazione tecnico-scientifica. Con le sue Realschulen e le sue Technische Hochschulen la Germania preparava manovalanza specializzata e quadri tecnici in grande quantità. Fu così che in breve tempo guadagnò la leadership nei settori più all'avanguardia. Multinazionali della chimica come la Bayer, dell'elettromeccanica come la Siemens, della metallurgia come gli imperi dei Krupp e dei Thyssen, tutti marchi ben conosciuti anche oggi, nacquero proprio nella seconda metà dell'Ottocento sotto la spinta di quella poderosa accelerazione industriale.
Già nel 1913 la quota dei manufatti inglesi sulla produzione globale era scesa al 14%, contro il 35% degli Stati Uniti e il 15,7% della Germania. Iniziava il lungo secolo dell'egemonia “a stelle e strisce” (inframezzato dalla tragedia, e dal successivo riscatto, di cui fu protagonista la potenza tedesca).
Quale lezione è possibile trarre dalla storia del “declino economico inglese”? Indubbiamente ci confrontiamo con una distanza temporale considerevole, con condizioni di contesto diversissime. Eppure anche l'Italia negli ultimi anni è andata incontro ad un declino economico cominciato ben prima di questa crisi. Anch'esso ha origine dalla scelta di un modello di sviluppo perdente.
Tra il 2000 e il 2011 – proprio gli anni per i quali Silvio Berlusconi, alla vigila della sua seconda esperienza di governo, prometteva l'avvento di un “nuovo miracolo economico” – il Pil del nostro Paese ha fatto registrare un tasso di crescita medio di appena lo 0,3%, contro l'1,1% di Germania e Francia. E negli anni precedenti la media della nostra crescita era stata dell'1,6% inferiore a quella europea.
Sempre nell'arco temporale 2000-2009 (il cosiddetto “decennio perduto”) la produttività in Italia è diminuita in media dello 0.5% l'anno, un dato che non ha eguali né nella nostra storia né in quella degli altri paesi europei.
Dunque, non solo abbiamo reagito peggio degli altri paesi europei al Grande Crack sistemico sprigionatosi con la crisi dei mutui subprime partita dagli Usa (-5,5% di flessione del Pil nel 2009 a fronte di una media nell'area euro del -4,3%). Ma già venivamo da una fase di grande difficoltà. Già avevamo accumulato un considerevole ritardo.
Quel che è peggio, tanto per indulgere ancora un po' nel pessimismo, è che le prospettive per il futuro sono parimenti fosche. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale relative ai famigerati Piigs, l'Italia è il paese che – esclusa la Grecia – recupererà con maggiore lentezza i livelli di produzione precedenti alla crisi: solo dopo il 2018 il nostro Paese dovrebbe raggiungere lo stesso livello del Pil che aveva nel 2007.
Quali sono le ragioni di tutto ciò? Ci sono moltissimi fattori alla base del declino italiano (li affronta nel dettaglio l'economista Mario Pianta nel suo ultimo libro “Nove su dieci. Perché stiamo (quasi) tutti peggio di dici anni fa”, Laterza). Eccone alcuni: una struttura produttiva debole, posizionata su settori tradizionali e poco innovativi come l'alimentare, il tessile, le calzature, il legno, i prodotti in metallo; il nanismo delle imprese (l'84% delle 510 imprese italiane ha meno di 9 addetti e un altro 15% ne ha tra i 10 e i 49); gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo sia da parte dei privati che da parte delle autorità pubbliche (nel 2009 il nostro Paese ha dedicato a questa voce di spesa l'1,26% del Pil, contro la media dell'Europa a 27 dell'1,9%, per non parlare delle irraggiungibili Germania, 2,8%, e Finlandia 3,9%).
Si tratta naturalmente di limiti e difetti che ci portiamo dietro non da ieri. Una volta, però, avevamo anche altre armi per poter far fronte a queste difficoltà, come ad esempio la svalutazione della moneta nazionale. Con l'avvento dell'euro non abbiamo più potuto svalutare, e pertanto è venuto a mancare uno strumento fondamentale che permetteva di riequilibrare i conti con l'estero. Gli aggiustamenti sono stati interamente affidati alla flessibilità di prezzi e salari (o alle variazioni della produttività).
E allora ci siamo inventati una “bella” scorciatoia: quella di scaricare tutto l'onere della nostra competitività sul lavoro. Ecco, in ultima analisi, qual'era il disegno strategico dietro a una serie di controriforme del mercato del lavoro che hanno fatto dilagare la precarietà ben oltre i livelli richiesti dalle necessità organizzative delle nostre aziende. Ed ecco spiegata la singolare “pigrizia” dei nostri imprenditori: con la scelta di questo modello si è persa l'occasione di “costringerli” a raccogliere la sfida della qualità e dell'innovazione, a investire nelle proprie aziende, in quel capitale umano che è l'unico vero volano di sviluppo nelle moderne economie della conoscenza. Si aggiunga che per quanto peggioreranno le nostre condizioni di lavoro, mai potranno competere in termini di costi con quelle vigenti nelle fabbriche del Vietnam o nei capannoni della Romania.
Fossimo l'impero inglese di fine Ottocento, almeno avremmo i domini coloniali dove riversare le nostre merci facendo valere il primato della nostra flotta. Invece siamo l'Italia del terzo millennio, la cui flotta sembra riuscire ad attrarre le attenzioni del mondo solo in occasione di improvvidi “inchini” sulla costa di qualche isola turistica...
Ecco perché è innanzitutto il lavoro, il lavoro e l'economia reale, che dovranno essere messi al centro dell'iniziativa del prossimo governo. E ciò significa difesa dei diritti, ma anche capacità di visione sul lungo periodo. Più prosaicamente: moderne relazioni sindacali (non ottocentesche, come le vorrebbe qualcuno), efficaci politiche industriali, massicci investimenti nella scuola e nell'università, servizi pubblici e infrastrutture adeguati.
Ha ragione il ministro della coesione territoriale Fabrizio Barca quando dice che il problema della crescita e dello sviluppo è in qualche modo, per sua natura, estraneo ad un esecutivo tecnico come quello guidato da Mario Monti. E non solo a causa delle politiche di austerity imposte dall'Europa e di cui lo stesso Monti si è fatto garante. Ovviamente è necessario che queste politiche cambino, che si riavvii un motore della domanda interna europea in grado di rompere la spirale infernale fra recessione, peggioramento del debito e politiche restrittive che aggravano ancor di più la recessione.
Ma lo sviluppo presuppone un idea di destino comune, implica una capacità di immaginazione delle traiettorie che dovrà seguire il Paese per i prossimi 10/15 anni (non per i prossimi 2 o 3 mesi). E questa è materia propria dell'arte della politica. Di una politica forte fatta da soggetti forti. Non da “dilettanti allo sbaraglio” che fanno a gara a chi urla di più per lucrare sulla disperazione sociale di un paese in ginocchio.
sabato 19 gennaio 2013
L'avvento dei droni assassini: la guerra segreta dell'America
Uno
sguardo ravvicinato a come le uccisioni telecomandate hanno cambiato
il nostro modo di combattere
di
Michael Hastings (da Rolling
Stone)
traduzione
di Domenico D'Amico
Un
giorno alla fine di novembre [2011] un velivolo senza pilota è
decollato dalla base aerea di Shindand, in Afghanistan, a circa 120
chilometri dal confine con l'Iran. La missione del drone: spiare il
programma nucleare iraniano, insieme a qualsiasi attività
insurrezionale gli iraniani potessero appoggiare in Afghanistan. Con
un costo alla consegna stimato sui 6 milioni di dollari, quel drone
era il risultato di più di 15 anni di ricerca e sviluppo, a
cominciare dall'enigmatico progetto di nome DarkStar supervisionato
dalla Lockheed Martin. La prima prova di volo di DarkStar ebbe luogo
nel 1996, ma in seguito a uno schianto e ad altri incidenti la Lockheeed
aveva annunciato la cancellazione del programma. Secondo gli esperti
militari, quella fu solo una comoda scusante per “sparire dal
radar” [going dark], nel senso che ulteriori sviluppi del progetto
DarkStar si sarebbero svolti sotto un velo di segretezza.
venerdì 18 gennaio 2013
La stupida guerra
di Tonino D'Orazio
Ci risiamo, si ricomincia
con i “terroristi” da massacrare a casa loro. Il Mali, area sub
sahariana. I Touareg e le altre popolazioni nomade dell’area non
hanno mai accettato le frontiere geometriche a grandi linee imposte
dai colonialisti francesi e dagli inglesi per il resto dell’Africa.
La guerra di religione,
utile alla sottrazione del petrolio alle popolazioni indigene,
continua tramite l’assalto all’islam. Ormai esiste una autostrada
di questa guerra che va dal Pakistan al Sahel, passando per l’Irak
e la Somalia. Su questa autostrada circolano combattenti, idee,
tecniche di guerra e armi per tutti quelli che vogliono lottare
contro “i nuovi crociati”. Si rafforzano culturalmente proprio
gli elementi che alla rinfusa ci fanno considerare tutti
“terroristi” di Al-Qaida, mentre man mano perdiamo tutte le
guerre.
Gli islamisti, spesso
quelli più intransigenti, si sono fortemente rafforzati. In Pakistan
sono al governo. In Afganistan dove la partenza delle democratiche
truppe occidentali, in zona da più di 12 anni, porterà il ritorno
dei “talebani” (termine nostro. Contro l’occupazione sovietica
si chiamavano “mudjaidin del popolo”). Per non dire che i
talebani che hanno vinto li chiameranno “pastun”. Missione
compiuta?
Poi c’è l’Irak, dove
regna la migliore democrazia del mondo dopo quella americana
s’intende. Però ci sono voluti due milioni di morti, un paese
completamente distrutto, un governo fantoccio nascosto nei bunker,
una situazione di povertà da periodo di guerra e dopo-guerra senza
ricostruzione. Anche qui, 12 anni. Difficile andare via senza
garantirsi, anche militarmente, i pozzi di petrolio. Mai gli
islamisti schiiti sono così vicino al consenso popolare. Prima non
c’erano.
Su questa autostrada c’è
un primo intoppo difficile da digerire, l’Iran (che speriamo si
doti presto della dissuasiva bomba atomica, come i suoi vicini) e un
altro che forse presto verrà rimosso, la Siria. Nel primo, islamisti
di ferro, nel secondo sono messi in difficoltà dalla sovversione
occidentale i sunniti, islamisti moderati e crescono gli schiiti.
A fianco c’è il
Libano, in guerra civile latente, a volte attiva a volte sotterranea,
da 40 anni. Vi sono cristiani maroniti, musulmani sunniti e schiiti.
Paese dove si scontrano anche influenze occidentali come quella
francese (seconda lingua del paese) e quella onnipresente
anglo-americana. Da un po’ anche turca.
Poi c’è Gaza. Qui la
guerra di religione ha caratteristiche assolutamente naziste.
Espansione della propria razza e religione e eliminazione degli
occupanti. Come mai si rafforza sempre di più Hamas?
Qualcuno ricorda la
Somalia? Con molti cristiani (retaggio coloniale italo-vaticano) in
diminuzione e con islamisti (“signori della guerra”) agguerriti
(magari con armi italiane. Ilaria Alpi?) e padroni di parte del paese
e di varie città. Lì mi sembra che siamo fuggiti insieme agli
americani. La storia è in atto.
Tralascio tutta la parte
della penisola arabica e dei vari paesi insiti. Tutti islamici, ma
per fortuna senza parlamenti e nostri carissimi amici. Il velo e il
burqa regnano sovrani. Sono islamici non pericolosi.
L’Egitto. Qui comincia
il nuovo. Era uno stato abbastanza laico. Non parlo del governo
caduto e del dittatore. Non stupisce nessuno che tutti questi paesi
islamici, in un modo o in un altro sono gestiti da dittatori, da re o
da emiri? Quelli amici sono buoni, quelli recalcitranti sono cattivi,
quindi terroristici, quindi di Al-Qaida, quindi eliminabili, anche
fisicamente. La vittoria democratica dei fratelli musulmani, eroica
resistenza alla dittatura, modifica la costituzione rivoluzionaria e
riporta il paese nelle mani degli islamisti intransigenti. Di quale
primavera si trattava? Cosa volevano ottenere i servizi segreti
anglo-americani dalla partenza di Mubarak fomentando le piazze da
mesi?
Vale la pena parlare
della Libia? È ancora un paese interessante? Hanno vinto le tre più
grandi tribù islamiche che si stanno dividendo il paese bombardato.
A noi cosa importa? Noi italiani abbiamo addirittura salvato una
piccola percentuale di petrolio con così poco impegno.
La primavera tunisina.
Ancora in atto e senza sbocca da più di un anno. Anche lì si sono
ricompattati i Fratelli musulmani. E’ un paese democraticamente nel
caos, situazione delle migliori per lo sviluppo delle religioni
radicali.
A fianco c’è
l’Algeria, un “protettorato” economico francese. La rivolta non
è mai sopita da anni e resistenze religiose e politiche continuano
massacri indicibili. Un po’ di più nelle aree sahariane.
Il Marocco è tranquillo,
se non fosse per una sua sotterranea guerra al popolo Sawali. Popolo
che ritiene il Sahara più occidentale la propria patria
storico-etnica. La religione musulmana e il re regnano sovrani. C’è
stato un piccolo accenno ad aperture politico-sociali per
eventualmente calmare le acque delle primavere nord africane. Nulla
di più.
A sud di questi paesi ci
sono i nomadi, in gran parte Touareg che ritengono il Sahara intero
la loro patria e sono quindi trasversali e senza frontiere. Sono
musulmani della prima ora nella storia e non hanno mai accettato le
occupazioni.
Tralascio la guerra dei
Balcani, la situazione nigeriana e del centro africa. Non sono solo
scontri economici. Troppo facile.
Qual è la sintesi di
questa riflessione, se non il concetto che, paradossalmente, tutte le
guerre e le spedizioni militari che l’occidente ha prodotto contro
il “terrorismo”, in tutti i paesi islamici, hanno rafforzato
semplicemente le organizzazioni che volevano distruggere. E sono
sempre dovuti scappare, certo tentando di “salvare la faccia”.
Tutto quello che ci hanno raccontato, stabilizzare la situazione, la
democratizzazione erano false e tali si sono rivelate. Anzi possiamo
notare che tutte queste spedizioni coloniali ci hanno portati ad una
maggiore insicurezza, a più controlli, più sorveglianza e perciò a
meno libertà fondamentali.
Vale anche per la guerra
in Mali e la prossima che verrà. Tanto noi siamo sempre meglio
equipaggiati e in buona compagnia.
Voglia di secessione – Ecco perché non è solo una fantasia della destra
di
G. Pascal Zachary (da Alternet)
traduzione di Domenico D'Amico
Tutto
questo parlare di secessione evidenzia un aspetto esistenziale
nascosto, ma non inesistente, dello stato nazione americano: che
l'unione è una scelta quanto la separazione.
Con
cadenza regolare molti cittadini si ritrovano a pensare con favore a
uno smembramento degli Stati Uniti – patrioti di ogni colore
politico che “nel corso degli eventi umani” sono arrivati a
ritenere che sia sorta “la
necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno
stretto [a un altro popolo]” [1]
Il
nostro è uno di questi periodi, e nonostante le istanze politiche e
il momento storico abbiano una loro unicità, uno sguardo a passati
episodi di zelo secessionista potrebbe illuminare il presente. Il
profluvio di fervore secessionista seguito alle ultime elezioni è
solo una fantasticheria passeggera, oppure è l'indicazione di un più
profondo, perfino rivoluzionario, cambiamento del contesto politico
americano?
giovedì 17 gennaio 2013
Imposimato: "A distanza di oltre 40 anni esiste ancora il pericolo che Piazza Fontana possa ripetersi"
di Michael Pontrelli da notizie.tiscali.it
La strage di Piazza Fontana, avvenuta nel dicembre del 1969, viene considerata da molti storici l’inizio della cosiddetta “strategia della tensione” ovvero uno dei peggiori attacchi subiti dalle istituzioni democratiche del nostro Paese nel dopoguerra. A distanza di tanti anni molti degli interrogativi dell’attentato restano ancora senza risposta e questo alimenta il lavoro incessante di tanti ricercatori che vogliono fare luce su uno dei più importanti “buchi neri” della storia recente italiana. Uno di questi ricercatori è Ferdinando Imposimato, avvocato penalista, magistrato e presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Imposimato ha studiato per anni documenti inediti della strage di Piazza Fontana e di tanti altri terribili eccidi culminati nel 1992 con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino. Questo imponente lavoro di ricerca è stato raccolto nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”, pubblicato da Newton Compton Editori. Abbiamo sentito Imposimato per fare il punto, nel giorno dell’anniversario, su quanto accaduto davvero a Milano quel freddo 12 dicembre di 43 anni fa.
Presidente, perché la strage di Piazza Fontana è un evento che non deve essere dimenticato dall'opinione pubblica e dalle nuove generazioni?
"Perchè l’eccidio di Piazza Fontana, in cui morirono donne e bambini, fu 'la madre di tutte le stragi'. Negli anni seguenti l'Italia sprofondò in un mare di illegalità, corruzione, terrorismo e criminalità organizzata in cui fare giustizia e ripristinare l'imperio della legge divenne praticamente impossibile".
A distanza di oltre quaranta anni esiste finalmente una verità su come sono andate le cose e sulle responsabilità dell'attentato?
"In primo luogo è emersa l'assoluta estraneità degli anarchici, coinvolti ingiustamente come capri espiatori, dai veri autori e mandanti. Essi furono le vittime sacrificali di un progetto persecutorio, contro soggetti privi di qualunque possibilità di difesa, compreso Giangiacomo Feltrinelli, vittima di una diabolica macchinazione. Persino la Cassazione , nel 2005, riconobbe che esecutori e organizzatori di Piazza Fontana erano stati terroristi di Ordine Nuovo e bollò come errate le decisioni assolutorie della stessa Suprema Corte prese in precedenza. I terroristi di Ordine nuovo furono manovrati da CIA, servizi segreti italiani, affari riservati, Stay Behind-Gladio e logge massoniche. L'esplosivo per Piazza Fontana fu fornito dai servizi americani, come riconobbero il generale Maletti e Francesco Cossiga nelle sue memorie. A fare da collante furono P2 e massoneria italo americana, legata a Cosa Nostra. Un ruolo cruciale fu svolto anche da Licio Gelli, raccordo tra politici, mafiosi, terroristi e Cia dall'Excelsior di Roma. Nell'alleanza di militari e civili, Gelli infiltrò i gangli vitali dello Stato, diventando il dominus degli apparati di sicurezza, parte integrante dell'alleanza eversiva, che assicurava le coperture a Ordine Nuovo. Beneficiario principale di Piazza Fontana fu la destra DC, come riconobbe Moro nel memoriale dalla prigione". Nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” ha scritto che esiste un filo che lega tutti gli eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia italiana recente, da Piazza Fontana fino all'assassinio di Falcone e Borsellino. Di che legame si tratta? "L'aspetto più importante da mettere in evidenza è che la strategia eversiva comprende tutte le stragi commesse in Italia dal 1969 ad oggi. Dietro tutti questi eventi c'è un unico grande regista, un soggetto occulto chiamato StayBehind-Gladio. Evocato spesso a sproposito, più spesso ignorato nei dibattiti degli storici, era per la Commissione Gualtieri un'organizzazione afflitta da 'illegittimità costituzionale progressiva', sotto il controllo del governo americano. Dipendeva dalla CIA e gestì il SIFAR , il Sid e il Sismi.. La CIA era organo di Governo degli Stati Uniti che ne approvava tutte le iniziative tramite l'ambasciatore a Roma. SB-Gladio riuscì a bloccare tutte le inchieste giudiziarie offrendo come colpevoli persone del tutto estranee alle stragi. Servì gli interessi di politici DC. Questa entità fruì della massima protezione istituzionale, riuscendo a crescere ed espandersi e sopravvivendo a ogni reazione dello Stato legale. Coloro che tentarono di conoscerla e rivelarne la struttura furono spietatamente assassinati. Tra le sue vittime furono Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, La Torre, Mattarella. Ma l'elenco di chi è morto a causa di StayBehind è interminabile. Non solo uomini delle forze dell'ordine e magistrati ma anche un grande statista come Aldo Moro e centinaia di cittadini, lavoratori donne e bambini, che ancora oggi attendono giustizia. Di questa struttura clandestina, spesso salvata dal segreto di Stato opposto da chi aveva interesse a coprire se stesso, facevano parte organicamente Cosa Nostra, terroristi neri, imprese economiche, servizi segreti e massoneria, manovrati dalla CIA. A fare da collante fu la Loggia P2 infiltrata in ogni organismo dello Stato e nelle alte sfere del potere".
Pensa che l'epoca dello stragismo sia definitivamente tramontata per il nostro Paese o ritiene che sia ancora un pericolo esistente?
"La struttura politico militare che ha commesso le stragi da Piazza Fontana a via D'Amelio è intatta ed anzi si è rafforzata. E dunque il pericolo del ripetersi di stragi come strumento di lotta politica esiste ed è grave. Dietro c'è come sempre l'ombra sinistra della politica e dei poteri economici e finanziari, quelli che fanno capo a gruppi insospettabili con la testa fuori dall'Italia. Il dubbio atroce è che la strategia delle stragi si estenda fino alla strage di Brindisi del 2012, alla scuola Morvillo Falcone, ove fanciulle ignare e piene di speranza sono state distrutte senza sapere perchè e da chi, in oltraggio alla memoria di due martiri Falcone e Morvillo. Non fu follia né mafia né anarchia.. Il mostro è ancora in agguato. Una storia all'insegna del più spietato machiavellismo. Una storia tragica che rischia di ripetersi".
La profonda crisi economica e sociale in corso può riportare l'Italia ai drammatici anni Sessanta e Settanta ? "I sacrifici imposti agli operai alle famiglie dei senza reddito e senza casa, ai pensionati e ai giovani sono ormai insostenibili. Le ingiustizie sociali sono cresciute. I privilegi dei politici , dei finanzieri e dei capitalisti sono rimasti intatti. Se il declino non verrà interrotto vi è il pericolo di una rivolta sociale da parte di lavoratori, studenti e disoccupati con episodi di violenza e forse di terrorismo che saranno strumentalizzati da chi vuole imporre la più dura delle repressioni e un governo forte che tenderà a demolire la Costituzione. Ma guai a imboccare la strada suicida del terrorismo e della violenza. Bisogna usare le armi della protesta civile, della opposizione democratica, non esistono scorciatoie, a meno di non volere fare il gioco dei responsabili di questa situazione. Il pericolo non è solo nella possibile ripresa del terrorismo rosso e nero ma nella sua strumentalizzazione da parte dei poteri occulti, come è già avvenuto nel recente passato. La previsione sulle conseguenze della gravissima crisi va fatta rivolgendo uno sguardo al passato, agli anni Sessanta/Settanta, e alla strategia delle stragi. Ma anche al presente".
Da decenni ormai in Italia esiste una relazione molto stretta tra politica e malaffare. Cosa fare per uscire da questo circolo vizioso?
"In effetti questo è il periodo più buio della storia d''Italia, con una classe politica corrotta e incapace di governare e una giustizia che non riesce a colpire i responsabili delle stragi e dei fenomeni degenerativi criminali più pericolosi che riguardano Cosa Nostra, la corruzione diffusa, l'evasione fiscale e l'aggressione all'ambiente. La sola via di uscita è il rinnovamento totale della classe politica".
Durante gli anni del governo Berlusconi lo scontro tra politica e magistratura è stato molto aspro. Esiste un problema di equilibrio fra i poteri?
"Si tratta di un falso problema. Lo scontro è avvenuto tra i politici e la legge, da loro ripetutamente violata, per via dei dilaganti episodi di corruzione, malaffare, concussione, abuso in atti di ufficio, sperpero del pubblico denaro, evasione fiscale, collusioni con la criminalità organizzata, abusi sessuali su minori, induzione alla prostituzione. Tutto questo con la copertura di leggi ad personam e di amnistie camuffate da riforme garantiste, dirette invece a tutela dei poteri forti, quale la legge contro la corruzione che ha ridotto la pena per la concussione fraudolenta e ha omesso di punire il falso in bilancio, reato strumentale alla corruzione, e il conflitto di interessi, che è stato depenalizzato. La magistratura ha solo cercato di applicare la legge, come imposto dalla Costituzione, reprimendo, come era suo dovere, fenomeni criminali gravissimi commessi dai politici. Nessuno scontro politica-magistratura. Lo scontro è stato ed è tra giustizia e corruzione, e noi siamo schierati a favore della giustizia".
La strage di Piazza Fontana, avvenuta nel dicembre del 1969, viene considerata da molti storici l’inizio della cosiddetta “strategia della tensione” ovvero uno dei peggiori attacchi subiti dalle istituzioni democratiche del nostro Paese nel dopoguerra. A distanza di tanti anni molti degli interrogativi dell’attentato restano ancora senza risposta e questo alimenta il lavoro incessante di tanti ricercatori che vogliono fare luce su uno dei più importanti “buchi neri” della storia recente italiana. Uno di questi ricercatori è Ferdinando Imposimato, avvocato penalista, magistrato e presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. Imposimato ha studiato per anni documenti inediti della strage di Piazza Fontana e di tanti altri terribili eccidi culminati nel 1992 con l’assassinio dei giudici Falcone e Borsellino. Questo imponente lavoro di ricerca è stato raccolto nel libro “La Repubblica delle stragi impunite”, pubblicato da Newton Compton Editori. Abbiamo sentito Imposimato per fare il punto, nel giorno dell’anniversario, su quanto accaduto davvero a Milano quel freddo 12 dicembre di 43 anni fa.
Presidente, perché la strage di Piazza Fontana è un evento che non deve essere dimenticato dall'opinione pubblica e dalle nuove generazioni?
"Perchè l’eccidio di Piazza Fontana, in cui morirono donne e bambini, fu 'la madre di tutte le stragi'. Negli anni seguenti l'Italia sprofondò in un mare di illegalità, corruzione, terrorismo e criminalità organizzata in cui fare giustizia e ripristinare l'imperio della legge divenne praticamente impossibile".
A distanza di oltre quaranta anni esiste finalmente una verità su come sono andate le cose e sulle responsabilità dell'attentato?
"In primo luogo è emersa l'assoluta estraneità degli anarchici, coinvolti ingiustamente come capri espiatori, dai veri autori e mandanti. Essi furono le vittime sacrificali di un progetto persecutorio, contro soggetti privi di qualunque possibilità di difesa, compreso Giangiacomo Feltrinelli, vittima di una diabolica macchinazione. Persino la Cassazione , nel 2005, riconobbe che esecutori e organizzatori di Piazza Fontana erano stati terroristi di Ordine Nuovo e bollò come errate le decisioni assolutorie della stessa Suprema Corte prese in precedenza. I terroristi di Ordine nuovo furono manovrati da CIA, servizi segreti italiani, affari riservati, Stay Behind-Gladio e logge massoniche. L'esplosivo per Piazza Fontana fu fornito dai servizi americani, come riconobbero il generale Maletti e Francesco Cossiga nelle sue memorie. A fare da collante furono P2 e massoneria italo americana, legata a Cosa Nostra. Un ruolo cruciale fu svolto anche da Licio Gelli, raccordo tra politici, mafiosi, terroristi e Cia dall'Excelsior di Roma. Nell'alleanza di militari e civili, Gelli infiltrò i gangli vitali dello Stato, diventando il dominus degli apparati di sicurezza, parte integrante dell'alleanza eversiva, che assicurava le coperture a Ordine Nuovo. Beneficiario principale di Piazza Fontana fu la destra DC, come riconobbe Moro nel memoriale dalla prigione". Nel suo libro “La Repubblica delle stragi impunite” ha scritto che esiste un filo che lega tutti gli eventi drammatici che hanno caratterizzato la storia italiana recente, da Piazza Fontana fino all'assassinio di Falcone e Borsellino. Di che legame si tratta? "L'aspetto più importante da mettere in evidenza è che la strategia eversiva comprende tutte le stragi commesse in Italia dal 1969 ad oggi. Dietro tutti questi eventi c'è un unico grande regista, un soggetto occulto chiamato StayBehind-Gladio. Evocato spesso a sproposito, più spesso ignorato nei dibattiti degli storici, era per la Commissione Gualtieri un'organizzazione afflitta da 'illegittimità costituzionale progressiva', sotto il controllo del governo americano. Dipendeva dalla CIA e gestì il SIFAR , il Sid e il Sismi.. La CIA era organo di Governo degli Stati Uniti che ne approvava tutte le iniziative tramite l'ambasciatore a Roma. SB-Gladio riuscì a bloccare tutte le inchieste giudiziarie offrendo come colpevoli persone del tutto estranee alle stragi. Servì gli interessi di politici DC. Questa entità fruì della massima protezione istituzionale, riuscendo a crescere ed espandersi e sopravvivendo a ogni reazione dello Stato legale. Coloro che tentarono di conoscerla e rivelarne la struttura furono spietatamente assassinati. Tra le sue vittime furono Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, La Torre, Mattarella. Ma l'elenco di chi è morto a causa di StayBehind è interminabile. Non solo uomini delle forze dell'ordine e magistrati ma anche un grande statista come Aldo Moro e centinaia di cittadini, lavoratori donne e bambini, che ancora oggi attendono giustizia. Di questa struttura clandestina, spesso salvata dal segreto di Stato opposto da chi aveva interesse a coprire se stesso, facevano parte organicamente Cosa Nostra, terroristi neri, imprese economiche, servizi segreti e massoneria, manovrati dalla CIA. A fare da collante fu la Loggia P2 infiltrata in ogni organismo dello Stato e nelle alte sfere del potere".
Pensa che l'epoca dello stragismo sia definitivamente tramontata per il nostro Paese o ritiene che sia ancora un pericolo esistente?
"La struttura politico militare che ha commesso le stragi da Piazza Fontana a via D'Amelio è intatta ed anzi si è rafforzata. E dunque il pericolo del ripetersi di stragi come strumento di lotta politica esiste ed è grave. Dietro c'è come sempre l'ombra sinistra della politica e dei poteri economici e finanziari, quelli che fanno capo a gruppi insospettabili con la testa fuori dall'Italia. Il dubbio atroce è che la strategia delle stragi si estenda fino alla strage di Brindisi del 2012, alla scuola Morvillo Falcone, ove fanciulle ignare e piene di speranza sono state distrutte senza sapere perchè e da chi, in oltraggio alla memoria di due martiri Falcone e Morvillo. Non fu follia né mafia né anarchia.. Il mostro è ancora in agguato. Una storia all'insegna del più spietato machiavellismo. Una storia tragica che rischia di ripetersi".
La profonda crisi economica e sociale in corso può riportare l'Italia ai drammatici anni Sessanta e Settanta ? "I sacrifici imposti agli operai alle famiglie dei senza reddito e senza casa, ai pensionati e ai giovani sono ormai insostenibili. Le ingiustizie sociali sono cresciute. I privilegi dei politici , dei finanzieri e dei capitalisti sono rimasti intatti. Se il declino non verrà interrotto vi è il pericolo di una rivolta sociale da parte di lavoratori, studenti e disoccupati con episodi di violenza e forse di terrorismo che saranno strumentalizzati da chi vuole imporre la più dura delle repressioni e un governo forte che tenderà a demolire la Costituzione. Ma guai a imboccare la strada suicida del terrorismo e della violenza. Bisogna usare le armi della protesta civile, della opposizione democratica, non esistono scorciatoie, a meno di non volere fare il gioco dei responsabili di questa situazione. Il pericolo non è solo nella possibile ripresa del terrorismo rosso e nero ma nella sua strumentalizzazione da parte dei poteri occulti, come è già avvenuto nel recente passato. La previsione sulle conseguenze della gravissima crisi va fatta rivolgendo uno sguardo al passato, agli anni Sessanta/Settanta, e alla strategia delle stragi. Ma anche al presente".
Da decenni ormai in Italia esiste una relazione molto stretta tra politica e malaffare. Cosa fare per uscire da questo circolo vizioso?
"In effetti questo è il periodo più buio della storia d''Italia, con una classe politica corrotta e incapace di governare e una giustizia che non riesce a colpire i responsabili delle stragi e dei fenomeni degenerativi criminali più pericolosi che riguardano Cosa Nostra, la corruzione diffusa, l'evasione fiscale e l'aggressione all'ambiente. La sola via di uscita è il rinnovamento totale della classe politica".
Durante gli anni del governo Berlusconi lo scontro tra politica e magistratura è stato molto aspro. Esiste un problema di equilibrio fra i poteri?
"Si tratta di un falso problema. Lo scontro è avvenuto tra i politici e la legge, da loro ripetutamente violata, per via dei dilaganti episodi di corruzione, malaffare, concussione, abuso in atti di ufficio, sperpero del pubblico denaro, evasione fiscale, collusioni con la criminalità organizzata, abusi sessuali su minori, induzione alla prostituzione. Tutto questo con la copertura di leggi ad personam e di amnistie camuffate da riforme garantiste, dirette invece a tutela dei poteri forti, quale la legge contro la corruzione che ha ridotto la pena per la concussione fraudolenta e ha omesso di punire il falso in bilancio, reato strumentale alla corruzione, e il conflitto di interessi, che è stato depenalizzato. La magistratura ha solo cercato di applicare la legge, come imposto dalla Costituzione, reprimendo, come era suo dovere, fenomeni criminali gravissimi commessi dai politici. Nessuno scontro politica-magistratura. Lo scontro è stato ed è tra giustizia e corruzione, e noi siamo schierati a favore della giustizia".
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