di Giorgio Cremaschi da Micromega
Siccome non son mai stato una vittima del nuovo in politica, di quel
nuovismo attraverso il quale si sono perpetuate da trenta anni le stesse
politiche e le stesse classi dirigenti, non mi scandalizza che la lista
del cosiddetto quarto polo sia diventata l’ennesima lista personale,
ove il leader è la sostanza della proposta. Né
mi sconvolge che i partiti siano alla fine l’architrave della lista. I
partiti esistono sempre e chi li rifiuta semplicemente ne sta fondando
un altro.
Ciò che non mi convince della coalizione Ingroia è l’ordine delle
priorità e il messaggio di fondo del programma annunciato dal suo
leader.
L’Italia è un paese devastato dalla corruzione e dalle mafie, una
parte della classe politica è soggetto contraente di questo sistema, i
berlusconiani, una parte è debole o subalterna, Monti e anche il PD. Una
lotta vera alle mafie e alla corruzione finora non si è fatta per colpa
di questa classe politica e il paese ne paga i costi con la crisi
economica. Mettere al governo una classe dirigente che distrugga davvero
le mafie è condizione di giustizia e base per una ripresa economica non
pagata dai più poveri.
Questa a me pare la sintesi del pensiero di Ingroia e non c’e dubbio
che essa individui uno dei nodi della crisi italiana. Il peso della
corruzione, della evasione fiscale, della criminalità nella nostra
economia è da tempo documentato.
Tuttavia non mi pare che questo possa essere sufficiente a motivare
una lista alternativa ai principali schieramenti ed in particolare a
Monti. Il quale ha nella sua agenda temi e proposte molto vicine a
quelle di Ingroia proprio su questo terreno.
L’attuale presidente del consiglio mette al centro del suo programma
liberista l’idea che in Italia una buona economia emergerà dalla
distruzione dell’economia corporativa e criminale. E non a caso
individua in Marchionne l’esempio imprenditoriale da esaltare sulla via
delle ”riforme’. Il liberismo è spesso criminale per i suoi risultati
sociali, ma chi lo propugna può proporsi di combattere l’economia
criminale.
Naturalmente Monti mette al primo posto della sua agenda la politica
di austerità, così come viene definita dai vincoli del fiscal compact,
del pareggio costituzionale di bilancio, dei trattati europei. La lotta
alla criminalità economica e mafiosa sarebbe ancora più stimolata da
questi vincoli, perché essi ci imporrebbero di trovare lì i soldi che
servono per lo sviluppo. Ingroia afferma di combattere il montismo, ma
perché allora non contesta questo punto che è il punto cardine di esso?
Perché nel suo discorso d’investitura è assente la critica ai vincoli
europei e del capitalismo internazionale, quello formalmente onesto?
A mio parere questo non avviene perché Ingroia pensa che la questione
sociale ed economica siano una derivata della questione criminale e che
basti essere rigorosi davvero e non a parole, per creare le condizioni
economiche per la giustizia e lo sviluppo. No non è così.
Per affrontare questa crisi economica da una punto di vista
alternativo a quello di Monti si deve programmare un gigantesco
intervento pubblico nell’economia e la rottura di tutti i vincoli
europei. O si segue questa strada oppure ci si deve affidare al mercato
magari regolato.
Non è un caso che il PD sia spiazzato dalla candidatura di Monti.
Perché ha sinora sostenuto una politica di mercato e non ha alcun
programma realmente alternativo ad essa.
Una politica del pubblico e dell’eguaglianza sociale richiede un
forte controllo democratico sull’economia. E qui diventa decisiva la
lotta a mafie e corruzione. Perché il liberismo si è sempre alimentato
con il corrompimento della classe politica.
Tutto il sistema delle partecipazioni statali è stato privatizzato
sventolando le tangenti e le mazzette dei manager pubblici e dei
politici che li controllavano. È lì che è nata la egemonia anche a
sinistra della ideologia del mercato come antidoto alla corruzione. Ma
come ci ha insegnato Bertold Brecht è più profittevole fondare una banca
che rapinarla.
Nella crisi attuale la priorità è la lotta alla disoccupazione ed al
super sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Questa la può fare
davvero solo il pubblico, e per questo il potere pubblico dev’essere
liberato dalla criminalità e dalla corruzione. Perché dobbiamo
affidargli una nuova politica economica e sociale.
Per me l’alternativa a Monti nasce dalla rottura con le politiche
liberiste Europee e con quella economia criminale amministrata dalla
Troika internazionale che ha distrutto la Grecia. Dove oggi trionfa
l’economia illegale. La questione sociale comanda sulla lotta alla
criminalità e non viceversa. Questa è la differenza di fondo tra la
lotta alle mafie dei liberali onesti e quella del movimento operaio
socialista e comunista. Una differenza ancora più vera oggi, se davvero
ci si vuol collocare su un fronte alternativo a tutto il quadro politico
liberista dominante.
lunedì 31 dicembre 2012
domenica 30 dicembre 2012
Cambiare si può - Due ragioni alternative -
di Guido Viale da soggettopoliticonuovo
Due sono le ragioni – per me e per altre decine di amici e compagni
che ho incontrato negli ultimi mesi, ma verosimilmente anche per decine
di migliaia di persone che si sono entusiasmate e poi spese per
proporre e sostenere la presentazione di una lista di cittadinanza
radicalmente alternativa all’agenda Monti – che ci hanno portato a
questo passo, pur consapevoli del fatto che si trattava e si tratta di
una scelta rischiosa.
La prima ragione è che all’interno dei vincoli dell’agenda Monti, accettati dal centro-sinistra, non è praticabile una politica di promozione o di sostegno dell’occupazione e del reddito della maggioranza della popolazione italiana; così come non è praticabile una politica di equità, di lotta al precariato, di reddito di cittadinanza, di difesa e potenziamento del welfare, della scuola e delle università pubbliche, della ricerca e della cultura.
Per non parlare di un programma di conversione ecologica per un effettivo contributo del nostro paese al contenimento sempre più urgente dei mutamenti climatici e una base produttiva e occupazionale sostenibile in mercati e contesti ambientali che presto saranno radicalmente diversi da quelli a cui siamo abituati.
Chi sostiene il contrario, come i firmatari di un appello per il “voto utile” reso noto alcuni giorni fa – tra cui Piero Bevilacqua, Paolo Leon, Mario Tronti e altri – o come Giorgio Airaudo o Giulio Marcon, che si sono aggiunti ai candidati di Sel, dovrebbero spiegare come pensano di promuovere anche solo una parte di quelle misure.
Come pensano di farlo senza mettere radicalmente in discussione non l’euro, non l’Unione europea, non il suo consolidamento, ma un quadro di vincoli che, con il pareggio in bilancio e il fiscal compact, imporrà all’Italia di sottrarre alle entrate fiscali 150 miliardi ogni anno per pagare gli interessi sul debito e i ratei ventennali della sua riduzione. Una modo in realtà c’è, ed è imbrogliare le carte come sta facendo Monti – in questo degno emulo di Berlusconi – il quale ha presentato una “agenda” tuttofare, che comprende riduzione delle tasse, aumento delle retribuzioni, finanziamenti a scuola università e ricerca pubbliche, reddito di cittadinanza (che per lui è «reddito di sopravvivenza»: una bella identificazione tra cittadinanza e sopravvivenza) e persino green economy. Bisognerebbe per lo meno chiedersi come mai in un anno non ha fatto e nemmeno impostato una qualsiasi di queste misure. Anche senza avere ancora a che fare con i tagli imposti dal fiscal compact…
La seconda ragione è che l’unico modo per attenuare il baratro e il disgusto che separano la classe politica – tutta – dai cittadini chiamati al voto è quella di presentare una lista totalmente nuova e alternativa, nel programma ma anche nelle candidature, pur all’interno dei vincoli imposti dalla mostruosa legge elettorale che in un anno di governo né Monti né i partiti che lo sostenevano hanno avuto la voglia o la capacità di cambiare.
Si è fatta molta retorica sulle primarie del centro-sinistra per la premiership e ora di Pd e Sel per una parte delle loro candidature; ma nessuna di queste pratiche restituisce alla cittadinanza e agli elettori che lo desiderano un ruolo attivo di orientamento e di controllo sul programma, o sull’operato dei loro rappresentanti in parlamento, o su quello del futuro governo. Per questo i promotori dell’appello cambiare#sipuò hanno proposto di spendersi per «un’iniziativa che parta dalle centinaia di migliaia di persone che nell’ultimo decennio si sono mobilitate in mille occasioni, dalla pace ai referendum, e che aggreghi movimenti, associazioni, singoli, pensionati, migranti in un progetto di rinnovamento delle modalità della rappresentanza che veda, tra l’altro, una effettiva parità dei sessi».
E’ evidente che i tempi a disposizione per la definizione e la presentazione della lista non consentono di portare a fondo questo progetto (ma non lo consentirebbero nemmeno se avessimo avuto a disposizione due mesi in più); ma è anche evidente che il modo in cui si affronta questo problema decide del carattere dell’intero progetto, che potrà essere perfezionato in corso d’opera (mi riferisco a tutto l’arco della prossima legislatura) se ci si atterrà a due regole fondamentali.
La prima è stata enunciata il 21 dicembre scorso da Antonio Ingroia nel prospettare la sua candidatura alla testa di una lista unitaria con le caratteristiche di una lista civica. Cioè, i partiti e le organizzazioni politiche che ne condividono le finalità devono fare «un passo avanti» per offrire al progetto il loro sostegno; poi devono fare «un passo di lato», per consentire che si facciano avanti gli esponenti delle lotte, delle iniziative, dei comitati che sono stati i protagonisti della resistenza e dell’opposizione sociale alle politiche governative degli ultimi anni; e, infine, devono fare «un passo indietro» per non caratterizzare in senso partitico questo tentativo (come è stato fatto invece con gli accordi di vertice che hanno portato al fallimento della lista Arcobaleno nel 2008).
La seconda regola è quella adottata dall’assemblea di cambiare#sipuò della provincia di Milano il 16 dicembre scorso: «L’assemblea ribadisce il valore del tentativo di mettere insieme dal basso, e senza vincoli di appartenenza, un primo insieme di persone, di organizzazioni e di forze che si riconoscono in un progetto comune e si impegna, quale che siano l’esito di questa iniziativa elettorale e i risultati conseguiti dalla lista, a riconvocarsi per consolidare e approfondire questo percorso unitario in vista delle battaglie politiche e sociali che ci attendono nei prossimi mesi e anni. Nel caso che la lista porti in parlamento degli eletti, l’assemblea si impegna ad affrontare insieme a loro le questioni in discussione e a costituire dei comitati di sostegno, composti da persone che abbiano competenze nelle materie trattate, per fornire agli eletti tutta l’assistenza necessaria».
Sappiamo che nel corso di molte delle assemblee convocate in tutta Italia da cambiare#sipuò tra il 14 e il 16 dicembre si sono verificati episodi di aperta e violenta contrapposizione che hanno poi trovato puntuale conferma nella presa in ostaggio della seconda parte dell’assemblea del 22 dicembre al Teatro Quirino di Roma da parte di numerosi membri e dirigenti del Prc. In queste assemblee non era e non è mai stato messo in discussione qualcuno dei punti programmatici, ma solo, in maniera a volte esplicita, a volte sottintesa, la modalità di selezione delle candidature.
Questo clima non ha fortunatamente caratterizzato l’assemblea di Milano, anche grazie al modo in cui ne è stata preparata e condotta la presidenza, alternando rigorosamente interventi di uomini e donne, parlando esclusivamente di politiche e rimandando al “dopo” la discussione sulle regole per la selezione delle candidature. Che l’atmosfera fosse positiva lo ho rilevato in un articolo (il manifesto 19-12) e non capisco che cosa mi rinfaccino i firmatari del comunicato “Cittadinanza attiva siamo anche noi”, pubblicato dal manifesto domenica scorsa. Quel “dopo”, comunque, deve ancora venire; perché grazie all’iniziativa di Antonio Ingroia, tra le organizzazioni politiche che sostengono il progetto di una lista unitaria antiliberista, si sono aggiunti al Prc diversi altri partiti, dall’Idv al PdC, dai Verdi al movimento arancione; e sono emerse come protagoniste del progetto molte organizzazioni i cui esponenti hanno sottoscritto l’appello cambiare#sipuò: non solo di Alba, ma anche della Lista civica nazionale, di Su la testa, di Alternativa e di altre ancora.
E’ evidente quindi che occorre trovare un accordo tra tutti nel rispetto delle regole che ho ricordato. Ma a dirimere molte delle incomprensioni che sono intervenute in questi ultimi giorni possono bastare, secondo me, le risposte a due domande, implicite nella mia precedente affermazione secondo cui cambiare#sipuò non è un taxi per portare in parlamento chi non riesce più ad andarci con le sue sole forze. Innanzitutto: a chi risponderanno del loro operato i parlamentari che verranno eletti nella lista unitaria? Ai partiti di appartenenza, se hanno un’appartenenza, o ai comitati che si sono formati e che si formeranno per sostenerli e accompagnarli nel loro percorso, prima e dopo l’elezione? La prima soluzione è la negazione degli impegni presi aderendo a cambiare#sipuò o a “Io ci sto”. La seconda offre la possibilità di mettere l’esperienza di chi ha già, o ha già avuto, importanti incarichi istituzionali o di direzione politica a disposizione dei nuovi arrivati, e di far loro da tutor: senza ricalcare il modello di una carriera politica precostituita che tanti danni ha già fatto. E poi, in attesa che vengano eliminati, come ci auguriamo, i “rimborsi elettorali” e gli altri emolumenti ingiustificati, che sono una delle cause della degenerazione della politica italiana – per essere sostituiti da forme di sostegno alla comunicazione politica paritarie e sostenute con fondi sottoposti a un pubblico rendiconto – a chi saranno destinate le risorse che “eccedono le esigenze del mantenimento e dello svolgimento del mandato” dei nuovi parlamentari? “Alle finalità che verranno loro indicate da queste assemblee”, come recita la mozione di Milano, o al mantenimento di una struttura partitica già esistente? Sappiamo che molti dei partiti che partecipano a questo progetto si sono retti utilizzando i rimborsi elettorali, in vigore, per quel che sappiamo, fino al 2011 anche per quelli che non erano più in parlamento. E’ stato un elemento di forte disparità nei confronti dei movimenti che si autofinanziano; una disparità che, da ora in poi, andrebbe comunque eliminata.
La prima ragione è che all’interno dei vincoli dell’agenda Monti, accettati dal centro-sinistra, non è praticabile una politica di promozione o di sostegno dell’occupazione e del reddito della maggioranza della popolazione italiana; così come non è praticabile una politica di equità, di lotta al precariato, di reddito di cittadinanza, di difesa e potenziamento del welfare, della scuola e delle università pubbliche, della ricerca e della cultura.
Per non parlare di un programma di conversione ecologica per un effettivo contributo del nostro paese al contenimento sempre più urgente dei mutamenti climatici e una base produttiva e occupazionale sostenibile in mercati e contesti ambientali che presto saranno radicalmente diversi da quelli a cui siamo abituati.
Chi sostiene il contrario, come i firmatari di un appello per il “voto utile” reso noto alcuni giorni fa – tra cui Piero Bevilacqua, Paolo Leon, Mario Tronti e altri – o come Giorgio Airaudo o Giulio Marcon, che si sono aggiunti ai candidati di Sel, dovrebbero spiegare come pensano di promuovere anche solo una parte di quelle misure.
Come pensano di farlo senza mettere radicalmente in discussione non l’euro, non l’Unione europea, non il suo consolidamento, ma un quadro di vincoli che, con il pareggio in bilancio e il fiscal compact, imporrà all’Italia di sottrarre alle entrate fiscali 150 miliardi ogni anno per pagare gli interessi sul debito e i ratei ventennali della sua riduzione. Una modo in realtà c’è, ed è imbrogliare le carte come sta facendo Monti – in questo degno emulo di Berlusconi – il quale ha presentato una “agenda” tuttofare, che comprende riduzione delle tasse, aumento delle retribuzioni, finanziamenti a scuola università e ricerca pubbliche, reddito di cittadinanza (che per lui è «reddito di sopravvivenza»: una bella identificazione tra cittadinanza e sopravvivenza) e persino green economy. Bisognerebbe per lo meno chiedersi come mai in un anno non ha fatto e nemmeno impostato una qualsiasi di queste misure. Anche senza avere ancora a che fare con i tagli imposti dal fiscal compact…
La seconda ragione è che l’unico modo per attenuare il baratro e il disgusto che separano la classe politica – tutta – dai cittadini chiamati al voto è quella di presentare una lista totalmente nuova e alternativa, nel programma ma anche nelle candidature, pur all’interno dei vincoli imposti dalla mostruosa legge elettorale che in un anno di governo né Monti né i partiti che lo sostenevano hanno avuto la voglia o la capacità di cambiare.
Si è fatta molta retorica sulle primarie del centro-sinistra per la premiership e ora di Pd e Sel per una parte delle loro candidature; ma nessuna di queste pratiche restituisce alla cittadinanza e agli elettori che lo desiderano un ruolo attivo di orientamento e di controllo sul programma, o sull’operato dei loro rappresentanti in parlamento, o su quello del futuro governo. Per questo i promotori dell’appello cambiare#sipuò hanno proposto di spendersi per «un’iniziativa che parta dalle centinaia di migliaia di persone che nell’ultimo decennio si sono mobilitate in mille occasioni, dalla pace ai referendum, e che aggreghi movimenti, associazioni, singoli, pensionati, migranti in un progetto di rinnovamento delle modalità della rappresentanza che veda, tra l’altro, una effettiva parità dei sessi».
E’ evidente che i tempi a disposizione per la definizione e la presentazione della lista non consentono di portare a fondo questo progetto (ma non lo consentirebbero nemmeno se avessimo avuto a disposizione due mesi in più); ma è anche evidente che il modo in cui si affronta questo problema decide del carattere dell’intero progetto, che potrà essere perfezionato in corso d’opera (mi riferisco a tutto l’arco della prossima legislatura) se ci si atterrà a due regole fondamentali.
La prima è stata enunciata il 21 dicembre scorso da Antonio Ingroia nel prospettare la sua candidatura alla testa di una lista unitaria con le caratteristiche di una lista civica. Cioè, i partiti e le organizzazioni politiche che ne condividono le finalità devono fare «un passo avanti» per offrire al progetto il loro sostegno; poi devono fare «un passo di lato», per consentire che si facciano avanti gli esponenti delle lotte, delle iniziative, dei comitati che sono stati i protagonisti della resistenza e dell’opposizione sociale alle politiche governative degli ultimi anni; e, infine, devono fare «un passo indietro» per non caratterizzare in senso partitico questo tentativo (come è stato fatto invece con gli accordi di vertice che hanno portato al fallimento della lista Arcobaleno nel 2008).
La seconda regola è quella adottata dall’assemblea di cambiare#sipuò della provincia di Milano il 16 dicembre scorso: «L’assemblea ribadisce il valore del tentativo di mettere insieme dal basso, e senza vincoli di appartenenza, un primo insieme di persone, di organizzazioni e di forze che si riconoscono in un progetto comune e si impegna, quale che siano l’esito di questa iniziativa elettorale e i risultati conseguiti dalla lista, a riconvocarsi per consolidare e approfondire questo percorso unitario in vista delle battaglie politiche e sociali che ci attendono nei prossimi mesi e anni. Nel caso che la lista porti in parlamento degli eletti, l’assemblea si impegna ad affrontare insieme a loro le questioni in discussione e a costituire dei comitati di sostegno, composti da persone che abbiano competenze nelle materie trattate, per fornire agli eletti tutta l’assistenza necessaria».
Sappiamo che nel corso di molte delle assemblee convocate in tutta Italia da cambiare#sipuò tra il 14 e il 16 dicembre si sono verificati episodi di aperta e violenta contrapposizione che hanno poi trovato puntuale conferma nella presa in ostaggio della seconda parte dell’assemblea del 22 dicembre al Teatro Quirino di Roma da parte di numerosi membri e dirigenti del Prc. In queste assemblee non era e non è mai stato messo in discussione qualcuno dei punti programmatici, ma solo, in maniera a volte esplicita, a volte sottintesa, la modalità di selezione delle candidature.
Questo clima non ha fortunatamente caratterizzato l’assemblea di Milano, anche grazie al modo in cui ne è stata preparata e condotta la presidenza, alternando rigorosamente interventi di uomini e donne, parlando esclusivamente di politiche e rimandando al “dopo” la discussione sulle regole per la selezione delle candidature. Che l’atmosfera fosse positiva lo ho rilevato in un articolo (il manifesto 19-12) e non capisco che cosa mi rinfaccino i firmatari del comunicato “Cittadinanza attiva siamo anche noi”, pubblicato dal manifesto domenica scorsa. Quel “dopo”, comunque, deve ancora venire; perché grazie all’iniziativa di Antonio Ingroia, tra le organizzazioni politiche che sostengono il progetto di una lista unitaria antiliberista, si sono aggiunti al Prc diversi altri partiti, dall’Idv al PdC, dai Verdi al movimento arancione; e sono emerse come protagoniste del progetto molte organizzazioni i cui esponenti hanno sottoscritto l’appello cambiare#sipuò: non solo di Alba, ma anche della Lista civica nazionale, di Su la testa, di Alternativa e di altre ancora.
E’ evidente quindi che occorre trovare un accordo tra tutti nel rispetto delle regole che ho ricordato. Ma a dirimere molte delle incomprensioni che sono intervenute in questi ultimi giorni possono bastare, secondo me, le risposte a due domande, implicite nella mia precedente affermazione secondo cui cambiare#sipuò non è un taxi per portare in parlamento chi non riesce più ad andarci con le sue sole forze. Innanzitutto: a chi risponderanno del loro operato i parlamentari che verranno eletti nella lista unitaria? Ai partiti di appartenenza, se hanno un’appartenenza, o ai comitati che si sono formati e che si formeranno per sostenerli e accompagnarli nel loro percorso, prima e dopo l’elezione? La prima soluzione è la negazione degli impegni presi aderendo a cambiare#sipuò o a “Io ci sto”. La seconda offre la possibilità di mettere l’esperienza di chi ha già, o ha già avuto, importanti incarichi istituzionali o di direzione politica a disposizione dei nuovi arrivati, e di far loro da tutor: senza ricalcare il modello di una carriera politica precostituita che tanti danni ha già fatto. E poi, in attesa che vengano eliminati, come ci auguriamo, i “rimborsi elettorali” e gli altri emolumenti ingiustificati, che sono una delle cause della degenerazione della politica italiana – per essere sostituiti da forme di sostegno alla comunicazione politica paritarie e sostenute con fondi sottoposti a un pubblico rendiconto – a chi saranno destinate le risorse che “eccedono le esigenze del mantenimento e dello svolgimento del mandato” dei nuovi parlamentari? “Alle finalità che verranno loro indicate da queste assemblee”, come recita la mozione di Milano, o al mantenimento di una struttura partitica già esistente? Sappiamo che molti dei partiti che partecipano a questo progetto si sono retti utilizzando i rimborsi elettorali, in vigore, per quel che sappiamo, fino al 2011 anche per quelli che non erano più in parlamento. E’ stato un elemento di forte disparità nei confronti dei movimenti che si autofinanziano; una disparità che, da ora in poi, andrebbe comunque eliminata.
giovedì 27 dicembre 2012
Agenda Monti
Augusto Illuminati (da Facebook)
«Cambiare mentalità, cambiare comportamenti». Confesso di aver provato un brivido di inquietudine leggendo siffatto titolo di paragrafo nell’agenda Monti (su traccia Ichino) testé divulgata, pochi giorni dopo la mancata fine maya del mondo e nel bel mezzo del sopore natalizio. Sarà che non mi piace che qualcuno voglia cambiare la mia mente, tanto meno i miei comportamenti. Ma chi cazzo siete per darmi questo suggerimento o peggio quest’ordine? Ma cambia tu modo di ragionare, visti i disastri che hai combinato. E per dirla tutta: non mi piace neppure la leggerezza con cui sentenzi ignorando ansie e sofferenze quotidiane della grande maggioranza e pretendendo una cambiale in bianco per governare ancora, dopo essere stato paracadutato senatore a vita e premier. Opinioni mie, d’accordo.
Però mi inquieta pure l’uso della parole, una specie di neo-lingua tecno-liberista della radical centrist politics («The Economist») che ricorda altri infausti e ilari eufemismi totalitari. «Modernizzazione del mercato del lavoro» è uno di questi, soprattutto se si collaziona tale promessa con le implementazioni suggerite: liberalizzazioni sfrenate, culto della competizione, smantellamento dei contratti nazionali di lavoro a favore di accordi aziendali, di cui abbiano avuto triste esperienza con le discriminazioni marchionnesche contro la Fiom. A leggere che si vogliono «ridurre le differenze fra lavoratori protetti e non», torna in mente la vecchia barzelletta sul devoto pellegrino che si reca a Lourdes con una mano paralizzata e invoca: Madonnina, fammele eguali, con il risultato che gli si paralizza l’altra…
Sarà pensar male, ma quando si afferma che «tutte le posizioni sono contendibili e non acquisite per sempre», si potrebbe ipotizzare che in pratica tutti siano licenziabili senza tante storie e la contesa per le posizioni si risolva con la vittoria di chi accetta un salario minore. Per non parlare dell’enfasi sul merito, accertato ai vari livelli attraverso le procedure Invalsi, Indire e Anvur, sì quelle dei quizzoni e di riviste parrocchiali, balneari e di suinicultura assurte a “scientifiche”. Che la dismissione del patrimonio pubblico riguardi poi in primo luogo quello storico-artistico, riprende con terminologia Cee la vendita della Fontana di Trevi immortalata da Totò o l’appalto del Colosseo a uno scarparo.
Il mondo non è finito il 21 dicembre 2012. O forse è finito nel senso che continua ad andare avanti come prima – il contrassegno della catastrofe secondo Walter Benjamin. Litigi di facciata ma accordo sostanziale di quanti giocano le diverse parti in commedia sulla scena politica, concordi a gestire con agende parallele una crisi di cui non sanno a venire a capo se non taglieggiando il 90% e riservando la polpa a gruppi ristretti di super-ricchi, con cospicue briciole al ceto politico e amministrativo di supporto. Che il true progressivism ci risparmi almeno le prediche.
Elezioni, ovvero bisticci di destra
di Tonino D’Orazio
Un Monti che propone di
continuare il massacro sociale e la privatizzazione del sociale di
tutto il paese, all’americana tra banche, fondazioni e
assicurazioni, sulla falsa riga di aver “salvato” il paese. Di
quale è tutto da scoprire dimostra l’Istat. Un Berlusconi che ha
approvato tramite la sua maggioranza in parlamento tutta l’agenda
Monti, ma che ora spudoratamente rinnega, o fa finta, come sua
costante abitudine. Anzi riparte su una proposta populista di sicuro
effetto: abolizione dell’Imu, dimenticando, come molti italiani,
che l’aveva personalmente reintrodotta in un decreto poco prima di
lasciare lo scellerato (così la pensano molti italiani poveri)
compito a Monti. Altra proposta, per la quale è stato rieletto
premier per ben tre legislature è quella della diminuzione delle
tasse. Probabilmente, in tempi del genere, non c’è tre senza
quattro, visto che ha aggiunto anche la diminuzione dell’Iva.
Una cordata di
imprenditori e banchieri che si stringe intorno a Monti, sceso in
campo politico perché da tecnico, fino ad adesso, aveva solo
scherzato. Una chiesa cattolica che chiede quasi esplicitamente al
suo apparato di sostenere Monti, temendo la minaccia diretta che
Berlusconi ha fatto in caso di ritorno al governo, sulla sua mancata
e simoniaca riconoscenza per i benefit ricevuti. Insomma la
rinascita di un centro “cattolico”, una nuova Democrazia
Cristiana, con l’inossidabile Casini, la Fiat in campo con
l’ineffabile Montezemolo, un gruppetto di ministri milionari che
hanno preso gusto alla poltrona, un Riccardi che traina tutta la
cooperazione sociale e internazionale dei giovani cattolici di
centro-destra, qualche fuoriuscita del Pdl (non a caso gli ex Dc di
lungo corso), un po’ di banchieri per dire alla finanza
anglo-sassone e tedesca che “non è finita” e qualche pezzo del
Pd, anche giovane, pronto a scivolarvi, lasciando Bersani con il
cerino in mano.
Una Lega disperata, tra
l’incudine di dover vincere e il martello di doverlo fare con
l’odiato Berlusconi degli ultimi mesi, anche se per diciotto anni è
andato tutto bene.
Con davanti un Berlusconi
che ricostruisce il suo marketing politico con tutti gli
strumenti mediatici a sua disposizione. Cioè tutti quelli nazionali,
televisioni di stato, televisioni personali e private, giornali,
riviste, sondaggi pilotati. Lo vedremo tutti i giorni a reti
unificate. Deve aver rimesso all’opera uno staff eccezionale
visto che alcuni bookmaker inglesi scommettono di nuovo sulla
sua rinnovata vittoria e la democratica stupidità degli italiani.
Bisogna riconosce che da
buon burattinaio ha utilizzato tutti, tramite la sua maggioranza in
parlamento, a spingere sia Monti, sia Napolitano che Alfano a
sostituirlo momentaneamente per poter ritornare più forte di prima.
Lo stesso Monti lo teme, visto che con il sostegno di Napolitano, che
fa finta di non aver capito che quando si è in scadenza si conta
poco e che il prossimo presidente tocca alla vera destra, cerca di
riunificare i gruppi parlamentari che lo hanno sostenuto in una
“lista per l’Italia”. Berlusconi dice che veramente è per la
Germania e che lo spread era una immensa e paurosa falsità,
allineandosi a quello che hanno sempre detto economisti di fama
mondiale e premi Nobel. Con una verità due piccioni. Proprio nel suo
stile: la verità può essere falsa e viceversa.
L’appello a unificarsi
intorno a questa lista, cioè a un “voto utile” contro il ritorno
del vendicativo Berlusconi spiazza anche il Pd che poteva farne di
nuovo la sua stessa solita rivendicazione in campagna elettorale. Ora
Bersani dovrebbe chiedere il “voto utile” sia contro Berlusconi
sia contro Monti. Con l’aggravante del sostegno senza se e senza
ma dato all’agenda del F.M.I. di Monti. Dovrebbe battere due
destre, in Italia, senza un programma alternativo? Con lo stesso
concetto e con i risultati ottenuti nel “mettere i conti a
posto” come il segretario del Pd Bersani e con lui molta parte
del gruppo dirigente CGIL continuano a ripetere o a pensare. Senza
nemmeno proporre di poter ritoccare le famigerate leggi sul disastro
della controriforma delle pensioni, della controriforma
dell’istruzione e del mercato del lavoro, del bilancio della
Repubblica italiana in mano alla BCE tedesca? Dopo averle accettate e
votate? Con un Napolitano che lo ammonisce chiedendo da mesi e da
garante che non si tocchi nulla all’impianto anti Stato,
antisociale (cioè contro il popolo sofferente) programmato per il
futuro e che anzi manca ancora la distruzione totale della sanità
pubblica, anche se già stata mangiata a pezzi? Anche se possono
voler dire anni e anni di disoccupazione e miseria, di ritorno a
condizioni di salute e di prospettiva di vita non più da primo
mondo, ma da terzo o quarto? Chi ristabilirà la democrazia nelle
fabbriche garantendo la libera rappresentanza di ogni componente
sindacale nel rispetto della Costituzione? Anzi chi ci garantirà la
forza egualitaria della Costituzione, quando sono tutti pronti a
modificarla e piegarla ai propri disegni politici, anche personali?
Qualcuno può ribadire che il lavoro non è una maledizione o
un’elargizione, ma un diritto oltre che una fondamentale dimensione
di realizzazione personale?
Programmi di
sgretolamento della Costituzione che Berlusconi ha già messo in
pratica da anni. Programmi che Monti, con l’aiuto di Napolitano, ha
fortemente rafforzato e accelerato in pochi mesi (ne vediamo tutti i
risultati), e che intende continuare, nessuno sa fino a dove,
aspettando la fase due. Alcuni politici no, il popolo sì lo ha
capito, con duro realismo. Per questo diventa terreno fecondo per
qualsiasi “populismo”. Quando si ha davanti nessuna speranza,
anzi una sadica continuità di misero futuro, o stupide promesse
ribadite e nemmeno rispettate da anni, come andare a votare con
proposte del genere? Cosa scegliere? Come all’Ilva di Taranto,
lavoro e morte insieme aspettando l’autoriforma del capitalismo?
Chi potrà rendere il
sistema politico più decente e presentabile, senza far cambiare
radicalmente di mano le leve del potere economico, delle decisioni
personalizzate e dell'assetto classista e profondamente ingiusto di
questa società? Ci hanno portati tutti alla conclusione e alla
convinzione che “non c’è alternativa”? Possibile che nessuno
ha proposte politiche serie e credibili per quel più di 50% di
cittadini, vera maggioranza elettorale silenziosa di questo paese,
che non va a votare?
Possibile che la sinistra
italiana continua a dividersi e a non accorparsi mai, lasciando il
campo libero alle destre grazie a un sistema elettorale che queste
ultime non avranno mai intenzione di cambiare? Per quanti anni o
legislature ancora?
Etichette:
BCE,
berlusconi,
Bersani,
Costituzione,
destra,
Elezioni,
Monti,
Napolitano,
Pd,
Pdl
mercoledì 26 dicembre 2012
Ingroia, come se ci fosse qualcosa di cui giustificarsi
di Matteo Pucciarelli da movimentoarancione.com
Antonio Ingroia si candida e nel farlo deve chiedere pure scusa.
Ovvio: dopo che per decenni abbiamo avuto come leader politici puttanieri, banchieri, ladri conclamati, gente in odore di mafia e burocrati che a 8 anni facevano i discorsi con presente Palmiro Togliatti, appena ti arriva una persona per bene – sulla cui onestà neanche il peggior nemico ha mai osato proferire parola – gli si domanda: «Oh ma sei diventato scemo?».
E allora Ingroia è lì, in balia di conduttori televisivi e commentatori diventati improvvisamente rigorosissimi, a doversi giustificare. Nel Paese delle controriforme, degli assassini che tornano a casa omaggiati dal Capo dello Stato, del pensiero unico dominante per cui dopo un anno di governo Monti tutti gli indici economici sono peggiorati eppure «Monti ha messo a posto i costi», delle grandi opere che vanno fatte per forza ma nessuno ha capito perché, dei grandi manager osannati come eroi e che poi si rifanno sulla pelle degli operai non rispettando le sentenze, ecco in questo Paese un magistrato che ha portato avanti le proprie idee senza girarsi dall’altra parte – le idee della nostra Costituzione – passa per un sovversivo.
Ed è vero, probabilmente: Ingroia è un sovversivo rispetto all’Italia che ci troviamo davanti. Dove la destra è in balia di un vecchio e schizofrenico miliardario, dove il centro è in balia come sempre dei voleri del Vaticano – scusi, ma l’Imu? – e dove la sinistra è in balia dei dettami neoliberisti di Bruxelles, tacciati per impegni irrinunciabili: tagli al welfare e ciao.
L’Italia dei normali invece chiede impegni veri e forti per combattere l’evasione e la corruzione; l’Italia dei normali sa che il 10 per cento della popolazione detiene il 50 per cento della ricchezza e forse accanirsi con pensionati e precarie non è eticamente corretto; non chiede missioni militari ma diritti sociali e civili; l’Italia dei normali pretende il lavoro per tutti, un lavoro dignitoso, e lo pretende giustamente perché è su quello che si fonda la nostra Costituzione.
Per questo, nel Paese del mondo alla rovescia camminare in direzione ostinata e contraria non è un vezzo. È un dovere.
PS. Silvio Berlusconi è stato premier tre volte dopo essersi misurato con il voto, per fortuna e purtroppo. Monti vuol esserlo la seconda volta, e anche questa senza candidarsi. Nel Paese alla rovescia succede, e succede con estrema naturalezza.
da MicroMega del 23-12-2012
Antonio Ingroia si candida e nel farlo deve chiedere pure scusa.
Ovvio: dopo che per decenni abbiamo avuto come leader politici puttanieri, banchieri, ladri conclamati, gente in odore di mafia e burocrati che a 8 anni facevano i discorsi con presente Palmiro Togliatti, appena ti arriva una persona per bene – sulla cui onestà neanche il peggior nemico ha mai osato proferire parola – gli si domanda: «Oh ma sei diventato scemo?».
E allora Ingroia è lì, in balia di conduttori televisivi e commentatori diventati improvvisamente rigorosissimi, a doversi giustificare. Nel Paese delle controriforme, degli assassini che tornano a casa omaggiati dal Capo dello Stato, del pensiero unico dominante per cui dopo un anno di governo Monti tutti gli indici economici sono peggiorati eppure «Monti ha messo a posto i costi», delle grandi opere che vanno fatte per forza ma nessuno ha capito perché, dei grandi manager osannati come eroi e che poi si rifanno sulla pelle degli operai non rispettando le sentenze, ecco in questo Paese un magistrato che ha portato avanti le proprie idee senza girarsi dall’altra parte – le idee della nostra Costituzione – passa per un sovversivo.
Ed è vero, probabilmente: Ingroia è un sovversivo rispetto all’Italia che ci troviamo davanti. Dove la destra è in balia di un vecchio e schizofrenico miliardario, dove il centro è in balia come sempre dei voleri del Vaticano – scusi, ma l’Imu? – e dove la sinistra è in balia dei dettami neoliberisti di Bruxelles, tacciati per impegni irrinunciabili: tagli al welfare e ciao.
L’Italia dei normali invece chiede impegni veri e forti per combattere l’evasione e la corruzione; l’Italia dei normali sa che il 10 per cento della popolazione detiene il 50 per cento della ricchezza e forse accanirsi con pensionati e precarie non è eticamente corretto; non chiede missioni militari ma diritti sociali e civili; l’Italia dei normali pretende il lavoro per tutti, un lavoro dignitoso, e lo pretende giustamente perché è su quello che si fonda la nostra Costituzione.
Per questo, nel Paese del mondo alla rovescia camminare in direzione ostinata e contraria non è un vezzo. È un dovere.
PS. Silvio Berlusconi è stato premier tre volte dopo essersi misurato con il voto, per fortuna e purtroppo. Monti vuol esserlo la seconda volta, e anche questa senza candidarsi. Nel Paese alla rovescia succede, e succede con estrema naturalezza.
da MicroMega del 23-12-2012
lunedì 24 dicembre 2012
Ingroia, Grillo, Bersani: Il Buono, il Brutto, il Cattivo.
di Franco Cilli
La cosa migliore sarebbe stata quella
di vedere la nascita di un soggetto unico della società civile, che
dentro un unica cornice fosse riuscito a contenere un bestiario
variopinto e berciante, ma capace di agire come un sol uomo al
momento giusto. Né Grillo né Ingroia che marciano divisi nella
speranza di lanciarsi segnali di fumo, ma un unico simbolo di
riscossa democratica. Utopia per il momento, ma un dì verrà, è
inevitabile, ne va della nostra sopravvivenza. Quando la storia avrà
finalmente assolto al suo ruolo catartico e avrà spazzato via
personalismi e contenuti privati della relazione, i cui fraseggi
hanno l'unico scopo di misurare il proprio ego, anteponendoli
all'interesse comune e all'altruismo, allora saremo uniti. Forse. Da
parte mia, come tutti gli sciocchi che non conoscono le sottigliezze
e i sotterfugi della politica, ho da sempre lottato per l'unità di
coloro che hanno a cuore la politica come bene comune. Anche Grillo e
i grillini, che ho seguito dagli esordi con curiosità e molti dubbi,
mi sembrava potessero fare massa con gli altri. Certo con Grillo ho
passato tutte gli stadi del percorso della consapevolezza,
dall'interesse, alla valutazione “obiettiva e distaccata”, fino
al ripudio, per poi tornare indietro sui miei passi ed approdare
finalmente ad una valutazione realistica e più “politica” del
suo agire. D'accordo, si dirà le discriminanti esistono: si può non
dare valore discriminante a certe frasi razziste del comico genovese,
a certe allusioni poco correct nei confronti di certi
avversari politici? Si può dare per buono il fatto che riesca a
parlare a tutti i segmenti della società, dicendo a ciascuno,
leghista o ambientalista o operaio incazzato o giustizialista, ciò
che ciascuno si aspetta di sentirsi dire? Non so, ma mi riesce
difficile pensare che singole frasi possano rappresentare l'essenza
di un movimento così composito e generalmente democratico e che
possano avere significati tali da svelarne l'intima natura
reazionaria e fascistoide. Grillo il brutto, ma dai grandi numeri,
Grillo il re delle folle giustamente indignate e incazzate, protese
verso l'ennesimo messia. Con lui Ingroia vuole dialogare e fa bene, è
l'atteggiamento saggio e giusto di chi non vuole vivere in una
riserva, ma vuole conquistarsi una nazione. Questo è lo spirito
giusto, purché sia sincero, o perlomeno abbastanza sincero.
Sono ormai fermamente convinto che
quando andrò alle urne avrò dovuto digerire bocconi amari da parte
dei miei: ambiguità, democrazia sbandierata e mai realmente
praticata, doppiezze togliattiane mai sopite, candidati imposti ecc.
Ma lo farò, ingoierò il rospo, no favorirò divisioni e frazionismi, ben sapendo che il mondo non è
perfetto e che comunque vadano le cose, il saldo finale sarà
positivo, perché dall'altra parte, dalla parte dei Bersani, dei
Vendola, dei Monti e dei Berlusconi, la risultante non potrà che
essere assolutamente negativa. Non si tratta di differenze in termini
quantitativi, ma di una netta separazione delle dimensioni di senso.
Qui si che possiamo essere manichei o aristotelici se preferite: chi
dice non A quando noi diciamo A per significare bene comune, non può
stare nel nostro insieme. Ciò significa che quando Ingroia nomina la
parola dialogo dobbiamo consideralo un tradimento? No. Come ho già
detto e come mi sembra sia logico supporre, il dialogo in politica è
un obbligo, l'alleanza no. E qui sta il punto. Ciò che chiediamo a
questo nuovo soggetto arancione è la chiarezza, niente alleanze con
chi ha sostenuto l'agenda Monti ed è stato complice del suo
massacro. Convergenze con il Pd ce ne potranno anche essere su
singoli punti, ma niente alleanze, nessuna omologia, sarebbe
contro-natura.
domenica 23 dicembre 2012
Il Buon Anno di Monti
da ComeDonChisciotte
A tutti si concede la frase "Ha fatto almeno questo..". L'onore delle armi. Anche il critico più feroce riconosce alla sua vittima un piccolo insignificante merito. Mussolini ha almeno prosciugato le paludi pontine. Nerone ha almeno costruito la Domus Aurea. Brunetta almeno conosce la ricetta originale della pasta e fagioli (http://www.youtube.com/watch?v=Qnsox6I6J5k ). Berlusconi ha almeno evitato il carcere.
Berlusconi ha almeno evitato il carcere. Fassino aveva almeno una banca. D'Alema ha almeno una barca. Scalfari ha almeno scassato i cosiddetti per quarant'anni filati con i suoi editoriali. Mastella ha almeno una piscina a forma di cozza. Tutti hanno un almeno, anche i più sfigati. Un "almeno" nel proprio curriculum serve per evitare la "damnatio memoriae ( http://it.wikipedia.org/wiki/Damnatio_memoriae ) ", la cancellazione dalla memoria collettiva e la distruzione di ogni traccia che possa essere tramandata ai posteri. Mi sono chiesto quale fosse l'almeno di Rigor Montis, il dimissionario extraparlamentare. Ho pensato allo spread, il suo unico alibi governativo, ma lo spread non si è turbato più che tanto dalla sua prossima dipartita e neppure i titoli di Stato (http://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITL5E8NC8ZL20121212 ) che anzi chiudono in rialzo.
Certo, lo ammetto, sono leggermente prevenuto dopo una debacle degna di Caporetto, con disoccupazione, debito, tassazione alle stelle e aziende che muoiono come le mosche d'inverno e il PIL che sprofonda. Ho pensato quindi che l'almeno di Monti fosse la sua reputazione internazionale, nessuno è profeta in patria. Vederlo abbracciato spesso alla Merkel e a Hollande come a due salvagenti personali era più che un indizio di almeno. Ho letto per conferma il Financial Times (http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e0f245ac-4219-11e2-bb3a-00144feabdc0.html#axzz2Eb0xuytC ) a firma Wolfgang Munchau "L'anno di Monti è stato una bolla, buona per gli investitori finché è durata. E probabilmente gli italiani e gli investitori stranieri non ci metteranno molto a capire che ben poco è cambiato nel corso dell'ultimo anno, ad eccezione che l'economia è caduta in una profonda depressione. Due cose devono essere sistemate in Italia, la prima è invertire immediatamente l'austerità, in sostanza smantellare il lavoro di Monti... la seconda è scendere in campo contro Angela Merkel...". Forse il FT è di parte, troppo di sinistra. Ho dato una scorsa al New York Times, un articolo (http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/12/11/bleeding-europe/ ) di Paul Krugman "Tecnocrati "responsabili" costringono le nazioni ad accettare la medicina amara dell'austerità, l'ultimo caso è l'Italia dove Monti lascia in anticipo, fondamentalmente per aver portato l'Italia in depressione economica".
Il NYT deve essere comunista. Sono passato a sfogliare il Daily Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/9735757/Mario-Montis-exit-is-only-way-to-save-Italy.html ) "Monti ha portato l'inasprimento fiscale al 3,2% del Pil quest'anno: tre volte la dose terapeutica. Non vi è alcuna ragione economica per farlo. L'Italia ha avuto infatti un budget vicino al saldo primari nel corso degli ultimi sei anni". Maoista! Forse però un almeno lo ha anche Monti. Almeno si toglie dalle balle. Ci vediamo in Parlamento. O fuori o dentro. Sarà un piacere.
Fonte: beppegrillo.it
A tutti si concede la frase "Ha fatto almeno questo..". L'onore delle armi. Anche il critico più feroce riconosce alla sua vittima un piccolo insignificante merito. Mussolini ha almeno prosciugato le paludi pontine. Nerone ha almeno costruito la Domus Aurea. Brunetta almeno conosce la ricetta originale della pasta e fagioli (http://www.youtube.com/watch?v=Qnsox6I6J5k ). Berlusconi ha almeno evitato il carcere.
Berlusconi ha almeno evitato il carcere. Fassino aveva almeno una banca. D'Alema ha almeno una barca. Scalfari ha almeno scassato i cosiddetti per quarant'anni filati con i suoi editoriali. Mastella ha almeno una piscina a forma di cozza. Tutti hanno un almeno, anche i più sfigati. Un "almeno" nel proprio curriculum serve per evitare la "damnatio memoriae ( http://it.wikipedia.org/wiki/Damnatio_memoriae ) ", la cancellazione dalla memoria collettiva e la distruzione di ogni traccia che possa essere tramandata ai posteri. Mi sono chiesto quale fosse l'almeno di Rigor Montis, il dimissionario extraparlamentare. Ho pensato allo spread, il suo unico alibi governativo, ma lo spread non si è turbato più che tanto dalla sua prossima dipartita e neppure i titoli di Stato (http://it.reuters.com/article/itEuroRpt/idITL5E8NC8ZL20121212 ) che anzi chiudono in rialzo.
Certo, lo ammetto, sono leggermente prevenuto dopo una debacle degna di Caporetto, con disoccupazione, debito, tassazione alle stelle e aziende che muoiono come le mosche d'inverno e il PIL che sprofonda. Ho pensato quindi che l'almeno di Monti fosse la sua reputazione internazionale, nessuno è profeta in patria. Vederlo abbracciato spesso alla Merkel e a Hollande come a due salvagenti personali era più che un indizio di almeno. Ho letto per conferma il Financial Times (http://www.ft.com/intl/cms/s/0/e0f245ac-4219-11e2-bb3a-00144feabdc0.html#axzz2Eb0xuytC ) a firma Wolfgang Munchau "L'anno di Monti è stato una bolla, buona per gli investitori finché è durata. E probabilmente gli italiani e gli investitori stranieri non ci metteranno molto a capire che ben poco è cambiato nel corso dell'ultimo anno, ad eccezione che l'economia è caduta in una profonda depressione. Due cose devono essere sistemate in Italia, la prima è invertire immediatamente l'austerità, in sostanza smantellare il lavoro di Monti... la seconda è scendere in campo contro Angela Merkel...". Forse il FT è di parte, troppo di sinistra. Ho dato una scorsa al New York Times, un articolo (http://krugman.blogs.nytimes.com/2012/12/11/bleeding-europe/ ) di Paul Krugman "Tecnocrati "responsabili" costringono le nazioni ad accettare la medicina amara dell'austerità, l'ultimo caso è l'Italia dove Monti lascia in anticipo, fondamentalmente per aver portato l'Italia in depressione economica".
Il NYT deve essere comunista. Sono passato a sfogliare il Daily Telegraph (http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/ambroseevans_pritchard/9735757/Mario-Montis-exit-is-only-way-to-save-Italy.html ) "Monti ha portato l'inasprimento fiscale al 3,2% del Pil quest'anno: tre volte la dose terapeutica. Non vi è alcuna ragione economica per farlo. L'Italia ha avuto infatti un budget vicino al saldo primari nel corso degli ultimi sei anni". Maoista! Forse però un almeno lo ha anche Monti. Almeno si toglie dalle balle. Ci vediamo in Parlamento. O fuori o dentro. Sarà un piacere.
Fonte: beppegrillo.it
mercoledì 19 dicembre 2012
I robot non fanno la spesa
di
Peter Radford (dal Real-World
Economics Review Blog)
traduzione
di Domenico D'Amico
Visto
che Washington e l'industria dei media sono totalmente assorbiti dal
fiscal cliff [1], il resto di noi può tranquillamente sedersi
e tirare avanti a campare. Possiamo anche cominciare a discutere dei
fattori che hanno veramente eroso l'economia. Alcuni hanno appena
notato che l'equilibrio tra profitti e salari è completamente fuori
scala. E di molto. Talmente fuori che il nostro futuro dipende dal
concepire una strada per ritrovare un equilibrio migliore.
Si
tratta di un concetto di cui ho trattato diverse volte negli ultimi
anni. Permettetemi una sintesi:
Per
un lungo periodo dopo la II Guerra Mondiale, almeno fino alla fine
degli anni 70, operava negli USA un “contratto sociale” non
scritto ma chiaro.
Partigiani della costituzione
di Alberto Lucarelli da lavorincorsoasinistra
Per ritrovare un’autentica passione nella politica, in grado di interpretare il senso della vita pubblica e della partecipazione democratica, e rilanciare con forza i valori che vi sono connessi, dobbiamo trasformarci in partigiani capaci di declinare, nei diritti e nei doveri, lo spirito autentico della Costituzione.
Diritti, principi, valori: vogliamo difendere la Costituzione in tutti i suoi modi e lo vogliamo fare non con sobrietà ma con passione, entusiasmo, felicità. Difendere la Costituzione da un gruppo di tecnocrati che ha devastato i principi costituzionali, al solo scopo di attuare il memorandum imposto dalla troika Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.
Quindi l’Europa delle banche e dei banchieri.
Cambiare si può, individuando tutti quegli aspetti che sono oggettivamente in contrapposizione con quello che ci sta proponendo un gruppo trasversale di interessi e di poteri che parte da Bersani, che passa attraverso Monti, Montezemolo,ed arriva al populismo riemergente di Silvio Berlusconi.
Cambiare si può e lo sanno comitati, movimenti, associazioni: tutto un mondo straordinario in costante fermento. E’ lo stesso magma che ho sentito nel giugno 2011, quando una maggioranza di 27 milioni di cittadini ha votato contro il saccheggio dei beni comuni. E non si trattava unicamente di un referendum a difesa dei servizi pubblici locali, ma della prima consistente presa di coscienza collettiva di un saccheggio dei nostri beni, del nostra patrimonio pubblico, della nostra identità comune.
In questo percorso si sono costruite sinergie e confronti: dai compagni di Rifondazione ai militanti do Italia dei Valori, agli amici di SEL – e sono tanti – che non si riconoscono nella “carta di intenti” di Bersani. Insomma, a tutte quelle persone che con la schiena dritta, come dice Luigi de Magistris, hanno combattuto battaglie difficili: penso ai compagni della FIOM ed alle persone per bene impegnate in SEL e nel PD. La bagarre mediatica di primarie calate dall’alto, che non hanno nulla a che vedere con la democrazia partecipativa, ha per alcuni giorni alimentato l’attenzione dei giornali, ma non è quella la democrazia partecipativa che vogliamo.
Non posso immaginare e credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato tacitamente la riforma Fornero e lo stravolgimento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; non posso credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato supinamente l’approvazione dell’art. 8 della legge Sacconi che mortifica i diritti dei lavoratori; non posso e non voglio credere che una maggioranza di italiani abbia accettato la distruzione dello Stato sociale modificando e calpestando l’art. 81 della Costituzione; non posso credere che la maggioranza di italiani voglia un’Europa tecnocratica gestita dal Fondo Monetario Internazionale, da alcuni componenti della Commissione Europea, dalla BCE… Noi vogliamo un’ Europa dei diritti promossa dal basso, inclusiva, vogliamo un processo costituente, con un’Assemblea che quanto prima elegga un Parlamento in grado di ridisegnare i rapporti di forza e tutelare l’Europa politica e sociale così come era stata delineata nel suo progetto originario.
Non posso e non voglio credere che la maggioranza di italiani voglia cacciabombardieri, invece di scuole e asili nido, carri armati invece di diritti sociali; che voglia che i diritti sociali si debbano comprare, che le famiglie debbano pagare per le scuole, per l’università, per la sanità. Non credo che la maggioranza degli italiani sia disposta a questo, non credo che ci sia una maggioranza disposta a cadere nella trappola della contrapposizione tra diritto alla salute contro diritto al lavoro, come hanno tentato di farci credere per l’Ilva di Taranto. Non credo che ci sia una maggioranza di italiani che voglia grandi opere pubbliche, inutili e costose, come la TAV, il Dal Molin, il ponte sullo Stretto di Messina; credo, piuttosto, che ci sia una maggioranza che voglia opere ordinarie, non eventi straordinari che servono solo a sperperare il denaro pubblico. Ed allora questione morale e sociale devono camminare congiuntamente! Perché o si ha il coraggio di affrontare insieme questione morale e questione sociale oppure il rischio è quello di restare ancora subordinati a poteri forti, a lobby, cricche affaristiche trasversali, alla borghesia mafiosa che si annida nelle società pubbliche, che fa clientele, che condiziona i poteri all’interno di una Pubblica amministrazione troppe volte né autonoma nè indipendente.
La nostra è una Carta dei diritti, non dei privilegi, né delle rendite! Cambiare si può, anche ripartendo dai partiti, come intesi da Gramsci e Berlinguer, e non come degenerati nel tempo, mortificando la formula dell’art. 49 della Costituzione, che afferma che “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Cambiare si può, con la consapevolezza che, in relazione ai suddetti contenuti, siamo maggioranza. E’ il momento di condividere questi contenuti, nuovi metodi e forme della politica, di essere disposti a cancellare rendite di posizione, cedere porzioni di sovranità e mettersi alla pari con tutti, forze politiche strutturate e non, comitati, movimenti, associazioni, per la grande battaglia di partigiani a difesa della Costituzione.
Per ritrovare un’autentica passione nella politica, in grado di interpretare il senso della vita pubblica e della partecipazione democratica, e rilanciare con forza i valori che vi sono connessi, dobbiamo trasformarci in partigiani capaci di declinare, nei diritti e nei doveri, lo spirito autentico della Costituzione.
Diritti, principi, valori: vogliamo difendere la Costituzione in tutti i suoi modi e lo vogliamo fare non con sobrietà ma con passione, entusiasmo, felicità. Difendere la Costituzione da un gruppo di tecnocrati che ha devastato i principi costituzionali, al solo scopo di attuare il memorandum imposto dalla troika Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale.
Quindi l’Europa delle banche e dei banchieri.
Cambiare si può, individuando tutti quegli aspetti che sono oggettivamente in contrapposizione con quello che ci sta proponendo un gruppo trasversale di interessi e di poteri che parte da Bersani, che passa attraverso Monti, Montezemolo,ed arriva al populismo riemergente di Silvio Berlusconi.
Cambiare si può e lo sanno comitati, movimenti, associazioni: tutto un mondo straordinario in costante fermento. E’ lo stesso magma che ho sentito nel giugno 2011, quando una maggioranza di 27 milioni di cittadini ha votato contro il saccheggio dei beni comuni. E non si trattava unicamente di un referendum a difesa dei servizi pubblici locali, ma della prima consistente presa di coscienza collettiva di un saccheggio dei nostri beni, del nostra patrimonio pubblico, della nostra identità comune.
In questo percorso si sono costruite sinergie e confronti: dai compagni di Rifondazione ai militanti do Italia dei Valori, agli amici di SEL – e sono tanti – che non si riconoscono nella “carta di intenti” di Bersani. Insomma, a tutte quelle persone che con la schiena dritta, come dice Luigi de Magistris, hanno combattuto battaglie difficili: penso ai compagni della FIOM ed alle persone per bene impegnate in SEL e nel PD. La bagarre mediatica di primarie calate dall’alto, che non hanno nulla a che vedere con la democrazia partecipativa, ha per alcuni giorni alimentato l’attenzione dei giornali, ma non è quella la democrazia partecipativa che vogliamo.
Non posso immaginare e credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato tacitamente la riforma Fornero e lo stravolgimento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori; non posso credere che ci sia una maggioranza di italiani che abbia accettato supinamente l’approvazione dell’art. 8 della legge Sacconi che mortifica i diritti dei lavoratori; non posso e non voglio credere che una maggioranza di italiani abbia accettato la distruzione dello Stato sociale modificando e calpestando l’art. 81 della Costituzione; non posso credere che la maggioranza di italiani voglia un’Europa tecnocratica gestita dal Fondo Monetario Internazionale, da alcuni componenti della Commissione Europea, dalla BCE… Noi vogliamo un’ Europa dei diritti promossa dal basso, inclusiva, vogliamo un processo costituente, con un’Assemblea che quanto prima elegga un Parlamento in grado di ridisegnare i rapporti di forza e tutelare l’Europa politica e sociale così come era stata delineata nel suo progetto originario.
Non posso e non voglio credere che la maggioranza di italiani voglia cacciabombardieri, invece di scuole e asili nido, carri armati invece di diritti sociali; che voglia che i diritti sociali si debbano comprare, che le famiglie debbano pagare per le scuole, per l’università, per la sanità. Non credo che la maggioranza degli italiani sia disposta a questo, non credo che ci sia una maggioranza disposta a cadere nella trappola della contrapposizione tra diritto alla salute contro diritto al lavoro, come hanno tentato di farci credere per l’Ilva di Taranto. Non credo che ci sia una maggioranza di italiani che voglia grandi opere pubbliche, inutili e costose, come la TAV, il Dal Molin, il ponte sullo Stretto di Messina; credo, piuttosto, che ci sia una maggioranza che voglia opere ordinarie, non eventi straordinari che servono solo a sperperare il denaro pubblico. Ed allora questione morale e sociale devono camminare congiuntamente! Perché o si ha il coraggio di affrontare insieme questione morale e questione sociale oppure il rischio è quello di restare ancora subordinati a poteri forti, a lobby, cricche affaristiche trasversali, alla borghesia mafiosa che si annida nelle società pubbliche, che fa clientele, che condiziona i poteri all’interno di una Pubblica amministrazione troppe volte né autonoma nè indipendente.
La nostra è una Carta dei diritti, non dei privilegi, né delle rendite! Cambiare si può, anche ripartendo dai partiti, come intesi da Gramsci e Berlinguer, e non come degenerati nel tempo, mortificando la formula dell’art. 49 della Costituzione, che afferma che “tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi liberamente per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Cambiare si può, con la consapevolezza che, in relazione ai suddetti contenuti, siamo maggioranza. E’ il momento di condividere questi contenuti, nuovi metodi e forme della politica, di essere disposti a cancellare rendite di posizione, cedere porzioni di sovranità e mettersi alla pari con tutti, forze politiche strutturate e non, comitati, movimenti, associazioni, per la grande battaglia di partigiani a difesa della Costituzione.
«Cambiare si può» non è un taxi
di Guido Viale da soggettopoliticonuovo
Avevo detto – all’assemblea milanese convocata dai promotori dell’appello cambiaresipuò: secondo me un successo, quasi seicento presenze, molta attenzione, un dibattito ricco, una mozione molto impegnativa, che a parte alcune richieste di integrazioni, ha unito tutti – che quella proposta elettorale non può essere un taxi per portare in parlamento politici e partiti tradizionali che non hanno più la forza e il seguito per andarci da soli, con le loro identità logorate da un passato che li ha messi alle corde.
Ma che ora su quel taxi ci vorrebbero salire, magari anche solo per portare acqua al centro-sinistra, rispetto a cui i promotori di cambiaresipuò hanno invece fin dall’inizio dichiarato di voler rappresentare una alternativa radicale.
Cambiaresipuò, soprattutto visto il tempo a disposizione che ha bruciato la possibilità di un processo di costruzione della lista sufficientemente ampio e partecipato, è una zattera troppo fragile per sostenere senza affondare il peso dei dinosauri che hanno deciso di imbarcarsi sopra di essa. Se restassero a riva, aiutandola e sostenendola nel suo viaggio, sarebbero i benvenuti; ma una volta a bordo – da Di Pietro a Diliberto, da Ferrero a Bonelli, con relativi seguiti – rischiano di occupare tutto lo spazio disponibile, quali che siano le loro dichiarazioni di principio (di cui, peraltro, in molte delle assemblee svoltesi finora – non quella di Milano – hanno dimostrato di tenere ben poco conto). Lasciando così le candidature espresse dai movimenti, dai comitati, dagli studenti, dai Gas, dalle fabbriche in lotta, che dovrebbero risultare la ragion d’essere di questa lista, in un ruolo di pura facciata.
Anche i 10 punti sottoscritti da Ingroia, Orlando e De Magistris soprassiedono a quella che è la vera discriminante che ha spinto molti di noi a spendersi per il progetto cambiaresipuò, cioè la necessità di una radicale revisione delle politiche di austerity promosse da Bce e Commissione europea; le quali politiche, in tutti i paesi dell’Europa mediterranea, sono il cappio messo al collo dell’occupazione e del reddito dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati, dei servizi sociali – scuola, sanità, Università, ricerca, cultura, housing – dei servizi pubblici locali, del patrimonio pubblico, condannati alla privatizzazione in nome del patto di stabilità. Con la conseguenza di condurci tutti verso quel destino di sfacelo economico, sociale, ambientale, politico e della convivenza civile a cui la cosiddetta Troika ha già condannato la Grecia. Di questa “dimenticanza” le aperture verso il centro-sinistra e, di conseguenza, verso un governo allineato sulla realizzazione della cosiddetta “agenda Monti”, non sono che un logico risvolto. E forse sono anche una delle ragioni di fondo della incapacità dei firmatari di quei 10 punti di misurarsi con un progetto di radicale rinnovamento dei comportamenti politici, e della scelta di trattare il progetto cambiaresipuò, duole dirlo, un po’ troppo come “cosa loro”. Senza nemmeno sentire il bisogno di metterne i promotori a parte delle loro decisioni, fino a che non le hanno sapute dai media. E delegando tutto a un’assemblea improvvisata, convocata a ridosso di quella che cambiaresipuò ha invece indetto a conclusione di un percorso durato oltre un mese, e dopo una consultazione sviluppata in tutto il paese con più di cento assemblee locali.
Certamente questa corsa a imbarcarsi sulla lista arancione, che fin dall’inizio si è presentata come partner di cambiaresipuò e che ora funge invece da passepartout per l’ingresso nella lista comune, è un segno e una conseguenza del riscontro che la nostra proposta ha riscosso in vastissimi strati della popolazione; e che molto di più ne potrebbe riscuotere mano a mano che avanzano, pur nei tempi stretti della scadenza elettorale, la crisi del movimento cinque stelle, finalmente rivelatosi proprietà privata di un leader e di una struttura aziendale; ma anche quella del Pd, che dopo l’apparente “trionfo” delle primarie, si trova a dover competere con l’ingombrante figura di Monti, che proprio il Pd ha contribuito a edificare nel corso dell’ultimo anno. Per non parlare dei partiti della residua sinistra, non a caso impegnati in una corsa al si salvi chi può. Ma il modo di fare è in questo campo sostanza; una vera alternativa di respiro generale al montismo, che aspiri a iniziare un percorso, certo non breve, in direzione della conquista della maggioranza in tutto il paese, richiede un approccio molto più attento alle condizioni necessarie per ottenere il sostegno del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva a cui si rivolge.
A mio avviso – parlo a titolo personale, ma so che molti dei promotori della lista e di molte organizzazioni che hanno aderito con entusiasmo a questo progetto la pensano allo stesso modo – questo modo di fare tradisce tutte le premesse su cui, anche nella morsa imposta dai tempi strettissimi della presentazione delle liste, è nato il progetto cambiaresipuò e sono cresciute nel paese le aspettative che esso sta suscitando. Mi auguro che le assemblee del 21 e del 22 dicembre (cambiaresipuò) confermino quel “passo indietro” dei leader di partito e di quel che resta dei loro apparati organizzativi che i promotori del manifesto cambiaresipuò hanno sempre proposto, suggerendo loro di aggregarsi in un comitato di sostegno e non in una occupazione delle liste. Diversamente potrebbe diventare improponibile – per lo meno per me – la prosecuzione di un percorso comune. Non abbiamo bisogno di una nuova lista “arcobaleno”, magari agganciata al carro del centro-sinistra, senza nemmeno dichiararlo apertamente.
Comunque sia, le assemblee locali di cambiaresipuò e, in particolare quella di Milano che ho avuto l’onore di presiedere insieme ad altre cinque persone (uomini e donne in misura paritaria, come lo sono stati, rigorosamente, gli interventi) hanno evidenziato, di fronte allo sfascio del paese e della politica ufficiale, una spinta unitaria da parte di tutti gli intervenuti che nessuno spirito di parte o di partito potrà più – mi auguro – soffocare. Per questo la loro riconvocazione (a Milano, il giorno 29 dicembre), quale che sia la decisione che sulla presentazione e la caratterizzazione della lista e sull’eventuale selezione delle candidature, rappresenterà comunque un momento fondamentale del consolidamento di un percorso di aggregazione su un programma comune che può coinvolgere milioni di cittadine e di cittadini, di lavoratrici e di lavoratori, di disoccupate e di disoccupati. Un risultato da cui non si deve più tornare indietro.
Fonte: Il Manifesto 19/12/12
Avevo detto – all’assemblea milanese convocata dai promotori dell’appello cambiaresipuò: secondo me un successo, quasi seicento presenze, molta attenzione, un dibattito ricco, una mozione molto impegnativa, che a parte alcune richieste di integrazioni, ha unito tutti – che quella proposta elettorale non può essere un taxi per portare in parlamento politici e partiti tradizionali che non hanno più la forza e il seguito per andarci da soli, con le loro identità logorate da un passato che li ha messi alle corde.
Ma che ora su quel taxi ci vorrebbero salire, magari anche solo per portare acqua al centro-sinistra, rispetto a cui i promotori di cambiaresipuò hanno invece fin dall’inizio dichiarato di voler rappresentare una alternativa radicale.
Cambiaresipuò, soprattutto visto il tempo a disposizione che ha bruciato la possibilità di un processo di costruzione della lista sufficientemente ampio e partecipato, è una zattera troppo fragile per sostenere senza affondare il peso dei dinosauri che hanno deciso di imbarcarsi sopra di essa. Se restassero a riva, aiutandola e sostenendola nel suo viaggio, sarebbero i benvenuti; ma una volta a bordo – da Di Pietro a Diliberto, da Ferrero a Bonelli, con relativi seguiti – rischiano di occupare tutto lo spazio disponibile, quali che siano le loro dichiarazioni di principio (di cui, peraltro, in molte delle assemblee svoltesi finora – non quella di Milano – hanno dimostrato di tenere ben poco conto). Lasciando così le candidature espresse dai movimenti, dai comitati, dagli studenti, dai Gas, dalle fabbriche in lotta, che dovrebbero risultare la ragion d’essere di questa lista, in un ruolo di pura facciata.
Anche i 10 punti sottoscritti da Ingroia, Orlando e De Magistris soprassiedono a quella che è la vera discriminante che ha spinto molti di noi a spendersi per il progetto cambiaresipuò, cioè la necessità di una radicale revisione delle politiche di austerity promosse da Bce e Commissione europea; le quali politiche, in tutti i paesi dell’Europa mediterranea, sono il cappio messo al collo dell’occupazione e del reddito dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati, dei servizi sociali – scuola, sanità, Università, ricerca, cultura, housing – dei servizi pubblici locali, del patrimonio pubblico, condannati alla privatizzazione in nome del patto di stabilità. Con la conseguenza di condurci tutti verso quel destino di sfacelo economico, sociale, ambientale, politico e della convivenza civile a cui la cosiddetta Troika ha già condannato la Grecia. Di questa “dimenticanza” le aperture verso il centro-sinistra e, di conseguenza, verso un governo allineato sulla realizzazione della cosiddetta “agenda Monti”, non sono che un logico risvolto. E forse sono anche una delle ragioni di fondo della incapacità dei firmatari di quei 10 punti di misurarsi con un progetto di radicale rinnovamento dei comportamenti politici, e della scelta di trattare il progetto cambiaresipuò, duole dirlo, un po’ troppo come “cosa loro”. Senza nemmeno sentire il bisogno di metterne i promotori a parte delle loro decisioni, fino a che non le hanno sapute dai media. E delegando tutto a un’assemblea improvvisata, convocata a ridosso di quella che cambiaresipuò ha invece indetto a conclusione di un percorso durato oltre un mese, e dopo una consultazione sviluppata in tutto il paese con più di cento assemblee locali.
Certamente questa corsa a imbarcarsi sulla lista arancione, che fin dall’inizio si è presentata come partner di cambiaresipuò e che ora funge invece da passepartout per l’ingresso nella lista comune, è un segno e una conseguenza del riscontro che la nostra proposta ha riscosso in vastissimi strati della popolazione; e che molto di più ne potrebbe riscuotere mano a mano che avanzano, pur nei tempi stretti della scadenza elettorale, la crisi del movimento cinque stelle, finalmente rivelatosi proprietà privata di un leader e di una struttura aziendale; ma anche quella del Pd, che dopo l’apparente “trionfo” delle primarie, si trova a dover competere con l’ingombrante figura di Monti, che proprio il Pd ha contribuito a edificare nel corso dell’ultimo anno. Per non parlare dei partiti della residua sinistra, non a caso impegnati in una corsa al si salvi chi può. Ma il modo di fare è in questo campo sostanza; una vera alternativa di respiro generale al montismo, che aspiri a iniziare un percorso, certo non breve, in direzione della conquista della maggioranza in tutto il paese, richiede un approccio molto più attento alle condizioni necessarie per ottenere il sostegno del mondo del lavoro e della cittadinanza attiva a cui si rivolge.
A mio avviso – parlo a titolo personale, ma so che molti dei promotori della lista e di molte organizzazioni che hanno aderito con entusiasmo a questo progetto la pensano allo stesso modo – questo modo di fare tradisce tutte le premesse su cui, anche nella morsa imposta dai tempi strettissimi della presentazione delle liste, è nato il progetto cambiaresipuò e sono cresciute nel paese le aspettative che esso sta suscitando. Mi auguro che le assemblee del 21 e del 22 dicembre (cambiaresipuò) confermino quel “passo indietro” dei leader di partito e di quel che resta dei loro apparati organizzativi che i promotori del manifesto cambiaresipuò hanno sempre proposto, suggerendo loro di aggregarsi in un comitato di sostegno e non in una occupazione delle liste. Diversamente potrebbe diventare improponibile – per lo meno per me – la prosecuzione di un percorso comune. Non abbiamo bisogno di una nuova lista “arcobaleno”, magari agganciata al carro del centro-sinistra, senza nemmeno dichiararlo apertamente.
Comunque sia, le assemblee locali di cambiaresipuò e, in particolare quella di Milano che ho avuto l’onore di presiedere insieme ad altre cinque persone (uomini e donne in misura paritaria, come lo sono stati, rigorosamente, gli interventi) hanno evidenziato, di fronte allo sfascio del paese e della politica ufficiale, una spinta unitaria da parte di tutti gli intervenuti che nessuno spirito di parte o di partito potrà più – mi auguro – soffocare. Per questo la loro riconvocazione (a Milano, il giorno 29 dicembre), quale che sia la decisione che sulla presentazione e la caratterizzazione della lista e sull’eventuale selezione delle candidature, rappresenterà comunque un momento fondamentale del consolidamento di un percorso di aggregazione su un programma comune che può coinvolgere milioni di cittadine e di cittadini, di lavoratrici e di lavoratori, di disoccupate e di disoccupati. Un risultato da cui non si deve più tornare indietro.
Fonte: Il Manifesto 19/12/12
martedì 18 dicembre 2012
Fate presto: Gino Strada, Fiorella Mannoia ed altri 70 firmano appello per il quarto polo
da controlacrisi
Le prossime elezioni politiche saranno un momento costituente per la ricostruzione del nostro paese: dalla nuova legislatura - se ci impegneremo tutti - può nascere un'Italia più civile, più onesta, più giusta. Che sostiene il pubblico e non il privato, rifiuta la guerra, combatte davvero la corruzione e l'evasione.
Ad aprire questa porta verso il futuro saranno i cittadini e le cittadine: non le banche, non i poteri forti, non le cancellerie europee.
Nelle ultime settimane si è andata formando, per molti versi in modo spontaneo e fuori dagli apparati dei partiti, un'area civica e politica che si ispira alla pagina più bella della storia italiana recente: quella dei referendum vittoriosi sull'acqua, sul nucleare e sul legittimo impedimento; quella dei nuovi sindaci che hanno vinto a sorpresa in tanti comuni piccoli e grandi.
Quest'area civica e politica, che viene oggi chiamata arancione, si è presentata il 1° e il 12 dicembre a Roma, con le assemblee di Cambiare si può e del Movimento Arancione. Ma sta già attraendo decine di migliaia di semplici cittadini così come di attivisti di associazioni, movimenti, sindacati, ma anche militanti di base ed elettori di partiti già esistenti come Sinistra Ecologia e Libertà, Partito democratico, Italia dei Valori, Federazione della sinistra, Verdi, Radicali e altri ancora.
Per questo chiediamo che ci si organizzi rapidamente in un unico progetto di unione civica arancione in vista delle elezioni del 2013.
Per questo chiediamo un atto di grande generosità e di altruismo da parte dei vertici dei partiti più vicini a questo progetto - Italia dei Valori e Rifondazione in testa - perché rinuncino al nome e al simbolo così come alla spartizione delle liste arancioni.
Per questo chiediamo un atto di grande responsabilità ad Antonio Ingroia, a Luigi De Magistris e ai promotori di Cambiare si può perché si impegnino in prima persona e insieme nella definizione dell'unione civica arancione e nella creazione di un comitato elettorale di garanzia per arrivare alle liste delle candidature e dare il via alla campagna elettorale.
Il tempo è poco, bisogna fare presto!
CLAUDIA ADAMI
ISSI ADEMI
ANDREA BAGNI
OLIVIERO BEHA
GIULIANA BELTRAME
VALERIANO CAPPELLO
ALESSANDRO CAPRICCIOLI
CHIARA CANDELA
DANIELA CARAMEL
EGIDIO CASATI
FABRIZIO CATTARUZZA
MICHELE CAVALIERE
SALVO CENTAMORE
GABRIELE CIAPPARELLA
ADRIANO COLAFRANCESCO
BARBARA COLLEVECCHIO
FRANCESCO COLONNA
CRISTINA CUCCINIELLO
EMMANUELE CURTI
MINO DENTIZZI
ARTURO DI CORINTO
FEDERICO DI FAZIO
LUCA D'INNOCENTI
VALENTINA FEULA
JULIA FILINGERI
FRANCESCA FORNARIO
ALESSANDRO GILIOLI
MAURIZIO GIUDICE
CHIARA GIUNTI
PATRIZIA GRANDICELLI
MARCELLO GUERRA
ALEXANDER HILAL BERAKI
ANDREA LECCESE
LOREDANA LIPPERINI
BRUNELLA LOTTERO
MASSIMO MALERBA
FRANZ MANNINO
FIORELLA MANNOIA
MARCELLA MARRARO
GIANFRANCO MASCIA
TERESA MASCIOPINTO
ANTONELLA MONASTRA
CATIA NAFISSI
LUCA NIVARRA
MASO NOTARIANNI
ALDO NOVE
PIERGIORGIO ODIFREDDI
MONI OVADIA
LUIGI PANDOLFI
FRANCESCO PAPETTI
DANIELA PASSERI
PIERGIORGIO PATERLINI
ITALO PATTARINI
VERONICA PASSARO
MATTEO PUCCIARELLI
MARCO QUARANTA
MASSIMO ROSSI
GABRIELLA ROSSI CRESPI
GIACOMO RUSSO SPENA
VALERIA SANFILIPPO
LUCA SAPPINO
ANTONIO SCIOTTO
GUIDO SCORZA
GINO STRADA
GLORIA TEDESCHI
EMANUELE TOSCANO
ELENA TRIMARCHI
ENZA TURRISI
GUIDO VIALE
PASQUALE VIDETTA
Le prossime elezioni politiche saranno un momento costituente per la ricostruzione del nostro paese: dalla nuova legislatura - se ci impegneremo tutti - può nascere un'Italia più civile, più onesta, più giusta. Che sostiene il pubblico e non il privato, rifiuta la guerra, combatte davvero la corruzione e l'evasione.
Ad aprire questa porta verso il futuro saranno i cittadini e le cittadine: non le banche, non i poteri forti, non le cancellerie europee.
Nelle ultime settimane si è andata formando, per molti versi in modo spontaneo e fuori dagli apparati dei partiti, un'area civica e politica che si ispira alla pagina più bella della storia italiana recente: quella dei referendum vittoriosi sull'acqua, sul nucleare e sul legittimo impedimento; quella dei nuovi sindaci che hanno vinto a sorpresa in tanti comuni piccoli e grandi.
Quest'area civica e politica, che viene oggi chiamata arancione, si è presentata il 1° e il 12 dicembre a Roma, con le assemblee di Cambiare si può e del Movimento Arancione. Ma sta già attraendo decine di migliaia di semplici cittadini così come di attivisti di associazioni, movimenti, sindacati, ma anche militanti di base ed elettori di partiti già esistenti come Sinistra Ecologia e Libertà, Partito democratico, Italia dei Valori, Federazione della sinistra, Verdi, Radicali e altri ancora.
Per questo chiediamo che ci si organizzi rapidamente in un unico progetto di unione civica arancione in vista delle elezioni del 2013.
Per questo chiediamo un atto di grande generosità e di altruismo da parte dei vertici dei partiti più vicini a questo progetto - Italia dei Valori e Rifondazione in testa - perché rinuncino al nome e al simbolo così come alla spartizione delle liste arancioni.
Per questo chiediamo un atto di grande responsabilità ad Antonio Ingroia, a Luigi De Magistris e ai promotori di Cambiare si può perché si impegnino in prima persona e insieme nella definizione dell'unione civica arancione e nella creazione di un comitato elettorale di garanzia per arrivare alle liste delle candidature e dare il via alla campagna elettorale.
Il tempo è poco, bisogna fare presto!
CLAUDIA ADAMI
ISSI ADEMI
ANDREA BAGNI
OLIVIERO BEHA
GIULIANA BELTRAME
VALERIANO CAPPELLO
ALESSANDRO CAPRICCIOLI
CHIARA CANDELA
DANIELA CARAMEL
EGIDIO CASATI
FABRIZIO CATTARUZZA
MICHELE CAVALIERE
SALVO CENTAMORE
GABRIELE CIAPPARELLA
ADRIANO COLAFRANCESCO
BARBARA COLLEVECCHIO
FRANCESCO COLONNA
CRISTINA CUCCINIELLO
EMMANUELE CURTI
MINO DENTIZZI
ARTURO DI CORINTO
FEDERICO DI FAZIO
LUCA D'INNOCENTI
VALENTINA FEULA
JULIA FILINGERI
FRANCESCA FORNARIO
ALESSANDRO GILIOLI
MAURIZIO GIUDICE
CHIARA GIUNTI
PATRIZIA GRANDICELLI
MARCELLO GUERRA
ALEXANDER HILAL BERAKI
ANDREA LECCESE
LOREDANA LIPPERINI
BRUNELLA LOTTERO
MASSIMO MALERBA
FRANZ MANNINO
FIORELLA MANNOIA
MARCELLA MARRARO
GIANFRANCO MASCIA
TERESA MASCIOPINTO
ANTONELLA MONASTRA
CATIA NAFISSI
LUCA NIVARRA
MASO NOTARIANNI
ALDO NOVE
PIERGIORGIO ODIFREDDI
MONI OVADIA
LUIGI PANDOLFI
FRANCESCO PAPETTI
DANIELA PASSERI
PIERGIORGIO PATERLINI
ITALO PATTARINI
VERONICA PASSARO
MATTEO PUCCIARELLI
MARCO QUARANTA
MASSIMO ROSSI
GABRIELLA ROSSI CRESPI
GIACOMO RUSSO SPENA
VALERIA SANFILIPPO
LUCA SAPPINO
ANTONIO SCIOTTO
GUIDO SCORZA
GINO STRADA
GLORIA TEDESCHI
EMANUELE TOSCANO
ELENA TRIMARCHI
ENZA TURRISI
GUIDO VIALE
PASQUALE VIDETTA
Addio lavoratori.
Tonino D’Orazio
Finalmente più nessuno
oggi può arrogarsi la chiacchiera di rappresentare i lavoratori.
Tutti quelli che hanno governato in questi ultimi venti anni hanno
fatto finta. Siamo al dunque. I lavoratori sono stati ingenui e
deboli. Non hanno mai voluto politicamente rappresentare se stessi.
Hanno sempre sperato che qualcuno, pietosamente, li rappresentasse,
loro e la loro condizione. Continuano a fare il tifo anche per chi
non li ama proprio. Come per la sindrome di Stoccolma, dove i
prigionieri amavano spassionatamente i loro carcerieri. E’ storico,
in fase di crisi i lavoratori votano per i padroni.
Con un Vendola che ha
promesso i suoi voti a Bersani “purché abbia un profumo di
sinistra”. Cosa pensate che Bersani abbia risposto, sapendo che un
profumo non si nega a nessuno, ovviamente di sì. Quando la poesia
raggiunge questi vertici è veramente commedia dell’arte, grande
specialità storica e riconosciuta universalmente al nostro popolo.
Sia per farla, la commedia, che per crederci.
I sindacati, grazie alla
loro autonomia, non sono riusciti a rappresentarli bene i lavoratori.
Non hanno voluto o non hanno potuto? Hanno pensato di poterlo fare
senza le leggi, solo consultando. La destra padronale no. Aver “fatto
il possibile” rappresenta semplicemente una grave sconfitta dei
vertici, ma anche di tutti gli iscritti, congressi democratici
compresi. I risultati non si possono più nascondere.
Oltre alla perdita di più
della metà del salario di questi ultimi anni (Dati Ires Cgil); alla
perdita di tutti i diritti previsti dalla dignitosa giurisprudenza
del lavoro conquistata con sacrifici e sangue in questi ultimi
cinquant’anni; una disoccupazione giovanile, e non, dilagante;
ormai saltano anche i minimi salariali e si archiviano non le 35 ma
le 40 ore settimanali (si potrà arrivare a 48 ore, come raccomandato
dalle tecnocrate direttive europee anti-cittadini europei); gli
straordinari non saranno più contrattati ma comandati e detassati,
(la Chiesa si sta arrabbiando, o fa finta, troppo tardi per la
sacralità delle domeniche, giorno del Signore, quello vero); con le
fabbriche che boccheggiano in cassa integrazione e i lavoratori
forzosamente a casa con stipendi decurtati e futuro appeso a un filo,
mentre i figli quel filo neppure ce l'hanno, grazie anche alla
“riforma” (non diciamo stupidaggini: alla fine del sistema a
riparto e poi il nulla, o le assicurazioni) delle pensioni. Con i
salari legati all’andamento delle fabbriche, (ci avrei creduto in
tempi migliori!) e con il 90% delle piccole imprese senza possibilità
di contrattare niente sembra la vittoria di Pirro. Più si “vince”,
più si perde. C’è anche la “perla” del demansionamento:
nessuno sa più quali mansioni ha, eccetto quello di ubbidire, e
diventa buono a tutto. E quella della videoregistrazione anche se vai
al bagno. Tutto normale. Siccome poi si detassano i salari legati ai
risultati dell'impresa, ricordando infidamente la non punibilità del
falso in bilancio come il massimo della trasparenza all’italiana, è
evidente la fine del contratto e della solidarietà nazionale. La
morte della confederalità sindacale e dell’unità nazionale.
Troppe porte sono state socchiuse in questi anni per non vedere
arrivare la buriana.
Non si può comunque non
condividere il sussulto di autonomia della Cgil, che dovrà
continuare in splendida solitudine a resistere alle sirene della
deregulation, che non è finita per niente, e prendere atto
definitivamente, anche se in ritardo, che l'attacco della politica e
del padronato non è «semplicemente» contro la Fiom ma contro la
Cgil intera e il sindacalismo confederale, così come l'abbiamo
conosciuto in passato, riportandoci a capo, a zero, come il gioco
dell’oca. Sfacciatamente non hanno attaccato, come fanno i lupi, la
parte più debole ma direttamente lo zoccolo duro.
Con una differenza, cioè
con i lavoratori, oggi tutti precari, proni e in ginocchio, nel
rispetto delle leggi democratiche. Non più quelli combattivi di
prima, ormai adagiati e boccheggianti oggi in una misera pensione.
Una classe politica sclerotizzata e ideologica ma tutta a destra. Un
Napolitano gongolante e perfido, invocando la pace sociale, cioè la
stabilità della macelleria sociale in atto e l’auspicio fin troppo
sostenuto del non possibile ritorno indietro dopo la sua dipartita
ormai vicina. Lacrime di coccodrillo. Un po’ come tutti i
socialdemocratici e socialisti di fine secolo scorso e di questo
inizio di secolo, che facevano da mediatori tra padroni e lavoratori
quando quest’ultimi erano utili e forti, ma che sono andati subito
a sostegno dei padroni quando sono diventati deboli, anzi hanno
aiutato al massacro del sociale sconfessando se stessi e la propria
storia iniziale. Non devo fare nomi, molti lettori potranno farli da
soli, se hanno un po’ di memoria e spirito critico. Tanto molti
sono ancora tutti lì, davanti a noi a disquisire e manovrare,
direttamente a destra. In quanto al termine “padrone” non chiedo
scusa, è ridiventato così moderno e attuale che sfido chiunque a
trovarne uno più adatto.
L’integrità del
territorio italiano non è più in pericolo per le frontiere, ma per
implosione, per quella atomizzazione di miriade di imprese grandi e
piccole, aree fisiche dove le leggi dello stato non operano più ma
solo quella dei padroni. Aree dove il cittadino cessa di esserlo e
diventa servo, modello di una nuova schiavitù. Per di più
consenziente. Il ricatto non è più tale se viene accettato.
Paese dove i sindacati
ormai settoriali diventano all’americana concorrenti tra di loro.
Una morte predeterminata. Una linea in atto in Italia dall’americano
Marchionne, ma anche del 90% del parlamento. Stiamo di nuovo dando un
esempio storico al patronato europeo. Abbiamo dato un bel Mussolini
per vent’anni e nel frattempo sono seguiti i vari Hitler, Franco,
Salazar … Poi per un trentennio un bel Partito
comunista-socialista. Ma non ne hanno voluto. Meglio Andreotti e
strani compagni di merenda. Poi abbiamo dato per vent’anni un
Berlusconi che ha insegnato a tutti come si manipola la democrazia
comprando tutti i mass media di un paese e parlando al basso ventre
dell’umanità. Molti hanno seguito, anche in altri continenti, se
non proprio direttamente. Adesso abbiamo insegnato, ma la struttura
tecnocratica dell’Unione Europea ne era già esempio, come si possa
governare di forza un paese senza essere eletti, per grazia ricevuta
e con democrazia sospesa, e si possa manipolare le leggi elettorali a
piacimento pur di rimanere in parlamento in eterno, finché morte non
li separi. Adesso abbiamo insegnato come un paese possa ridiventare,
tramite le aree di proprietà padronale, un assemblaggio di feudi,
senza leggi generali, con vassalli, valvassini e servi della gleba.
Non lo sapevamo, ma
Draghi ci ha ricordato che i nostri sogni sono finiti, insomma basta
con l’arricchimento dei lavoratori. Insomma siamo una nazione
anomala ma, se si può dire, sempre all’avanguardia della civiltà.
Pronti a bombardare Siria e Iran
di Tonino D'Orazio
Non tanto per le
provocazioni occidentali con l’aiuto di Erdogan, il turco, ma
perché si sta ripetendo per la terza volta un copione già
conosciuto. Prima arrivano i servizi segreti e militari americani,
inglesi e francesi, poi l’armamento pesante e le bombe per una
nuova “rivoluzione“ o primavera islamica.
Un furto ben organizzato
e mediaticamente spianato per la condivisione.
Appena Saddam chiese che
il suo petrolio fosse pagato in euro e non più in dollari, il paese
fu distrutto, occupato e il petrolio sequestrato.
Appena Ghedaffi ha
chiesto che il suo petrolio fosse pagato in euro il suo paese è
stato distrutto e occupato in nome delle nostre libertà estremamente
democratiche e popolari di libero mercato che permette
l’arricchimento di tutti. Popolo libero e petrolio sequestrato. Non
si può avere tutto.
Ora il problema diventa
più complicato.
In ogni continente sono
nati dei giganti. Il Brasile in America del sud, insieme all'UNASUR
(Unione delle Nazioni dell'America del Sud); la Cina e l’India in
Asia, la Russia e i suoi satelliti (che cerchiamo di strappare alle
nostre meravigliose ideologie liberiste) in Europa, il Sud Africa e
la Cina in Africa.
Da alcuni mesi i famosi
paesi del Brics (Brasile,Russia,India,Cina e Sud Africa) hanno
costituito un loro “serpente monetario” per gli scambi
commerciali tra loro, non utilizzando quindi il dollaro.
La guerra del dollaro
contro i paesi emergenti e in forte sviluppo, non sfugge più a
nessuno almeno a chi vuole capire veramente, passa attraverso la
riduzione del forte potere attrattivo dell’euro. La borghesia
europea medio alta ha scelto: meglio abbassare l’euro, terzo
potente incomodo, e schierarsi con un dollaro e una politica
neoliberista per il momento vincente e male che vada militarmente
forte. La colonia europea, con in bocca sempre roboanti parole sulla
democrazia, retta dalle destre in 23 paesi su 27, ha scelto il
velenoso ombrello del grande fratello americano. Si è schierato con
il dollaro perdente a breve termine.
Però adesso è successo
il terzo fatto grave: la Cina snobba il dollaro e paga il petrolio
iraniano in yuan, approfittando tra l’altro dello stupido,
commercialmente parlando, embargo europeo (più che americano)
sull’Iran.
Si può dire che è
l’inizio di un nuovo ordine mondiale. Se Bretton Woods è stata per
circa 30 anni (dal 1944 al 1971) il simbolo del nuovo ordine mondiale
al termine della seconda guerra mondiale, dopo il 1971 il presidente
Richard Nixon decise di interrompere la convertibilità del dollaro
in oro, rimanendo il dollaro unica misura internazionale.
Oggi l'attuale isola di
Kish. (situata a sud dell'Iran, nel Golfo Persico) potrebbe
divenire il simbolo di un nuovo ordine mondiale.
Nel luglio 2011 il
ministro del Petrolio ad interim iraniano ha inaugurato in questa
piccola isola (20.000 abitanti) la prima Borsa al mondo dove è
possibile acquistare e vendere petrolio senza avere un dollaro.
Di fatto, la prima
superpotenza del pianeta, (ormai solo militare), questo nonostante un
debito pubblico e un deficit elevatissimi, rischiano di perdere il
metro di misura che allungavano e restringevano a piacimento: il
dollaro. Perdere questo non se lo possono permettere nemmeno loro. Il
loro stesso strapotere finanziario in fondo è di carta.
Non c’è due senza tre,
rimane la guerra. I muscoli. Ma ormai i “nemici” sono troppo
potenti.
La Cina ha comunicato che
dal 6 settembre ha iniziato a compravendere petrolio in yuan (senza
passare dal dollaro) per le forniture provenienti dalla Russia, e ciò
in base a scambi nuovi con relativa certezza negli accordi del loro
nuovo “serpente monetario”. Già da giugno alcune forniture
giapponesi sono state pagate in yuan dalla Cina, sgretolando il
potente accordo commerciale tra Stati Uniti e Giappone, quest’ultimo
in gravi difficoltà economiche e strutturali di produzione, con un
debito pubblico altissimo e alle prese con i disastri e le ultime
difficoltà energetiche.
E’ ormai la Cina è il
più grande acquirente di materie prime al mondo e potrebbe quindi in
contropartita pagare in yuan, o in beni e servizi come sta avvenendo
in tutta l’Africa. Tanto che il Sud Africa è stato quasi costretto
ad aderire al Brics, pena l’essere soppiantato nel suo continente
dove la faceva da padrone.
Non è finita, ma gli Stati Uniti, forti del cappio del FMI, sottovalutano l'ALBA, l’Alleanza Boliviana per le Americhe, che possiede anche una sua propria valuta, il SUCRE, che permette un commercio tra gli stati membri indipendentemente dal dollaro americano.
La miccia della prossima
guerra potrebbe quindi essere la Siria. Israele, poverino, potenza
nucleare fuori controllo internazionale, genocida e spesso fuori di
testa, sta riscaldando i muscoli da parecchi mesi. Meno male che i
possedimenti biblici non arrivavano fino al Tigri, all’Eufrate o al
Tevere. Grave pecca nella loro motivazione politica espansionistica.
Erdogan non vede l’ora
di avere la copertura della Nato, quell’organizzazione atlantica
che ormai scorazza geograficamente dove gli pare, e comunque la Siria
è un paese Mediterraneo.
E noi non potremo non
dare loro man forte come per l’ex Iugoslavia e la Libia. Manca
ancora l’appoggio della servile ONU, ma vedrete che non troveranno
difficoltà sui cavilli.
Siamo pronti alla guerra,
con un ministro della “Difesa”, un generale bombardarolo? Ci sarà
la benedizione del garante costituzionale dell’art. 11 il grigio
Napolitano? Ma certamente, non siamo più un paese di pace, e, se
ricordo bene, da quando gli ex comunisti sono andati al governo.
Etichette:
Cina,
Economia,
guerra,
Iran,
israele,
KIsh,
petrolio,
Politica internazionale,
Russia,
Siria
sabato 15 dicembre 2012
Barnard: pensioni private, ecco a chi obbedisce la Fornero
da libreidee
Lacrime di coccodrillo: Elsa Fornero piange in pubblico annunciando il taglio delle pensioni, ma in realtà lavora da anni proprio per questo. Obiettivo: consegnare al mercato finanziario privato il patrimonio delle pensioni pubbliche italiane, aggravando così anche il deficit dello Stato. Lo afferma Paolo Barnard, che insieme all’avvocato Paola Musu ha denunciato Mario Monti e Giorgio Napolitano per il “golpe finanziario” di fine 2011. Sono già un migliaio le denunce, sottoscritte in tutta Italia: Napolitano – di cui Barnard chiede l’impeachment in Parlamento – secondo il promotore italiano della Modern Money Theory avrebbe dovuto difendere l’Italia dall’attacco speculativo dello scorso anno. Invece, il capo dello Stato «non solo ha mancato nel suo compito supremo – lo accusa l’ex inviato di “Report” – ma è stato e continua a essere pienamente complice del sovvertimento democratico ad opera dei mercati finanziari e dell’Eurozona». Parla da solo, aggiunge il giornalista, il caso sconcertante di Elsa Fornero, da anni al servizio del sistema pensionistico privato.
Uno sguardo al curriculum della ministra più detestata d’Italia aiuta a farsi un’idea: dal 1999 è stata nel Cda di Ina Assicurazioni, Fideuram Vita, Eurizon Financial Group. Poi vicepresidente della Compagnia di San Paolo e del consiglio di sorveglianza di Intesa SanPaolo, quindi nel board di Buzzi Unicem Spa e direttrice di Allianz Spa. In pratica: un virtuale conflitto d’interessi vivente, nel momento in cui entra a far parte del governo Monti, dove – con un reddito dichiarato di oltre 400.000 euro, il 6 dicembre 2011 annuncia subito la riforma delle pensioni italiane, che al 50% non superano i mille euro mensili e al 27% non vanno oltre i 500 euro. «Una riforma incostituzionale – accusa Barnard – nonché una truffa, già riconosciuta dai mercati stessi».
La riforma ammazza-pensioni entrerà in vigore nel 2013. “Business Online” la commenta così: «Pensioni sempre più lontane e sempre più esigue, a causa del nuovo meccanismo che adeguerà alle aspettative di vita i coefficienti di trasformazione in rendita e i requisiti di età». Esempio: chi oggi guadagna sui 2.500 euro, potrebbe prenderne solo 688 di pensione. Inoltre, aggiunge “Business Online”, «per avere una pensione dignitosa, il lavoratore dovrà aver versato nel corso della sua vita lavorativa almeno 300-400 mila euro di contributi, come spiegato da molti esperti». Sembra infatti che la pensione integrativa privata «possa essere l’unica via di uscita per riuscire a mantenere lo stile di vita una volta conclusa l’attività lavorativa».
La ministra, “emissaria” diretta dei colossi finanziari che gestiscono fondi pensionistici privati, vanta una strettissima “osservanza”di ogni tipo di diktat proveniente da quel mondo. Nel 2000, prende nota di una “raccomandazione” per l’Italia emessa dai tecnocrati dell’Ocse in cui la Fornero siede a fianco di Mediobanca, Generali, Invesco e Ing. Tema: estensione del sistema contributivo. Dieci anni dopo, sarà la stessa super-lobby “Business Europe” a rivolgere una “raccomandazione” agli Stati dell’Eurozona, per «mettere in relazione l’effettiva età pensionabile con l’aspettativa di vita»; indicazione che, una volta ministro, la Fornero trasformerà subito in legge. «Elsa Fornero – commenta Barnard – sa perfettamente da anni che l’affidare alla capitalizzazione le nostre pensioni è devastante per i conti dello Stato. E sa oggi che la previdenza privata è fallimentare per le tasche dei pensionati, ma tace».
Già nel 2000, al convegno “Scenari sulla previdenza privata e pubblica” promosso da Mediobanca, la Fornero concordava con l’economista Franco Modigliani: “perverso” il sistema previdenziale obbligatorio pubblico, meglio che venga «completamente rimpiazzato dalla capitalizzazione». Sin da allora, secondo Barnard, la Fornero era un tecnico dichiaratamente in conflitto d’interessi con la Costituzione, che all’articolo 41 impone che l’attività economica sia indirizzata e coordinata a fini sociali. «Impossibile che gruppi finanziari con interessi speculativi per centinaia di miliardi e che rispondono solo agli investitori possano perseguire fini sociali». Inoltre, e ancor più grave – aggiunge Barnard – Fornero e Modigliani ammettono in quel consesso privato che l’auspicata riforma delle pensioni in senso privatistico «non solo peggiorerà per decenni i bilanci dello Stato», ma «questa catastrofe di impoverimento nazionale dovrà essere ripianata dalle famigerate Austerità delle tasse, che devastano il paese produttivo e i redditi». In altre parole: «Al fine di portare immensi capitali pensionistici nelle casse dei gruppi di capitalizzazione, Fornero già nel 2000 era disposta a causare l’Economicidio dell’intera nazione».
Oggi circola in tutti gli ambienti della previdenza integrativa privata, italiana e internazionale, l’ultimo rapporto del Covip, un organo di controllo nazionale delle previdenze. Che rivela fatti sconcertanti: a fine 2011, il totale investito nelle previdenze integrative private italiane era già di 90,7 miliardi di euro. Il 58% di questi contributi versati dai lavoratori è stato investito in titoli di Stato internazionali relativamente sicuri, ma il 42% rimane investito in finanza ed equities, notoriamente ad alto rischio. «Si sappia che solo nel primo anno e mezzo della crisi finanziaria – rileva Barnard – negli Usa sono scomparsi nel nulla 2.000 miliardi di dollari di pensioni sudate una intera vita dagli americani». Altra sigla sconosciuta ai più, quella di Mefop Spa, società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione, fondata nel 1999. Soci: Allianz, Intesa SanPaolo, Unipol, Generali, Unicredit. Missione della lobby: sviluppare la previdenza complementare, privata.
Oggi, rivela Barnard, il ministero dell’economia detiene la maggioranza assoluta delle azioni di Mefop Spa. Cioè: «I pubblici amministratori delle nostre vite economiche, tenuti all’assoluta imparzialità dalla Costituzione italiana, sono azionisti di maggioranza di una lobby di speculatori previdenziali privati. E non poteva mancare il solito nome: nel 1999, nel comitato scientifico di Mefop Spa sfoggiava lei, Elsa Fornero». Che, da allora, non ha mai allentato l’impegno per la privatizzazione delle pensioni, indebolendo la previdenza pubblica. Nel 2003 a Bruxelles presenta un dossier al Ceps, il Centre for European Policy Studies, gruppo controllato dalla American Chamber of Commerce e dalla City of London. Sponsor dell’evento: Allianz, con 392 miliardi di dollari in gestioni finanziarie, ed European Federation of Retirement Provision, che è la top-lobby delle pensioni integrative in Europa con 3.500 miliardi di euro in gestioni finanziarie.
Nel marzo 2010, continua Barnard, la Fornero è all’European Policy Center per la conferenza “Challenge Europe 2020”, dove sostiene, testualmente, che «il metodo più efficace per prevenire l’impoverimento della terza età è di farli stare di più al lavoro, sia riportando più anziani al lavoro che alzandogli l’età media pensionabile». Nei mercati del lavoro “flessibile”, per Elsa Fornero, «i redditi devono stare di pari passo con la produttività: crescono normalmente fino all’età media, e calano quando il lavoratore si avvicina alla pensione». Principi, osserva Barnard, che «rasentano l’incubo di un regime socialmente nazista: si auspica esplicitamente che l’anziano sia forzosamente riportato al lavoro, che gli si impedisca di godere del diritto al riposo e che, dopo una vita di lavoro per il paese, lo si penalizzi nel reddito in quanto non più macchina produttiva per il profitto, in una logica che lo deumanizza».
Oltre «all’abominio intellettuale di questa sicaria dell’Economicidio sociale», secondo Barnard si ravvisa l’ennesima violazione della Costituzione, che all’articolo 36 garantisce il diritto a una pensione equa e “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ovvero: la Costituzione non ammette che, a parità di qualità e quantità di lavoro, vi possa essere una discriminazione di reddito in base all’avanzamento dell’età. Ma Elsa Fornero non demorde, e spesso compare al fianco di Assogestioni, la struttura di Domenico Siniscalco che arriva a gestire 974 miliardi di euro di investimenti. Al Salone del Risparmio dell’aprile 2012, con tutti i big della finanza presenti (nonché lettere di plauso di Monti e Napolitano), la Fornero rassicura il settore privato: «Qualsiasi lavoro finanziato da fondi pubblici è escluso», chiarisce. Problema: «Per i fondi pensione privati il bicchiere è ancora mezzo vuoto»? Niente paura: «Il governo farà la sua parte».
I gruppi finanziari sponsor e partecipanti a quell’evento, fa notare Barnard, assommano interessi di speculazione finanziaria che raggiungono una cifra impossibile da calcolare per via delle dimensioni inimmaginabili. Ad ascoltare le parole di Elsa Fornero c’erano Aberdeen, Bnp Paribas, Invesco, Eurizon Capital, Jp Morgan Asset Management, Pioneer Investments, Credit Suisse, Morgan Stanley, Pimco, Ubs, Fineco, Deutsche Bank, Natixis, Hsbc, Unicredit e molti altri, di pari stazza mondiale. E non è finita. Un mese dopo, i leader italiani della promozione finanziaria sono all’Unione Industriali di Torino: Banca Fideuram, Banca Generali, Finanza & Futuro Banca, Ubi Banca Private Investment, Assoreti. Tema centrale, “il contributo delle reti di promotori finanziari allo sviluppo della previdenza complementare in Italia”. In apertura, Elsa Fornero avverte: «Dalla riforma delle pensioni non si torna indietro».
E arriviamo al fatidico novembre 2012, con la massima assise mondiale dei fondi pensione privati, il World Pension Summit di Amsterdam. Sponsor planetari, che portano sul tavolo olandese interessi finanziari per un totale di 2.798 miliardi di euro, cifra di quasi mille miliardi superiore al Pil italiano, ma divisa in nove gruppi privati: Pensioen Federatie, Fidelity Worldwide Investment, Mn, Deloitte, Skagen Funds, Delta Lloyd Group, Adveq, Ing, Jp Morgan Asset Management’s. Elsa Fornero è fra i relatori, unico ministro delle politiche sociali: in quella sede, sostiene Barnard, la professoressa torinese «compie quello che è forse l’atto di ammissione più grave della storia della Repubblica italiana». In una convention a porte chiuse, la Fornero dichiara che le modifiche all’attuale sistema previdenziale «erano necessarie per compiacere i mercati finanziari, altrimenti ci sarebbero state conseguenze devastanti per il paese».
Giù la maschera, siamo alla capitolazione definitiva: «Lo Stato non esiste più, Monti e la Fornero lavorano per i mercati violando la Costituzione come mai dal 1948 a oggi». Per Paolo Barnard, «il colpo di Stato finanziario che ha posto definitivamente fine alla sovranità di Camera e Senato è una realtà», e pertanto «l’indegno presidente della Repubblica Giorgio Napolitano va messo in stato d’accusa dal Parlamento per alto tradimento». Semplicemente sconcertante, per il giornalista promotore dell’economia monetaria democratica formulata da Warren Mosler, che un ministro lavori – ormai apertamente – per dirottare sul mercato privato le pensioni pubbliche, come vogliono le potenti lobby da cui la stessa Fornero proviene. Barnard chiede che il “golpe” finanziario finisca sotto processo, cominciando da «due delle più indegne figure della storia democratica italiana», ovvero «la sicaria dell’Economicidio italiano e lobbista dei gruppi finanziari Elsa Fornero» nonché «l’ex comunista Giorgio Napolitano, già lungamente compromesso coi poteri forti del Council on Foreign Relations americano dagli anni ‘70». Dovranno «rispondere, a noi cittadini, dell’immane danno alla democrazia».
Lacrime di coccodrillo: Elsa Fornero piange in pubblico annunciando il taglio delle pensioni, ma in realtà lavora da anni proprio per questo. Obiettivo: consegnare al mercato finanziario privato il patrimonio delle pensioni pubbliche italiane, aggravando così anche il deficit dello Stato. Lo afferma Paolo Barnard, che insieme all’avvocato Paola Musu ha denunciato Mario Monti e Giorgio Napolitano per il “golpe finanziario” di fine 2011. Sono già un migliaio le denunce, sottoscritte in tutta Italia: Napolitano – di cui Barnard chiede l’impeachment in Parlamento – secondo il promotore italiano della Modern Money Theory avrebbe dovuto difendere l’Italia dall’attacco speculativo dello scorso anno. Invece, il capo dello Stato «non solo ha mancato nel suo compito supremo – lo accusa l’ex inviato di “Report” – ma è stato e continua a essere pienamente complice del sovvertimento democratico ad opera dei mercati finanziari e dell’Eurozona». Parla da solo, aggiunge il giornalista, il caso sconcertante di Elsa Fornero, da anni al servizio del sistema pensionistico privato.
Uno sguardo al curriculum della ministra più detestata d’Italia aiuta a farsi un’idea: dal 1999 è stata nel Cda di Ina Assicurazioni, Fideuram Vita, Eurizon Financial Group. Poi vicepresidente della Compagnia di San Paolo e del consiglio di sorveglianza di Intesa SanPaolo, quindi nel board di Buzzi Unicem Spa e direttrice di Allianz Spa. In pratica: un virtuale conflitto d’interessi vivente, nel momento in cui entra a far parte del governo Monti, dove – con un reddito dichiarato di oltre 400.000 euro, il 6 dicembre 2011 annuncia subito la riforma delle pensioni italiane, che al 50% non superano i mille euro mensili e al 27% non vanno oltre i 500 euro. «Una riforma incostituzionale – accusa Barnard – nonché una truffa, già riconosciuta dai mercati stessi».
La riforma ammazza-pensioni entrerà in vigore nel 2013. “Business Online” la commenta così: «Pensioni sempre più lontane e sempre più esigue, a causa del nuovo meccanismo che adeguerà alle aspettative di vita i coefficienti di trasformazione in rendita e i requisiti di età». Esempio: chi oggi guadagna sui 2.500 euro, potrebbe prenderne solo 688 di pensione. Inoltre, aggiunge “Business Online”, «per avere una pensione dignitosa, il lavoratore dovrà aver versato nel corso della sua vita lavorativa almeno 300-400 mila euro di contributi, come spiegato da molti esperti». Sembra infatti che la pensione integrativa privata «possa essere l’unica via di uscita per riuscire a mantenere lo stile di vita una volta conclusa l’attività lavorativa».
La ministra, “emissaria” diretta dei colossi finanziari che gestiscono fondi pensionistici privati, vanta una strettissima “osservanza”di ogni tipo di diktat proveniente da quel mondo. Nel 2000, prende nota di una “raccomandazione” per l’Italia emessa dai tecnocrati dell’Ocse in cui la Fornero siede a fianco di Mediobanca, Generali, Invesco e Ing. Tema: estensione del sistema contributivo. Dieci anni dopo, sarà la stessa super-lobby “Business Europe” a rivolgere una “raccomandazione” agli Stati dell’Eurozona, per «mettere in relazione l’effettiva età pensionabile con l’aspettativa di vita»; indicazione che, una volta ministro, la Fornero trasformerà subito in legge. «Elsa Fornero – commenta Barnard – sa perfettamente da anni che l’affidare alla capitalizzazione le nostre pensioni è devastante per i conti dello Stato. E sa oggi che la previdenza privata è fallimentare per le tasche dei pensionati, ma tace».
Già nel 2000, al convegno “Scenari sulla previdenza privata e pubblica” promosso da Mediobanca, la Fornero concordava con l’economista Franco Modigliani: “perverso” il sistema previdenziale obbligatorio pubblico, meglio che venga «completamente rimpiazzato dalla capitalizzazione». Sin da allora, secondo Barnard, la Fornero era un tecnico dichiaratamente in conflitto d’interessi con la Costituzione, che all’articolo 41 impone che l’attività economica sia indirizzata e coordinata a fini sociali. «Impossibile che gruppi finanziari con interessi speculativi per centinaia di miliardi e che rispondono solo agli investitori possano perseguire fini sociali». Inoltre, e ancor più grave – aggiunge Barnard – Fornero e Modigliani ammettono in quel consesso privato che l’auspicata riforma delle pensioni in senso privatistico «non solo peggiorerà per decenni i bilanci dello Stato», ma «questa catastrofe di impoverimento nazionale dovrà essere ripianata dalle famigerate Austerità delle tasse, che devastano il paese produttivo e i redditi». In altre parole: «Al fine di portare immensi capitali pensionistici nelle casse dei gruppi di capitalizzazione, Fornero già nel 2000 era disposta a causare l’Economicidio dell’intera nazione».
Oggi circola in tutti gli ambienti della previdenza integrativa privata, italiana e internazionale, l’ultimo rapporto del Covip, un organo di controllo nazionale delle previdenze. Che rivela fatti sconcertanti: a fine 2011, il totale investito nelle previdenze integrative private italiane era già di 90,7 miliardi di euro. Il 58% di questi contributi versati dai lavoratori è stato investito in titoli di Stato internazionali relativamente sicuri, ma il 42% rimane investito in finanza ed equities, notoriamente ad alto rischio. «Si sappia che solo nel primo anno e mezzo della crisi finanziaria – rileva Barnard – negli Usa sono scomparsi nel nulla 2.000 miliardi di dollari di pensioni sudate una intera vita dagli americani». Altra sigla sconosciuta ai più, quella di Mefop Spa, società per lo sviluppo del mercato dei fondi pensione, fondata nel 1999. Soci: Allianz, Intesa SanPaolo, Unipol, Generali, Unicredit. Missione della lobby: sviluppare la previdenza complementare, privata.
Oggi, rivela Barnard, il ministero dell’economia detiene la maggioranza assoluta delle azioni di Mefop Spa. Cioè: «I pubblici amministratori delle nostre vite economiche, tenuti all’assoluta imparzialità dalla Costituzione italiana, sono azionisti di maggioranza di una lobby di speculatori previdenziali privati. E non poteva mancare il solito nome: nel 1999, nel comitato scientifico di Mefop Spa sfoggiava lei, Elsa Fornero». Che, da allora, non ha mai allentato l’impegno per la privatizzazione delle pensioni, indebolendo la previdenza pubblica. Nel 2003 a Bruxelles presenta un dossier al Ceps, il Centre for European Policy Studies, gruppo controllato dalla American Chamber of Commerce e dalla City of London. Sponsor dell’evento: Allianz, con 392 miliardi di dollari in gestioni finanziarie, ed European Federation of Retirement Provision, che è la top-lobby delle pensioni integrative in Europa con 3.500 miliardi di euro in gestioni finanziarie.
Nel marzo 2010, continua Barnard, la Fornero è all’European Policy Center per la conferenza “Challenge Europe 2020”, dove sostiene, testualmente, che «il metodo più efficace per prevenire l’impoverimento della terza età è di farli stare di più al lavoro, sia riportando più anziani al lavoro che alzandogli l’età media pensionabile». Nei mercati del lavoro “flessibile”, per Elsa Fornero, «i redditi devono stare di pari passo con la produttività: crescono normalmente fino all’età media, e calano quando il lavoratore si avvicina alla pensione». Principi, osserva Barnard, che «rasentano l’incubo di un regime socialmente nazista: si auspica esplicitamente che l’anziano sia forzosamente riportato al lavoro, che gli si impedisca di godere del diritto al riposo e che, dopo una vita di lavoro per il paese, lo si penalizzi nel reddito in quanto non più macchina produttiva per il profitto, in una logica che lo deumanizza».
Oltre «all’abominio intellettuale di questa sicaria dell’Economicidio sociale», secondo Barnard si ravvisa l’ennesima violazione della Costituzione, che all’articolo 36 garantisce il diritto a una pensione equa e “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Ovvero: la Costituzione non ammette che, a parità di qualità e quantità di lavoro, vi possa essere una discriminazione di reddito in base all’avanzamento dell’età. Ma Elsa Fornero non demorde, e spesso compare al fianco di Assogestioni, la struttura di Domenico Siniscalco che arriva a gestire 974 miliardi di euro di investimenti. Al Salone del Risparmio dell’aprile 2012, con tutti i big della finanza presenti (nonché lettere di plauso di Monti e Napolitano), la Fornero rassicura il settore privato: «Qualsiasi lavoro finanziato da fondi pubblici è escluso», chiarisce. Problema: «Per i fondi pensione privati il bicchiere è ancora mezzo vuoto»? Niente paura: «Il governo farà la sua parte».
I gruppi finanziari sponsor e partecipanti a quell’evento, fa notare Barnard, assommano interessi di speculazione finanziaria che raggiungono una cifra impossibile da calcolare per via delle dimensioni inimmaginabili. Ad ascoltare le parole di Elsa Fornero c’erano Aberdeen, Bnp Paribas, Invesco, Eurizon Capital, Jp Morgan Asset Management, Pioneer Investments, Credit Suisse, Morgan Stanley, Pimco, Ubs, Fineco, Deutsche Bank, Natixis, Hsbc, Unicredit e molti altri, di pari stazza mondiale. E non è finita. Un mese dopo, i leader italiani della promozione finanziaria sono all’Unione Industriali di Torino: Banca Fideuram, Banca Generali, Finanza & Futuro Banca, Ubi Banca Private Investment, Assoreti. Tema centrale, “il contributo delle reti di promotori finanziari allo sviluppo della previdenza complementare in Italia”. In apertura, Elsa Fornero avverte: «Dalla riforma delle pensioni non si torna indietro».
E arriviamo al fatidico novembre 2012, con la massima assise mondiale dei fondi pensione privati, il World Pension Summit di Amsterdam. Sponsor planetari, che portano sul tavolo olandese interessi finanziari per un totale di 2.798 miliardi di euro, cifra di quasi mille miliardi superiore al Pil italiano, ma divisa in nove gruppi privati: Pensioen Federatie, Fidelity Worldwide Investment, Mn, Deloitte, Skagen Funds, Delta Lloyd Group, Adveq, Ing, Jp Morgan Asset Management’s. Elsa Fornero è fra i relatori, unico ministro delle politiche sociali: in quella sede, sostiene Barnard, la professoressa torinese «compie quello che è forse l’atto di ammissione più grave della storia della Repubblica italiana». In una convention a porte chiuse, la Fornero dichiara che le modifiche all’attuale sistema previdenziale «erano necessarie per compiacere i mercati finanziari, altrimenti ci sarebbero state conseguenze devastanti per il paese».
Giù la maschera, siamo alla capitolazione definitiva: «Lo Stato non esiste più, Monti e la Fornero lavorano per i mercati violando la Costituzione come mai dal 1948 a oggi». Per Paolo Barnard, «il colpo di Stato finanziario che ha posto definitivamente fine alla sovranità di Camera e Senato è una realtà», e pertanto «l’indegno presidente della Repubblica Giorgio Napolitano va messo in stato d’accusa dal Parlamento per alto tradimento». Semplicemente sconcertante, per il giornalista promotore dell’economia monetaria democratica formulata da Warren Mosler, che un ministro lavori – ormai apertamente – per dirottare sul mercato privato le pensioni pubbliche, come vogliono le potenti lobby da cui la stessa Fornero proviene. Barnard chiede che il “golpe” finanziario finisca sotto processo, cominciando da «due delle più indegne figure della storia democratica italiana», ovvero «la sicaria dell’Economicidio italiano e lobbista dei gruppi finanziari Elsa Fornero» nonché «l’ex comunista Giorgio Napolitano, già lungamente compromesso coi poteri forti del Council on Foreign Relations americano dagli anni ‘70». Dovranno «rispondere, a noi cittadini, dell’immane danno alla democrazia».
Shadow Banking - Il Sistema Bancario Ombra
Come Wall Street ha
“privatizzato” la Creazione di Moneta
di Mike Whitney (da
Counterpunch)
traduzione di Domenico
D'Amico
I
legislatori si preoccupano per la crescita esplosiva del sistema
bancario ombra, e fanno benissimo. Le banche ombra sono state al
centro dell'ultima crisi finanziaria, e lo saranno anche per la
prossima. Non c'è il minimo dubbio. È semplicemente impossibile
tenere in piedi un sistema nel quale istituzioni finanziarie
non-bancarie, sottratte a qualsiasi normativa, sono in grado di
creare la propria moneta (credito) senza né controllo né
supervisione. Il denaro che hanno creato – attraverso operazioni
extra-contabili, cartolarizzazioni [1], recupero crediti o altre
enormi operazioni di leva finanziaria [2] incontrollate – si
immette nell'economia, crea una domanda artificiale, fa diminuire la
disoccupazione e stimola la crescita. Ma quando il ciclo si inverte
di colpo (e i debiti non vengono pagati in tempo), allora le banche
ombra dalla capitalizzazione fragile cominciano a fallire l'una dopo
l'altra, creando una catena di bancarotte che fanno precipitare le
borse, mentre l'economia cade in una crisi a lungo termine.
Vi
ricorda qualcosa?
Il
motivo per cui l'economia globale è ancora un disastro cinque anni
interi dopo il fallimento della Lehman Brothers, è perché questo
sistema fortemente difettoso – che in precedenza aveva generato il
40% del credito statunitense – si stava ancora rimettendo in piedi.
Ma ora, secondo un nuovo rapporto del Financial Stability Board, il
sistema bancario ombra è tornato in gioco, più grande che mai.
L'FSB ha rilevato che gli strumenti finanziari in mano alle banche
ombra sono arrivati a valere 67.000 miliardi di dollari, una somma
che è quasi pari al PIL mondiale (69,97 bilioni) e maggiore dei 62
bilioni presenti nel sistema prima del crollo del 2008. Più il
sistema bancario ombra cresce, più aumenta il rischio di un'altra
crisi finanziaria.
Ma
cos'è il sistema bancario ombra, e come funziona?
Questa
è la definizione di Investopedia:
“Gli intermediari finanziari che facilitano la creazione di credito all'interno del sistema finanziario globale, i cui membri, però, non sono soggetti a una supervisione normativa. Il sistema bancario ombra può riferirsi anche ad attività non regolamentate da parte di istituzioni regolamentate.Gli esempi di intermediari non soggetti a norma includono i fondi speculativi, derivati non quotati e altri strumenti finanziari non quotati. Tra le attività non regolate da parte di istituzioni regolate ci sono i credit default swap [3].Il sistema bancario ombra è sfuggito a ogni regolamentazione innanzitutto perché non tratta i tradizionali depositi bancari. Ne è conseguito che molte di quelle istituzioni hanno potuto impiegare liquidità, credito e transazioni a rischio più alto del normale, senza dovere avere i capitali accantonati commisurati al rischio. Dopo il crollo dei subprime del 2008, le attività del sistema bancario ombra si è ritrovato sotto crescente osservazione e regolamentazione.” (Investopedia)
Può
darsi che il sistema bancario ombra sia “sotto crescente
osservazione”, ma non è stato fatto un bel nulla per risolvere i
suoi problemi. Le banche e i loro lobbisti hanno fatto fallire tutte
le riforme ragionevoli che avrebbero reso il sistema più sicuro.
Invece siamo punto e da capo, con un sistema di crediti che dilaga
sfrenato per mezzo – secondo le parole di Paul McCulley della Pimco
- “un intero assortimento di società veicolo [4] non bancarie,
veicoli e strutture sostenute a debito”. Ciò a cui si assiste, in
sintesi, è la privatizzazione della creazione di moneta.
Istituzioni finanziarie private di ogni genere stanno incrementando
la quantità di credito circolante nel sistema, nonostante
l'inaffidabilità dei collaterali che utilizzano e il pericolo di
ritrovarsi senza sufficienti capitali per onorare le richieste in
caso di “corsa agli sportelli”.
Spiegamoci
meglio: quando una banca eroga un mutuo, è tenuta a
tenere
in cassa una certa quantità di capitale relativa al prestito, nel
caso questo non venga onorato. Ma se la banca cartolarizza il mutuo,
cioè lo spezzetta e lo mischia con altri mutui, per poi venderlo
come un titolo (mortgage backed security – titolo sostenuto da un
mutuo), allora la banca non è più tenuta a trattenere capitale
corrispondente allo strumento finanziario. In altre parole, la banca
ha creato denaro (credito) dal nulla. È il fine ultimo delle banche,
massimizzare i profitti senza utilizzare alcun capitale.
Che
differenza c'è con la contraffazione?
Assolutamente
nessuna. Le banche stanno creando “quasi denaro”, o quello che
Marx chiamava “capitale fittizio”, senza le risorse sufficienti,
senza supervisione, e senza alcuna considerazione per il danno che
potrebbero arrecare all'economia reale quando i loro schemi
piramidali vanno a gambe all'aria. Quel che conta è il profitto,
tutto il resto passa in secondo piano.
Viviamo
in un sistema economico in cui le banche centrali non hanno più il
controllo del flusso di valuta. I tassi di interesse svolgono ormai
solo un ruolo minore in questo nuovo paradigma in cui speculatori
dediti al rischio possono moltiplicare il denaro di molti ordini di
grandezza semplicemente aumentando il loro indebitamento. Questo
nuovo fenomeno ha intensificato l'instabilità del sistema e ha
causato un danno incalcolabile all'economia reale. Tenete a mente che
il ground zero della crisi finanziaria fu una banca ombra di nome
The Reserve Primary Fund. È lì che sono veramente cominciati i
guai.
Nel
2008, il Reserve Primary Fund (che aveva prestato alla Lehman
Brothers 785 milioni di dollari, ricevendone in cambio cambiali a
breve chiamate “commercial papers”) non riuscì a tener dietro ai
ritiri dei clienti preoccupati della salute finanziaria del fondo. Il
crollo di fiducia produsse un assalto ai mercati monetari che mando a
picco le quotazioni dei titoli. Ecco come Bloomberg riassume la
vicenda:
“Martedì 16 settembre l'assalto al Reserve Primary continuò. Tra il momento in cui la Lehman invocava il Capitolo 11 [annunciava il fallimento] e le 15 di martedì, gli investitori avevano chiesto indietro 39,9 miliardi, più della metà delle disponibilità del fondo, secondo Crane Data.Gli amministratori del Reserve ordinarono ai dipendenti di vendere il debito della Lehman, secondo quanto riferisce la SEC.Non si trovò nemmeno un compratore.Alle 16 gli amministratori valutarono che l'investimento di 785 milioni di dollari non valeva più nulla. Con tutti i capitali ritirati dal fondo, il valore di una singola azione crollò a 97 centesimi.Gli uffici investimenti della Legg Mason, della Janus Capital Group Inc., della Northern Trust Corp., della Evergreen e della Columbia Management (già della Bank of America Corp.) furono tutti in grado di iniettare contante nei loro fondi per compensare le perdite o acquistarne i titoli.La Putnam chiuse il suo Prime Money Market Fund il 18 settembre, e vendette più tardi i titoli del fondo alla Federated Investors di Pittsburgh.Almeno 20 amministratori di fondi furono costretti a cercare aiuto finanziario o a vendere pacchetti azionari per mantenerne il valore al netto di un dollaro [5], secondo i documenti sul sito della SEC”(Sleep-At-Night-Money Lost in Lehman Lesson Missing $63 Billion, Bloomberg)
La notizia che il Primary Reserve aveva sfondato al ribasso la fatale quota di un dollaro per azione diffuse il panico in tutti i mercati del mondo, mandando i titoli in caduta libera. È stato il Primary Reserve la causa prossima della crisi finanziaria e del crollo globale, non i mutui subprime o il fallimento della Lehman Brothers. È un fatto che i media trascurano per nascondere i pericoli intrinseci del sistema ombra, un sistema che è traballante e prono alla crisi oggi come lo era nel settembre 2008.
Sebbene esistano metodi per rendere il sistema bancario ombra più sicuro, le banche e i loro lobbisti si sono opposti a qualsiasi cambiamento del sistema attuale. Di recente le banche hanno inferto una bruciante sconfitta alla presidente della Securities and Exchange Commission, Mary Schapiro, che stava premendo per piccole modifiche nella rendicontazione del mercato monetario che avrebbero reso l'area critica del sistema ombra più sicura e meno suscettibile agli “assalti allo sportello”. La bastonatura inflitta a Schapiro dalla strapotente industria dei servizi finanziari ha propagato la sua onda d'urto per tutta Washington, dove perfino i compagni di merende di Wall Street – come Ben Bernanke e il Segretario al Tesoro Timothy Geithner – si sono dati una svegliata. Si sono perciò uniti alla lotta per introdurre modeste regolamentazioni in un sistema di mercato monetario fuori controllo che minaccia di far crollare il sistema finanziario per la seconda volta in meno di un decennio.
Tenete conto che, da qualsiasi punto di vista, i cambiamenti desiderati da Geithner, Bernanke e Schapiro sono ben poca cosa. Si tratterebbe di istituire “un valore delle quote al netto oscillante, al posto dell'attuale prezzo fissato,” o maggior capitale per salvaguardare gli investimenti nei fondi del mercato valutario (solo un 3%) nel caso si scatenasse il panico e gli investitori volessero subito indietro i loro soldi. Sembra ragionevole, non è vero? Ma anche così, le banche hanno rifiutato qualsiasi cambiamento. Ritengono di avere il diritto di ingannare gli investitori sui rischi che si corrono mettendo il proprio denaro in depositi monetari non assicurati. Non ritengono di dovere avere abbastanza riserve da coprire i prelievi in caso di una “corsa allo sportello”. Hanno deciso che i profitti sono più importanti delle responsabilità sociali e della stabilità del sistema. Finora Wall Street ha scongiurato tutti i tentativi di riforma delle regolamentazioni. Le banche e i loro alleati al Congresso hanno fatto polpette della Dodd Frank, la legge di riforma che avrebbe dovuto prevenire un'altra crisi finanziaria. Ecco come ha riassunto la vicenda Matt Taibbi in un articolo su Rolling Stone:
“Con le sue 2300 pagine, la nuova legge apparentemente doveva riscrivere le regole per Wall Street. Doveva mettere fine ai prestiti predatori del mercato dei mutui, dare un giro di vite alle tariffe e more occulte nei contratti creditizi, e creare un potente e nuovo Consumer Financial Protection Bureau [Ufficio per la Protezione Finanziaria del Consumatore] per salvaguardare il comune consumatore. Alle grandi banche sarebbe stato vietato di giocare d'azzardo coi soldi dei contribuenti, e una nuova serie di norme avrebbero frenato gli speculatori il genere di scommesse spericolate che causano violenti saliscendi nei prezzi di cibo ed energia. Non ci sarebbe stata più nessuna AIG, e il mondo non avrebbe più dovuto affrontare un'apocalisse finanziaria nel caso una banca come la Lehman Brothers dovesse fallire.Cosa più importante, anche nel caso che una merdata infernale come quella dovesse capitare di nuovo, la Dodd Frank garantiva che non avremmo dovuto pagare di tasca nostra. “Non verrà mai più chiesto al popolo americano di pagare il conto per gli errori di Wall Street,” prometteva Obama. “Non ci saranno altri salvataggi a spese dei contribuenti. Punto e basta.”A due anni da allora, la Dodd Frank sta tirando gli ultimi sul suo letto di morte. Il mastodontico piano di riforma ha fatto la fine del pesce di Il Vecchio e il Mare di Hemingway – non si fa in tempo a prenderlo all'amo che gli squali lo scarnificano, molto prima di giungere a riva.”(How Wall Street Killed Finacial Reform [Come Wall Street Ha Fatto Fuori la Riforma Fiannziaria], Matt Taibbi, Rolling Stone)
Il Congresso, la Casa Bianca e la SEC sono tutti rersponsabili dello stato di fragilità del sistema finanziario e del fatto che il sistema bancario ombra continui a sfuggire a una normativa di controllo. A questo caos si sarebbe dovuto rimediare molto tempo fa, e invece il sistema bancario fantasma sta conoscendo una crescita impetuosa, aggiungendo migliaia di miliardi al flusso monetario e portando il sistema ulteriormente verso il disastro. È sconvolgente.
Mike Whitney vive nello stato di Washington. È coautore di Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion (AK Press). Hopeless è anche disponibile nella versione Kindle. Lo si può contattare all'indirizzo fergiewhitney@msn.com.
Alcune frasi sono rese in neretto per iniziativa del traduttore.
Note
del traduttore
[1] “La
cartolarizzazione dei crediti (Securization) è un'operazione
finanziaria che consiste nella cessione a titolo oneroso di un
portafoglio di crediti pecuniari o di altre attività finanziarie non
negoziabili, individuabili anche in blocco, capaci di generare flussi
di cassa pluriennali.
I
crediti vengono ceduti da una o più aziende (Originator) ad una
società-veicolo (SPV) che, a fronte delle attività cedute, emette
titoli negoziabili da collocarsi sui mercati nazionali o
internazionali.” [Unicredit]
[2] Leva finanziaria. In questo caso non si parla
genericamente di indebitamento, ma dei vantaggi che si ottengono se
la differenza tra la redditività sul capitale investito da una
società (ROI) e il tasso di remunerazione del capitale preso a
prestito è un numero positivo. In questo caso “l’effetto
di leva finanziaria è positivo, per questo l’aumento
dell’indebitamento dell’impresa fa aumentare il ROE
[tasso di redditività del capitale proprio] poiché il capitale
preso a prestito ed investito nell’impresa rende più di quanto
costa e tale differenza è lucrata dai detentori del capitale di
rischio.” [Blustring.it]
[3]
“Uno swap è
un baratto, e in questo caso il baratto consiste in questo: la parte
A paga periodicamente una somma alla parte B, e la parte B in cambio
si impegna a rifondere alla parte A il valore facciale di un titolo
C, nel caso il debitore C vada in bancarotta. Insomma, A ha comprato
l'obbligazione emessa da C, ma A vuole esser sicuro che C rimborsi il
capitale alla scadenza. La finanza ha creato questo strumento di
copertura del rischio, e il credit default swap è in effetti come
una polizza di assicurazione. Se, per esempio, il valore dei titoli
acquistati è di 100mila euro (facciali), e il cds è di 120 punti
base, vuol dire che A deve pagare ogni anno 1200 euro per essere
sicuro del rimborso. Questi cds sono quotati in mercati over the
counter [cioè non regolati - ndr], e se il costo dovesse balzare,
mettiamo, a 800 punti base, vuol dire che il mercato teme che il
debitore C avrà difficoltà a far fronte ai propri impegni.”
[IlSole24Ore]
“I
CDS sono contratti para-assicurativi che vengono venduti come
protezione contro I fallimenti dei prestiti, ma I CDS non sono
normali assicurazioni. Le compagnie assicurative sono regolate dal
governo con l'imposizione di riserve, limitazioni statutarie e
controlli periodici da parte di contabili che si assicurano che ci
siano I soldi per compensare eventuali indennizzi. I CDS sono
scommesse tra privati, e la Federal Reserve, sin dai tempi di Alan
Greenspan, ha insistito che i regolatori non ci mettano becco.” [da
Ellen Brown - Credit
Default Swaps: Evolving Financial Meltdown and Derivative Disaster Du
Jour –
Global
Research]
[4]
Conduit: “è conosciuto anche come special purpose entity, special
purpose vehicle o ‘società veicolo'. Si tratta di un ente
societario creato per uno scopo specifico, di solito – ma non
sempre – da un istituto finanziario. Per esempio, se una banca
vuole cartolarizzare una serie di prestiti immobiliari, conferisce
questi prestiti a una ‘società veicolo' appositamente creata, e su
questa base di attività la nuova società emette i titoli
cartolarizzati.” [ilSole24Ore]
[5]
Il Net Asset Value, in questo caso, è il valore netto di una quota
di un fondo di investimento. La soglia critica di un dollaro
rappresenta una sorta di punto di non ritorno verso il disastro,
perché si ritiene che, come minimo, un dollaro investito in un fondo
debba comunque valere almeno un dollaro.
Iscriviti a:
Post (Atom)
Il racconto truccato del conflitto previdenziale
di Matteo Bortolon da Il Manifesto Le pensioni sono sotto attacco. Non a singhiozzo, non in fasi circoscritte: sempre. Tale conclu...
-
di Domenico D'Amico Repetita iuvant , ho pensato di fronte al libro di Michel Floquet ( Triste America , Neri Pozza 2016, pagg. 2...
-
di Jon Schwarz (da A Tiny Revolution ) traduzione per Doppiocieco di Domenico D'Amico Una delle cose grandiose dell'essere america...